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Chiamati alla relazione

Meditazione di S.E. Mons. Francesco Cacucci, Arcivescovo di Bari-Bitonto nella Giornata di Spiritualità per il Clero del Lunedì Santo. Oasi S. Maria, Cassano Murge, lunedì 25 marzo 2013

1) La chiamata di Levi/Matteo

Per introdurci nel mistero di questa settimana, scegliamo la prospettiva di uno sguardo particolare: quello di San Matteo. Mettiamo davanti a noi lo sguardo di Levi, quello di Gesù, le loro relazioni e tutte le diverse relazioni (e i diversi sguardi) che – intorno a loro, nella loro storia – si intrecciano e dipanano.

Il Papa emerito Benedetto XVI, nell’Udienza Generale del 30 agosto 2006, per tracciare “il ritratto” dell’apostolo Matteo, il cui nome – egli ricorda – “in ebraico significa ‘dono di Dio’ ”, dopo aver richiamato i passi dei Sinottici relativi alla “chiamata” di Matteo/Levi (Mt, 9, 9-13; Lc 5, 27-32; Mc 2, 13-17), apre il suo discorso così:

“Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi”.

Proviamo anche noi a partire da qui.

 

Il quadro è noto. Protagonista è la luce della grazia che entra nella tela dall’esterno, alle spalle di Cristo. Nella scena irrompe Gesù, con Pietro.

Ascoltiamo la “chiamata di Levi” nella versione che ci offre il Vangelo di Marco (2, 13-17).

[13]Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli li ammaestrava. [14]Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì. [15]Mentre Gesù stava a mensa in casa di lui, molti pubblicani e peccatori si misero a mensa insieme con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. [16]Allora gli scribi della setta dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori?». [17]Avendo udito questo, Gesù disse loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori».

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2) Un cambiamento radicale

Cosa è intervenuto nell’esistenza di Matteo? Che cosa interviene, può intervenire nell’esistenza di un uomo per sospingerlo a cambiare tutta la sua impostazione di vita e farlo immergere nell’avventura dell’ignoto? Quale forza misteriosa agisce quando un uomo o una donna consegnano totalmente la speranza della propria vita a quella coinvolgente e… ‘dolente’ Luce che si chiama Dio (per dirla con la sofferta intuizione di Sant’Agostino)?

Il racconto evangelico ci aiuta a rispondere, richiamando il profeta Osea. Il riferimento è esplicito nel Vangelo secondo Matteo: “Andate ed imparate che cosa vuol dire: misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9, 13). “Poiché voglio l’amore e non il sacrificio” (Os 6, 6).

Da qui inizia la storia di Matteo con Gesù. Da quello sguardo che chiama perché ama. Da qui, da questa vocazione, anche la sua conversione, come per Zaccheo.

luceUn cambiamento di vita non è mai il risultato di un puro caso. Quando accade è perché c’è già un breccia: come la breccia aperta in una diga, che ha represso, per molto tempo, il desiderio intenso delle acque di fuoriuscire. Così il nostro desiderio. Come quella vena d’acqua, nascosta in profondità, sotto terra, che, magari, da secoli attende di essere scoperta, per scorrere all’esterno, in un rivolo sempre più intenso, gioioso. Come la luce nella scena ritratta da Caravaggio, che improvvisamente incontro il desiderio di luce di Matteo. matteoRaggiunto, stupito. Con la mano indica se stesso, quasi a dire: ma è per me? Per me questa luce? Per me questa voce? E dov’era prima? E dov’ero io, chi ero io, fino ad un attimo fa: prima che l’alba di questo amore mi desse un volto, mi desse un nome?

 

È evidente come - nell’immagine caravaggesca - il gesto di Gesù che chiama Matteo richiami il dito di Dio Padre che crea Adamo, nella famosa immagine della Creazione della Cappella Sistina.

cappella sistina michelangelo 1024 x 7682È l’amore che crea e ricrea. L’inizio di ogni vita. Di ogni chiamata. Di ogni storia. Di ogni conversione. È la scarcerazione di un desiderio segreto, perché l’uomo è fatto per questo incontro, anche se e anche quando, come Matteo lo ritiene forse impossibile.

“ ‘Che cosa cercate?’: suscitare e riconoscere un desiderio. La domanda di Gesù è una prima chiamata, che incoraggia ad interrogarsi sul significato autentico della propria ricerca. È la domanda che Gesù rivolge a chiunque desideri stabilire un rapporto con lui: è una pro-vocazione a chiarire a se stessi cosa si stia cercando davvero nella vita, a discernere ciò di cui si sente la mancanza, a scoprire cosa stia realmente a cuore” (EVBV, 25).

pubblicaniSe il pubblicano Levi fosse stato pienamente soddisfatto della sua vita, non si sarebbe accorto di quello sguardo. Lo esprime bene Caravaggio, inserendo altri due personaggi allo stesso tavolo di Matteo, anche loro colpiti dal fascio di luce, ma del tutto indifferenti rispetto all’evento che irrompe. Continuano a contare soldi. Torneremo su questo particolare. Ma restiamo su Matteo.

matteo2Matteo non resta indifferente. Matteo si accorge di quello sguardo silenzioso ma luminoso. E se ne stupisce. Trasalendo. Una concentrazione ad alta tensione, come quando le nubi si condensano e danno luogo alla scintilla del lampo, che preannuncia il temporale imminente. È un contrasto tra forze che libera la luce e l’incanalamento di una nuova forza.

La sola parola di Gesù, la sola Parola-Gesù (vieni con me!), basta all’esattore delle tasse, Levi, per abbandonare la propria deludente autosufficienza e ritrovarsi in una libertà sconosciuta, la libertà del sentirsi amati.

3) Sentirsi amati

Ecco il primo guadagno di Levi. Lui, abituato ai calcoli, ai conti… forse… un ‘calcolo’ anche qui se lo sarà fatto. E si sarà accorto che ci stava guadagnando. Stava guadagnando uno sguardo mai ricevuto: non solo senza disprezzo, ma carico dell’affetto da sempre desiderato.

Sentirsi amati proprio nel senso di sentire di appartenerGli. Il quadro ancora una volta ci aiuta: essere in Cristo è come essere alla luce, nella luce.

La ricchezza aveva isolato Matteo in una solitudine deprimente e umiliante. Era l’uomo dell’avere. E il suo essere era caduto nel buio. Era l’uomo del sembrare e il suo vivere si era accartocciato nella tristezza.

personaggiIntorno a Levi, Caravaggio dispone cinque personaggi che, nel loro fargli cerchio, attorno, in realtà sembrano fargli prigione. Gabellieri? Soldati? Pubblicani? Peccatori? Spade e soldi li caratterizzano. Quasi come uno specchio della stessa vita di Matteo. Ma la prigione, in fondo, se l’è costruita lui stesso: circondandosi di presenze e non di relazioni; di oggetti da possedere e non di bellezze da vivere.

La nostra vita è spesso così. La scontentezza cresce, ma finiamo per accettarla pigramente.

Levi si comporta come se avesse un intenso dolore interiore, che ‘congela’ con un processo di stordimento. Ma Gesù sa, sa bene, che nel fondo dell’uomo-Levi, come nel fondo di ogni uomo, si nasconde una verità: la verità di noi stessi. E va: a rimuovere la polvere accumulata sull’esistenza. Va: a toccare quelle corde, da tempo, lì, immote, tanto da aver dimenticato come si fa a vibrare.

E per il cuore spezzato di Levi si realizza la profezia dei Salmi 34, 19 e 51: Dio è davvero vicino a quanti hanno il cuore spezzato.

sguardo matteoNonostante la corazza, Gesù vede le ferite di Matteo. Con gli occhi del cuore, Gesù vede il cuore malato di Matteo: lo vede negli occhi di Matteo. Negli occhi di Matteo, Gesù, vede il desiderio del Padre. Il desiderio che Matteo ha del Padre. E il desiderio che il Padre ha il Matteo.

 

4) Per superare la nostra miopia

miopeQuante persone abbiamo, anche noi, accanto, come Levi: con l’esistenza ferita. Ma non le vediamo. Un po’ come il personaggio che Caravaggio mette proprio accanto a Matteo: con degli occhiali. Miope, diremmo. Talmente preso dai suoi interessi immediati, da non accorgersi di nulla.

Gesù si fa per noi modello. Si fa medico non solo delle ferite del cuore di Matteo, ma anche della nostra miopia; invitandoci ad andare oltre la facciata, oltre le maschere. Chiamandoci a sprigionare la vita, a ridare volto, a far risuonare la sua voce, il suo ‘seguimi!’: seguimi… innanzitutto per diventare, per tornare ad essere te stesso. È la ri-creazione di quel dito… che è il dito di Dio. È la ri-creazione di quella voce che fa uscire il mondo dalle tenebre; di quella voce che dice, e bene/dice. E davanti ad ogni cosa sente, e fa sentire che è “cosa buona”. Essere amati è la benedizione più grande nella vita di una persona (dice Henry Nouwen).

Uscire dalla miopia della maledizione, del male-dire, del dire male, del vedere male, per entrare nella bene-dizione: che dice bene della mia vita e di ogni vita. Chiedere al Signore: fa di me un benedetto, perché anche io possa benedire.

Ed ecco che il cerchio della prigionia, il cerchio della solitudine, spezzato dallo sguardo amante di Gesù, diventa cerchio di relazione. La maschera torna ad essere volto. Il personaggio persona.

Proviamo ad applicare a noi tutto questo.

5) L’ambivalenza del ruolo

All’uomo Adamo, signore di ogni cosa del creato, manca un ‘tu’ con cui intrecciare una relazione. Anche un presbitero, anche una persona consacrata, nella misura in cui è persona umana. Ha bisogno di relazioni vere e profonde. Per il proprio carattere, per la formazione avuta, per mille altri motivi, spesso i presbiteri e i consacrati si trovano ad esprimere, e forse anche a vivere, più dei ‘ruoli’ che un vero e profondo tessuto di relazioni.

Tanti sono i modi per vivere e interpretare il ruolo che si è assunto e che ci caratterizza nella vita. In particolare chi si ‘consacra’ totalmente al Signore, proprio nella sua scelta ‘totalizzante’, può ritrovarsi a vivere una trasparenza che lascia vivo il senso dell’umanità che la sorregge, oppure può ritrovarsi a vivere un’opacità che privilegia il ruolo stesso, e nasconde la vera identità.

Il ruolo, per sua natura, è ambivalente: può essere strumento efficace o può impaludarsi in forme di efficientismo, onnipotente e onnipresente, che cerca solo ostentata visibilità. Può esprimere una carica di umanità e intimità, che qualifica le relazioni, o può isolare. Può proiettare in forme di servizio disinteressato o può diventare stile di vita segnato da narcisismo, da un esibizionismo teso verso il personale successo, la personale autorealizzazione.

giovaneTorniamo al quadro di Caravaggio. A capotavola notiamo un giovane: il fascio di luce e perfino l’indice della mano di Gesù sembrano colpirlo tanto direttamente che alcuni interpreti hanno pensato che potesse essere proprio lui Matteo, e non il personaggio centrale, barbuto. Al di là delle interpretazioni, in ogni caso questo giovane a capotavola cattura la nostra attenzione. E per certi versi ci fa pensare al giovane ricco, in qualche maniera l’alter-ego di Matteo. Anche lui, il giovane ricco, chiamato, guardato, amato. Ma… i suoi troppi beni restano per lui prigione. Lo sguardo resta basso. Non si lascia ferire dallo sguardo amante di Gesù. Incapace di accogliere e di farsi accogliente.

Anche Benedetto XVI nel ritratto di Matteo da cui siamo partiti, richiama Mt 19, 21: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi”.

Tra l’alzarsi di Matteo e l’andare via del giovane ricco, tra luce e buio si pone l’infinita gamma di atteggiamenti che esprimono le scelte di ogni uomo, ma anche le diverse sfumature, che, spesso, assume la nostra scelta vocazionale: alle volte pronta alla sequela, alle volte triste, schiacciata più dal pensiero del proprio bene, che dall’attenzione al Bene che salva.

Che cosa può salvarci, che cosa può aiutarci ad essere non solo uomini di parole, ma della Parola, non solo uomini di giudizio, ma di comunione, non solo persone chiamate e coinvolte, ma anche persone chiamanti e coinvolgenti? Come fare a noi stessi e agli altri il dono di una moneta che non si svaluta, di un collirio – per dirla con le parole dell’Apocalisse (Ap 3, 18) – in grado di curare gli occhi e aiutare a vedere con nitidezza la vita?

6) Le pseudo-relazioni che esaltano il personaggio

Talvolta nel vivere una relazione, il rischio è quello di crearci delle facili illusioni e degli auto-inganni. Pensiamo di essere in relazione, ma rimaniamo sull’epidermide.

Una pseudo-relazione avviene quando, magari in maniera inconscia, ci barrichiamo di una specie di turris eburnea, dalla quale vediamo dall’alto le vicende degli altri. Ogni tanto facciamo calare, per qualcuno che ci garba, qualche ponte lavatoio. Ogni tanto la nostra magnanimità (o pseudo-solidarietà) si apre ad accogliere delle richieste. Ma ci difendiamo da tutte quelle relazioni che domanderebbero un coinvolgimento più profondo, che rischierebbero di modificare i nostri ritmi di vita abitudinari, le nostre certezze.

Le nostre barriere di cristallo assomigliano spesso a quei grandi scatoloni di vetro che sono alcuni grattacieli dei nostri giorni. Chi sta dentro vede, all’esterno, la gente muoversi, parlare, gesticolare. La vede, appunto. Ma non la guarda, perché non la sente, non la tocca. Lo stesso vale per chi sta fuori. E così, ognuno nel suo personale box di cristallo: tendiamo le mani, articoliamo parole: ma nessun gesto e nessuna frase riesce a rompere quella parete invisibile.

Ma c’è pseudo-relazione anche quando incombe sul nostro modo di rapportarci agli altri la tentazione del potere. Quando vogliamo essere noi i registi dello spettacolo, e trattiamo gli altri come bambini principianti. Uno psicologo americano parla, a proposito, di una ‘sindrome da guru’ che ci fa credere che “se diciamo agli altri ciò che è sensato e giusto per noi, automaticamente diventerà sensato e giusto anche per loro. Saranno illuminati per fare ciò che noi abbiamo in testa” (J. Santos).

Insomma: noi regaliamo, dall’alto di noi stessi, regaliamo una forma di vita ideale. E gli altri possono solo accoglierla. E la cosa più subdola è che, di questo, poi, vogliamo essere anche ringraziati. Il potere della dipendenza!

Queste tentazioni (che danno corpo a pseudo-relazioni) altro non sono che le stesse tentazioni di Gesù: il concretismo che vuole tramutare le pietre in pane; il potere che cerca la gloria del mondo; l’orgoglio e la presunzione dell’invulnerabilità personale (cfr. Mt 4, 1-11).

Ci sia di insegnamento, in questo, Pietro…

 

pietroPietro che, nel quadro di Caravaggio, sembra non avere altro ruolo che farsi copia, specchio, trasparenza di Gesù. Pietro che si limita a ripetere con il suo gesto il gesto del Maestro. Pietro, senza ruolo: semplicemente presenza, luce sulla scia della luce, umile, silente.

 

7) Il cuore accogliente fa crescere la persona

Dice Henry Nouwen: “a volte immagino che il mio cuore sia come un posto irto di aghi e di spilli. Come accogliere qualcuno se non vi può riposare pienamente?”.

Un cuore ferito, un cuore irto di preoccupazioni, rabbia, gelosia, causa ferite a chi vi entra.

È fondamentale, allora, creare uno spazio libero, uno spazio di silenzio, uno spazio bianco, di luce: per poter invitare gli altri ad entrare e guarirli.

L’intima dolcezza di un cuore di carne e non di pietra, un cuore nudo, dove si può camminare a piedi nudi.

piedi2L’amore è disarmato e disarma. Forse possiamo interpretare anche così quei piedi del Cristo dipinto da Caravaggio: piedi nudi. Solo i piedi di Gesù e quelli di Pietro, che segue e imita il maestro, sono scalzi. Solo i loro abiti sono semplici, dimessi.

È la nudità e la povertà del Maestro che investe con la sua potenza il gruppo dei cinque ‘pubblicani’, intorno al tavolo: loro, che, invece, sono rivestiti e corazzati della loro ricchezza.

Sappiamo come Caravaggio abbia fatto indossare a Matteo e agli altri personaggi intorno a lui, abiti che rimandano all’epoca del pittore. Certo, questo per dirci che l’evento della grazia, che eccede i tempi, raggiunge ogni uomo, in ogni tempo. Ma anche, forse, per ricordarci che le mode del tempo, gli affanni del tempo, le logiche del tempo tante volte diventano prigione. Presunta ricchezza. Peso del cuore (se ne andò via perché aveva troppi beni…).

Quei piedi scalzi del Maestro e di Pietro, invece, chiamano e richiamano… a liberare, a svestire… il cuore. E, così, a renderlo accogliente e capace di autentica relazione.

 

8) La relazione nasce nella tenda della solitudine

Il celibato o la verginità consacrata non ci chiamano a vivere la dimensione della relazionalità in maniera un po’ handicappata o arida, asfittica. Al contrario. Perché sappiamo che, in ogni legame, anche in quello di coppia, non esiste relazione senza solitudine; né autentica solitudine senza relazione.

Così anche per noi. La vera condizione per imparare a stare con gli altri è quella di imparare a stare soli con noi stessi. È la grande intuizione che sottende tutto il libro La vita comune di D. Bonhoeffer. La solitudine come ricerca di quel centro interiore, nel nostro cuore, in cui regna la quiete. Questa è anche la prima condizione per un’autentica, profonda vita spirituale. Il silenzio che impara il ritmo del cuore: un ritmo paziente, di attesa e ascolto (Ho ascoltato il silenzio: così suona il titolo di un libro di Nouwen).

È il silenzio della preghiera, è il silenzio del discernimento, è il silenzio che fa unità della propria vita, rileggendo il mondo dei sentimenti e delle emozioni, e ritessendolo alla luce delle proprie esperienze relazionali, è il silenzio il cui il nostro vissuto, davanti allo specchio della Parola, riannoda i fili spezzati della vita, è il silenzio che noi ‘siamo’. È la nostra solitudine.

Ma chi impara a condividere questa sua solitudine, abitata dalla Luce del Signore, senza timore, sa considerare ogni suolo ‘sacro’.

In questo senso, il celibato e la verginità consacrata divengono occasione preziosa (possono diventare occasione preziosa) per imparare le dinamiche autentiche, proprie di ogni relazione accogliente, quella di un cuore che, come afferma Saint-Exupéry nel suo libro Vento, sabbia e stelle, diventa “strada, per ricondurre l’altro dolcemente a se stesso”.

Ed ecco che così la relazione diventa (può diventare) kairòs, quel tempo opportuno che ci è dato di vivere come dono di grazia e anche come opportunità di educazione alla vita buona del Vangelo.

“Poiché dice il Signore Dio, il Santo di Israele: nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza” (Is 30,15).

 

9) La dimensione pastorale della relazione, dono di consolazione.

In quest’ottica, e solo in quest’ottica, possiamo parlare della dimensione pastorale della relazione. Perché, altrimenti, resteremo sempre nella “pastorale del canguro”, che salta in maniera frenetica, e sempre di corsa, da un impegno all’altro. Abissalmente lontano, questo stile, da quello della relazione: mai potrà generare relazione.

Leggiamo ne Il volto missionario della Parrocchia in un mondo che cambia (n. 9): l’adulto oggi si lascia coinvolgere in un processo di formazione e in un cambiamento di vita soltanto dove si sente accolto e ascoltato negli interrogativi che toccano le strutture portanti della sua esistenza: gli affetti, il lavoro, il riposo. Dagli affetti la persona viene generata nella sua identità e attraverso le relazioni costruisce l’ambiente sociale. (…) Non vanno dimenticati i momenti di difficoltà, in cui persone anche i margini della vita di fede sentono il bisogno di una parola e di un gesto che esprimano condivisione umana e si radichino nel mistero di Dio.

 

Proviamo a ripensare in quest’ottica, ancora una volta, l’immagine/icona che ci sta guidando.

luce2Il quadro di Caravaggio ci mostra plasticamente come la luce chiami e coinvolga non solo Matteo, ma anche tutti coloro i quali erano a tavolo con lui.

I Sinottici ci dicono con altrettanta chiarezza che è vero che Levi “si alzò e lo seguì”. È vero anche (come sottolinea Luca) che “lasciò tutto” (le paure, le ferite, le corazze, le monete, la vita nell’ombra: lasciò ogni ‘cosa’). Ma non lasciò le persone, le relazioni, non lasciò quelli che erano al tavolo del mondo con lui, come lui. Tant’è che Marco, Matteo e Luca ci presentano subito Matteo a tavola, con Gesù, i discepoli e… i pubblicani e i peccatori.

Luca annota: “Levi preparò <per Gesù> un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla numerosa di pubblicani e di altra gente, che erano con loro a tavola” (Lc 5, 29).

Non fa in tempo ad alzarsi, Matteo, che già di nuovo si siede. Non fa in tempo a lasciare tutto che già di nuovo intorno a lui tornano le sue cose, le sue relazioni, la sua vita: come prima, diversa da prima. E ora, lui, Levi, il ferito-guarito, il peccatore sanato, diventa il centro di questa comunità, di questa festa, di questo banchetto di guarigione (non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati).

Possiamo, certo, correre il rischio di fare un cattivo uso della parola ‘guarigione’. Anche il sacerdote può correre il rischio di cadere in una forma di esibizionismo spirituale. Ma, fare delle ferite una fonte di guarigione, in realtà significa semplicemente abitare la dimensione del dolore e della sofferenza, che emerge dal profondo della condizione umana, a cui tutti partecipiamo e che ci caratterizza tutti.

Matteo, il peccatore perdonato, il malato medicato, ha fatto della sua casa un luogo di accoglienza e guarigione, cioè un luogo di ospitalità.

Una comunità ospitale, nella logica della relazione, è una comunità che sa avere cura dell’ospite, nella consapevolezza che tutti siamo ospiti della Vita.

Ma questo, per noi (che ci sentiamo padroni di casa, ma che non abbiamo lo stile dell’accoglienza di Matteo), è molto difficile, perché siamo preoccupati dei nostri bisogni, delle nostre tensioni: bisogni e tensioni che ci impediscono di prendere le distanze da noi stessi.

Se vogliamo prestare attenzione agli altri, dobbiamo sentirci a proprio agio in casa nostra, nel cuore/centro della nostra esistenza. Lo dicevamo prima: lo spazio libero del silenzio del cuore è precondizione di ogni ospitalità.

Il paradosso è proprio questo: l’ospitalità esige uno spazio vuoto, dove l’ospite possa scoprire non il nostro cuore, ma il suo cuore.

E questo evento, questo incontro guarisce: guarisce perché ci toglie la menzogna, l’illusione che ci si possa dare reciprocamente la completezza. Guarisce perché non annulla la sofferenza, ma invita l’altro a condividerla, riconoscendola.

Nessuno presbitero è medico che cura il dolore eliminando la sofferenza. Ma ognuno di noi è chiamato ad entrare nel dolore, ospitandolo: anche e forse soprattutto senza parole.

E questo è il compito urgente dell’umanità sacerdotale, oggi. Così l’ospitalità può farsi comunità, per una sofferenza e una povertà spartita e una speranza condivisa. Una comunità che possa diventare non forma soffocante di autocommiserazione, ma riconoscimento delle promesse salvatrici di Dio.

 

10) Lampionai della speranza

Leggiamo ne Il volto missionario della Parrocchia in un mondo che cambia (n. 13: una casa aperta alla speranza): “una condivisione sostenuta dalla ‘speranza che non delude’ (Rm 5,5). Perché la speranza cristiana ha questo di caratteristico: essere speranza in Dio. È Dio il fondamento della nostra speranza e anche del nostro impegno a rinnovare la Parrocchia, perché possa testimoniare e sappia diffondere la speranza cristiana nella vita quotidiana. Questa proiezione escatologica, verso un traguardo che è oltre la nostra storia umana, è ciò che, alla fine, dà senso alla vita della Parrocchia. In essa si riconosce un segno, tra le case degli uomini, di quella Casa che ci attende oltre questo tempo, ‘la città santa’, ‘la dimora di Dio con gli uomini’ (Ap 21, 2-3), là dove il Padre vuole tutti raccogliere come suoi figli”.

piedi tortiAncora un piccolo particolare, nel quadro di Caravaggio. I piedi di Gesù sono ‘torti’ in direzione contraria al suo busto e al suo gesto. Se con la mano e il volto chiama a sé, i suoi piedi, però, sono rivolti verso la Luce, verso l’Oltre.

La speranza ci aiuta a guardare oltre la soddisfazione dei desideri immediati. E anche oltre il futuro. Perché non è un’aspettativa, ma una Promessa. La speranza ci impedisce di aggrapparci a ciò che possediamo e ci rende liberi di camminare verso una terra ignota, posta fuori del quadro della nostra ragione e della nostra volontà: la terra del mistero: verso Quel ‘di più’ che affascina e attrae, trasformando ogni tramonto in alba.

 

11) Miserando atque eligendo

Ci accompagni, diventando per noi segno, il motto scelto da Papa Francesco: miserando atque eligendo. Come sappiamo, si tratta di un’espressione tratta dalle Omelie di San Beda il Venerabile, relativa proprio alla vocazione di Matteo.

“Vidit ergo lesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me” (Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi).

Un passo che leggiamo nella Liturgia delle Ore, il 21 settembre; passo in cui ritroviamo, nuovamente, lo sguardo di Gesù che ama, chiama, cura e sceglie. È la misericordia che, da giovane, Jorge Bergoglio (ci ha raccontato) ha sperimentato proprio sotto il manto della festa di San Matteo. Quella misericordia che, toccando il suo cuore, lo ha chiamato alla vita religiosa e sacerdotale. Quella stessa misericordia che sta riversando con potenza, intorno a sé, come sguardo di accoglienza, ospitalità, speranza.

[Dalle «Omelie» di san Beda il Venerabile, sacerdote   (Om. 21; CCL 122, 149-151)]

Gesù lo vide e gli disse (…): ‘Seguimi!’, (…) cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi, quanto con la pratica della vita. (…) «Ed egli si alzò e lo seguì. (…) E mentre Gesù sedeva a mensa, in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli» (9, 9-10). Ecco dunque che la conversione di un solo pubblicano servì di stimolo a quella di molti pubblicani e peccatori, e la remissione dei suoi peccati fu modello a quella di tutti costoro. Fu un autentico e magnifico segno premonitore di realtà future. Colui che sarebbe stato apostolo e maestro della fede attirò a sé una folla di peccatori già fin dal primo momento della sua conversione. Egli cominciò, subito all'inizio, appena apprese le prime nozioni della fede, quella evangelizzazione che avrebbe portato avanti di pari passo col progredire della sua santità. Se desideriamo penetrare più a fondo nel significato di ciò che è accaduto, capiremo che egli non si limitò a offrire al Signore un banchetto per il suo corpo nella propria abitazione materiale ma, con la fede e l'amore, gli preparò un convito molto più gradito nell'intimo del suo cuore. Lo afferma colui che dice: ‘Ecco, sto alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me’ (Ap 3, 20). Gli apriamo la porta per accoglierlo, quando, udita la sua voce, diamo volentieri il nostro assenso ai suoi segreti o palesi inviti e ci applichiamo con impegno nel compito da lui affidatoci. Entra quindi per cenare con noi e noi con lui, perché con la grazia del suo amore viene ad abitare nei cuori degli eletti, per ristorarli con la luce della sua presenza. Essi così sono in grado di avanzare sempre più nei desideri del cielo. A sua volta, riceve anche lui ristoro mediante il loro amore per le cose celesti, come se gli offrissero vivande gustosissime”.

 

 

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