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L'Italia che sa resistere alle mafie

​In Calabria e Campania la gente sfida la prepotenza dei clan. I reportage dall'Aspromonte e da Sessa Aurunca

C’è una bella e concreta Italia che resiste alle mafie. Non con le parole ma con i fatti. È quella dei familiari delle vittime innocenti della ’ndrangheta e quella delle cooperative che gestiscono beni confiscati alle mafie, colpite nelle ultime settimane da una serie di incendi dolosi.

Nessun passo indietro di fronte alla violenza mafiosa. Portando in cammino la memoria di chi ha dato la vita per dire 'no' alle mafia, sui sentieri dell’Aspromonte e sui sentieri della vita. Realizzando progetti di sviluppo sui terreni strappati ai clan, con lavoro pulito e di alto valore educativo.

Le mafie provano a fermarli ma come dimostrano le due iniziative che raccontiamo, in Calabria e Campania, ormai niente può fermare questa onda di cuore e coraggio con scelte che non tornano più indietro.

Antonio Maria Mira

© Avvenire, 24 luglio 2016

 

Aspromonte

In cammino a testa alta sui sentieri della memoria

 

«Sono Vittoria, la moglie, non la vedova, del brigadiere Antonino Marino, un servitore dello Stato. Oggi è la prima volta che sono qui. Dopo 26 anni la ferita è ancora sanguinante ma mi sono fatta forza e ora sono qui con voi». Queste parole sono sicuramente il momento più commovente della tredicesima marcia 'I sentieri della memoria', che si tiene ogni anno in Aspromonte il 22 luglio per ricordare Lollò Cartisano e tutte le vittime innocenti della ’ndrangheta. Lollò, fotografo di Bovalino, venne sequestrato il 22 luglio 1993. Non tornò mai a casa. Solo dopo dieci anni uno dei sequestratori, con una lettera anonima, fece trovare i resti del corpo tra i boschi dell’Aspromonte, sotto Pietra Kappa, splendido monolite che sovrasta il mare verde. Un luogo che Lollò amava moltissimo.

E proprio lungo questi sentieri, tra ruscelli e grandi querce e faggi, due giorni fa hanno camminato centinaia di persone, nel nome di chi ha dato la vita per dire 'no' alla violenza mafiosa. Nomi scritti su cartelli che segnano il percorso, nei punti dove si sosta come in una 'Via Crucis'. E nomi nuovi, come quello del brigadiere Marino, ucciso il 9 settembre 1990 nella piazza di Bovalino, mentre era con la moglie incinta e il figlio Francesco di appena 16 mesi, che vennero feriti. «Non esitarono a sparare davanti a me - ricorda Vittoria -. Doveva essere un segnale allo Stato che loro ci sono e fanno quello che vogliono». Così uccisero un bravissimo investigatore che aveva colpito duramente i clan anche sul fronte dei sequestri. La moglie Vittoria è qui per ricordare, col figlio Nino, che quel giorno aveva in grembo. Mentre l’altro figlio Francesco, dice con orgoglio, «è ufficiale dei carabinieri». Memoria e impegno. «Vogliamo percorrere a testa alta questi sentieri, dove dominava la ’ndrangheta. I nostri cari sono dentro di noi - dice Deborah Cartisano, figlia di Lollò -. Camminiamo col nostro passo per dare forza a chi si impegna. Noi siamo la molla per il cambiamento, non lo può fare nessun altro. E con questa molla andiamo avanti ».

Come Mario Congiusta, padre di Gianluca, ucciso il 24 maggio 2005 a soli 32 anni per il suo 'no' alla ’ndrangheta. Oggi il suo paese, Siderno, gli intitola una piazza ma il nome di Gianluca da anni è scritto in questi boschi. «Le nostre sono storie di grande dolore, che non ha unità di misura, che non può essere ceduto - riflette papà Mario . Ma la memoria che facciamo oggi deve essere collettiva». Poi parole forti, ma non di disperazione nè di odio. «Non vogliamo pietà ma la vostra indignazione perchè non abbiamo avuto giustizia. Solo 2 delle 33 vittime innocenti della Locride hanno ottenuto un processo. Noi non odiamo ma pretendiamo giustizia. Noi siamo diversi dai mafiosi. Dolore e mancanza di odio. Non vogliamo vendetta ma giustizia».

Come Liliana, mamma di Massimiliano, raggiunto dal piombo dei killer ’ndranghetisti il 24 settembre 2004, a 30 anni. Ucciso per l’amore verso una donna del clan, dalla quale aveva avuto un figlio. «Si nega l’esistenza a chi è capace d’amare» dice Liliana tenendo in mano la foto del figlio. «Per questo - aggiunge dobbiamo impegnarci facendo memoria. Se chiuderemo gli occhi saremo noi la ’ndrangheta». Poi si rivolge ai tanti ragazzi, molti dei quali partecipano ai campi di lavoro di Libera sui beni confiscati alle cosche. «Grazie. Grazie di essere qui con noi. Nel vostro volto vedo il volto di mio figlio. Riprendiamoci il diritto di amare che la ’ndrangheta ci vuole negare». Quell’amore, quella memoria, quell’impegno che vengono rafforzati a metà del cammino dalla Messa concelebrata da dieci sacerdoti in una radura del bosco. Sullo sfondo l’altissima Pietra Kappa, illuminata dal sole, sembra sorridere. Quasi alla sua base, una piccola croce ricorda Lollò e con lui tutti quelli che sono morti per la libertà di questa terra.

Antonio Maria Mira

© Avvenire, 24 luglio 2016

 

Sessa Aurunca

I roghi dolosi non fermano scout e cooperative agricole

 

«Qualcuno ancora oggi pensa che con gli incendi si può interrompere questa onda. Noi rispondiamo che è impossibile, non ci possono fermare. Ormai le Terre di don Diana sono nate». Parla chiaro, anche se la voce è incrinata dall’emozione, Valerio Taglione, coordinatore del Comitato don Peppe Diana. Parla a Maiano di Sessa Aurunca dove il 6 luglio un incendio doloso ha distrutto 4 ettari di frutteto della cooperativa 'Al di là dei sogni', che dà una nuova vita a persone in stato di disagio psichico coltivando terreni confiscati alla camorra. L’ultima intimidazione di un lungo elenco che ha colpito cooperative ma anche gruppi scout, in Campania come in Calabria.

Oggi sono tutti qui, e al loro fianco sindacati come la Cisl e organizzazioni agricole come la Cia, istituzioni, forze dell’ordine. Per dire che le mafie anche questa volta hanno fatto male i loro conti. L’occasione è la tappa del Festival dell’impegno civile, promosso dal Comitato e da Libera Caserta, con Avvenire come media partner. «Siamo una rete che partendo dalla morte di don Peppe Diana ha creato le Terre di Don Peppe Diana, costruendo sviluppo in modo alternativo alla camorra». Non sono solo parole quelle di Simmaco Perillo, presidente della cooperativa che opera su un bene confiscato intitolato a Alberto Varone, vittima innocente della camorra, ucciso 25 anni fa, il 24 luglio 1991 per essersi opposto alle richieste del clan. Un nome presto dimenticato. Così il Comitato don Diana chiede alla nuova amministrazione comunale di Sessa Aurunca di deliberare la cittadinanza onoraria per la moglie, che allora dovette addirittura abbandonare il paese, portando via il feretro del marito. «Adesione immediata e convinta» risponde il sindaco Silvio Sasso. Un importante risarcimento per Alberto Varone, piccolo imprenditore e volontario che la domenica distribuiva Avvenire in parrocchia. Davvero, come sottolinea Renato Natale, sindaco di Casal di Principe e amico di don Diana, «chi ha appiccato l’incendio è uno scemo. Ogni volta che lo fanno ci fanno solo pubblicità e il movimento cresce».

Ne è convinto anche Tonino Picascia, imprenditore di Sessa Aurunca al quale proprio nella notte tra il 23 e il 24 luglio 2015 hanno incendiato l’azienda. «Un anno fa eravamo morti ma da 'pazzi' quali siamo abbiamo deciso che non dovevamo morire. Facciamo ancora gli imprenditori, anzi raddoppiamo». A un mese fa risale, invece, il grave danneggiamento, il sesto, della sede del gruppo scout Agesci Benevento 3, «unica realtà per i giovani nel problematico quartiere di Capo di Monte», ci spiega la capo Fuoco, Sara Scuderi. «I ragazzi 'difficili' ci chiamano, 'i guapp ’e cartone' una sorta di don Chisciotte, ma evidentemente abbiamo sensibilizzato le coscienze e dato fastidio», aggiunge Sara sottolineando «la macchina della solidarietà che si è innescata è stata la cosa più bella». Come quella che si tocca con mano a Sessa Aurunca dove ci sono anche i ragazzi della parrocchia di Caivano di don Maurizio Patriciello. Sono qui per capire cosa sia un bene confiscato e per fare esperienza di campo di lavoro. «Sono entusiasti» dice il parroco del Parco Verde, che però rivela anche una vicenda preoccupante. «Pochi giorni fa il boss del quartiere stava facendo mettere delle telecamere all’interno della parrocchia. Ma lo abbiamo scoperto e denunciato. Noi non ci arrendiamo - avverte -, noi ci siamo. E siamo tanti. Di camorra e camorristi abbiamo le tasche piene». Davvero come ripete Valerio, «dopo 22 anni dalla morte di don Peppe siamo sempre più uniti. Si può fare. Questi delinquenti ci hanno dato di nuovo il coraggio delle nostre scelte».

Antonio Maria Mira

© Avvenire, 24 luglio 2016