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L'impegno dei laici cristiani nella società

Bari, Chiesa Cattedrale, 27 settembre 2010, intervento del Priore della Comunità monastica di Bose Enzo Bianchi nell'ambito dell'evento "Notti Sacre", dal 25 settembre al 3 ottobre 2010.

{B965D423-3630-429B-BBE9-E7CAA4A64CE0}_FB09_004-05 - 14.jpgIntroduzione

Desidero ringraziare di cuore il vescovo mons. Francesco Cacucci per l’invito rivoltomi ed esprimere la mia gioia di essere ancora una volta qui tra di voi, nella vostra chiesa locale.

Per introdurre il tema che mi è stato assegnato vorrei innanzitutto tracciare in modo brevissimo un ritratto dei cristiani, di tutti i cristiani, compresi dunque i fedeli laici. I cristiani sono persone che hanno risposto alla Parola del Signore, dopo averla ascoltata, e quindi sono diventati credenti (cf. Rm 10,17: fides ex auditu). Discepoli del Signore, alla sequela di Gesù Cristo, i cristiani formano la chiesa, l’ekklesía, la comunità dei chiamati, degli ekkletoí. Essi vivono questa vocazione tra gli uomini e le donne loro fratelli e sorelle, nel mondo, nella storia, senza esenzioni o fughe di alcun tipo. In questo senso va ribadito che se è vero che i cristiani con il battesimo, immersione nel mistero pasquale, diventano membra del corpo di Cristo e fanno parte della comunità del Signore, è altrettanto vero che questa loro identità li rende testimoni di Cristo, con la responsabilità di «rendere conto della speranza che è in loro» (cf. 1Pt 3,15). Sì, i cristiani sono persone che «hanno creduto all’amore» (cf. 1Gv 4,16), e questo li porta a essere tra gli uomini testimoni del fatto che l’amore vince la morte (cf. Ct 8,6).

Fatta questa necessaria premessa, vorrei riflettere insieme a voi più da vicino sullo statuto dei cristiani, dei fedeli laici, nella società, nella polis, nella compagnia degli uomini. Lo farò articolando il mio intervento in tre punti:

1.      I cristiani sono cittadini nella società?

2.      I rapporti tra chiesa e polis oggi

3.      La differenza cristiana: Vangelo e stile.

 

 

1.         I cristiani sono cittadini nella società?Questa domanda, che oggi riceve normalmente una scontata risposta affermativa, va in realtà letta innanzitutto come domanda seria e decisiva. È la domanda che si sono posti i cristiani all’inizio della loro storia, quando la fede in Gesù di Nazaret come Messia, Signore e Salvatore raggiungeva ebrei e pagani, cittadini del popolo di Israele da un secolo sottoposti all’occupazione romana, cittadini dell’impero nel quale Cesare era chiamato e venerato quale Kýrios kaì Sotér, «Signore e Salvatore».

Di fatto il Vangelo non forniva nessuna ricetta per l’organizzazione della società e della polis, né indicava particolari forme di governo; e tuttavia conteneva parole di Gesù che avevano una grande portata per la vita e l’azione politica, parole capaci di ispirare e normare un comportamento che mostrava una differenza rispetto a quello degli ebrei e dei pagani. Non era solo una differenza nei costumi, nell’ethos, nel modo di vivere, ma anche nella stessa comprensione del potere politico e dell’autorità che lo esercita, nonché del rapporto dei cristiani con la società, all’interno della quale erano una minoranza assai significativa. Ecco perché l’esistenza delle comunità cristiane sparse nel bacino del Mediterraneo, da Antiochia a Roma, suscitava domande, opposizioni, diffidenze e finanche persecuzioni, incapaci però di fermare la dilatazione della fede cristiana in tutto l’impero.

Per questo negli ultimi libri del Nuovo Testamento e poi negli scritti dei padri apostolici (inizio II secolo) troviamo già testimonianze su come i cristiani si collocavano nella società e si rapportavano alla costruzione della polis. E già in questi inizi dobbiamo riconoscere che c’è stata non l’elaborazione di «una via», ma di vie diverse, che dicono come i cristiani a seconda delle situazioni storiche, culturali e geografiche si situavano nella società e di fronte al potere politico. Se nell’Apocalisse i cristiani perseguitati dagli imperatori Nerone e Diocleziano leggono la storia come svelamento dell’azione del potere totalitario di Babilonia che beve il sangue dei martiri e delle vittime (cf. Ap 17,1-6), e dunque hanno un giudizio negativo su coloro che reggono la polis, sul potere politico, nelle lettere pastorali deutero-paoline sono presenti altri accenti: i cristiani infatti sono invitati dall’Apostolo a intercedere presso Dio «per i re e per tutti quelli che stanno al potere», affinché sia possibile una vita segnata dalla pace e dal rispetto della dignità umana (cf. 1Tm 2,1-3).

Resta a mio avviso sempre molto eloquente e anche esemplare un celebre brano dell’A Diogneto, in cui i cristiani sono presentati come cittadini dell’impero, cittadini leali, capaci di nutrire e di ricevere simpatia nel loro stare nella società, ma anche capaci di mostrare una differenza, la differenza cristiana appunto:

 

I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano una lingua particolare, … ma testimoniano uno stile di vita mirabile e, a detta di tutti, paradossale … Risiedono nella loro patria ma come stranieri domiciliati (pároikoi); a tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri (xénoi); ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non espongono i loro nati. Mettono in comune la tavola, ma non il letto … Dio ha assegnato loro una missione così importante che essi non possono disertare (A Diogneto V,1-2.4-7; VI,10).

 

Ancora oggi noi sentiamo in questo testo un messaggio forte, che ci intriga: in quei cristiani c’era la capacità di una cittadinanza leale e, nel contempo, la consapevolezza e la responsabilità di una differenza dovuta alla fede in Gesù Cristo. Questa fede implica in effetti una testimonianza concreta nella società, anche attraverso azioni, scelte, comportamenti che hanno un’incidenza politica, sociale ed economica. Amare l’altro come Gesù ci ha amati (cf. Gv 13,34; 15,12), fino al dono della propria vita; amare l’altro anche quando ci è nemico; perdonare l’altro anche se ci perseguita (cf. Mt 5,43-48; Lc 6,27-36); amare l’altro fino a condividere con lui i beni (cf. At 2,42-45; 4,32-35); amare l’altro fino a compiere un’azione di servizio e di liberazione; lavorare quotidianamente per essere artefici di pace e di giustizia: tutto questo è un orientamento decisivo nell’edificazione della polis e di una società rispettosa di tutti!

Fin dall’inizio del cristianesimo è emersa, a differenza delle altre due religioni monoteiste – l’ebraismo e, più tardi, l’islam –, una concezione diversa nei rapporti tra fede e politica, tra chiesa e stato, tra religione e potere, tra autorità spirituale e temporale. Le parole di Gesù: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12,13-17 e par.) hanno dato origine a una logica di distinzione capace di scuotere in profondità i rapporti sociali e la vita della collettività. Certo, lo sappiamo bene: i cristiani non sempre hanno saputo trarre le dovute conseguenze da questa affermazione di Gesù, sicché il loro rapporto con la società ha trovato soluzioni molto diverse nella storia, diventando di volta in volta occasione di incontro, di confronto, talora addirittura di scontro tra chiesa e società civile. Tuttavia questa distinzione tra ordine politico e ordine religioso è stata ripresa con forza e intelligenza dal concilio Vaticano II, che per noi resta tuttora ispirante, quale vera «bussola» per l’oggi della chiesa e del mondo (cf. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte 57, 6 gennaio 2001). Nella costituzione Gaudium et spes, in particolare, vi sono indicazioni assai preziose al riguardo:

 

È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della chiesa in comunione con i loro pastori (Gaudium et spes 76, 7 dicembre 1965).

 

Sì, i cristiani sono cittadini, appartengono alla città e alla società degli uomini, in questa storia comune sono radicati, nella costruzione della polis sono soggetti responsabili, e la loro coscienza cristiana deve essere l’istanza mediatrice tra fede e azione socio-politica. Io credo che proprio attraverso queste parole della Gaudium et spes dovremmo ancora oggi comprendere e progettare la modalità con cui i cristiani, da cittadini veri, leali e solidali con gli altri con-cittadini possono dare il loro contributo alla polis. Non ci deve essere alcuna diffidenza o contraddizione rispetto all’appartenenza alla società e alla cittadinanza da parte dei cristiani: no essi sono realmente cristiani, discepoli del Signore Gesù Cristo, e se si lasciano ispirare dal Vangelo allora sono dei testimoni, evangelizzano e, attraverso l’istanza mediatrice della loro coscienza, possono dare il loro contributo anche sotto la forma dell’azione politica la quale resta, come già diceva Pio XI, «il campo della più vasta carità» (Discorso agli universitari cattolici, in L’Osservatore Romano, 23 dicembre 1927, p. 3).

Come ha più volte ricordato Benedetto XVI, «la chiesa non è né intende essere un agente politico», ma spetta ai cristiani un doveroso impegno in ordine all’umanizzazione della convivenza civile e alla realizzazione di una società sempre più segnata da giustizia, rispetto della dignità della persona, pace. Dunque per la chiesa e per i soggetti che la rappresentano vi è una funzione mediata nei confronti della società, soprattutto attraverso la purificazione della ragione e il risveglio di forze morali; per i cristiani, i fedeli laici, vi è una funzione immediata nel partecipare in prima persona alla vita pubblica senza «abdicare alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere il bene comune» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est 29, 25 dicembre 2005).

 

 

2.         Il rapporto tra chiesa e polis oggi

Quale rapporto si può cogliere tra chiesa e polis in quest’ora della «globalizzazione», nell’ora della percezione sempre più diffusa del mondo come «villaggio globale»? Come si collocano oggi i cristiani nella società? Possiamo dire con sicurezza che l’autonomia tra chiesa e Stato è un dato accettato ormai da tutti, almeno in occidente; la definizione della laicità dello Stato richiede però una continua revisione, per i mutamenti e le dinamiche accelerate nella società odierna. Di fatto la laicità va costantemente ridefinita, proprio tenendo conto di alcuni nuovi elementi socio-culturali.

Innanzitutto occorre tener presente che siamo in una nuova fase della secolarizzazione, in cui si registra l’emergenza del soggetto, dell’individuo, che si percepisce come autoreferenziale, unicamente teso a realizzare il proprio desiderio e incentrato sul proprio interesse: i desideri di questo soggetto tendono a essere sentiti come diritti dell’individuo. Zygmunt Bauman descrive giustamente la nostra società come società di «turisti consumatori» (cf. Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari, 20069, pp. 87-95), in cui vige il primato del «fare esperienze», del perseguire il proprio desiderio in modo narcisistico. È una società senza un orizzonte comune, senza la preoccupazione della solidarietà e della percezione dell’altro in vista di un bene comunitario: individualismo indifferente ed edonismo egoista tendono a richiedere da parte dello Stato il riconoscimento di pretesi «diritti» che pongono la politica in congiunture finora inedite.

Un novum molto appariscente è poi la sopravvenuta condizione di minoranza da parte dei cristiani, minoranza numerica di fronte a una gran massa di indifferenti e di agnostici rispetto alla fede. In Italia tale condizione è però difficile da misurare, perché il 70% dei cittadini si dichiara cattolico, ma solo il 20% ha una prassi almeno domenicale di partecipazione alla vita cristiana… Questa condizione di minoranza è inoltre accentuata dal pluralismo delle religioni e delle culture ormai vistosamente presenti nella nostra società, un fenomeno che caratterizza in modo crescente la popolazione delle nostre città. Tale situazione di pluralismo di fedi, di visioni del mondo e, soprattutto, di etiche diverse, investe i vari livelli del rapporto tra fede e ragione, compreso il concetto di uguaglianza, causando reazioni paura, sospetto, scontro… In altre parole, come custodire e approfondire l’identità cristiana senza cadere in atteggiamenti di chiusura preconcetta e di rifiuto, di intolleranza e di rigetto? E come vivere questa volontà di incontro, questa possibilità di dialogo, senza cadere nella tentazione secondo cui «una religione vale l’altra», abdicando così anche alla propria storia e tradizione? Il problema non riguarda solo l’identità della fede cristiana, ma anche quella culturale di un popolo: in entrambi questi ambiti si assiste al fiorire di atteggiamenti ispirati da paura, da difesa di una identità definita una volta per sempre, quasi che ogni identità personale e culturale non si costruisse attraverso l’incontro e il confronto con gli altri!

Infine, un altro aspetto che costituisce una sorta di quadro di fondo della situazione attuale è l’enorme capacità tecnologica causata dai progressi della scienza. Le conquiste scientifiche hanno portato l’uomo a un potere impensato e dai limiti sconosciuti: si è giunti fino alla possibilità di creare con mezzi tecnologici l’uomo stesso e, specularmente, a quella di distruggere l’umanità e la vita sulla terra. Si pensi, per esempio, alle potenzialità che la scienza oggi possiede in ordine alla determinazione del nascere e del morire di ogni uomo… Anche questa situazione richiede una ridefinizione della laicità dello Stato, il quale è chiamato a legiferare sovente su materie che dividono e contrappongono le etiche e le fedi presenti nella società.

Nel febbraio del 2005 Giovanni Paolo II, in occasione dell’anniversario della legge sulla separazione tra le chiese e lo Stato promulgata in Francia nel 1905, scriveva ai vescovi francesi:

 

Il principio di laicità, se ben compreso, appartiene alla dottrina sociale della chiesa. Esso ricorda la necessità di una giusta separazione dei poteri … La non confessionalità dello Stato permette a tutte le componenti della società di lavorare insieme al servizio di tutti e della comunità nazionale … La laicità, lungi dall’essere un luogo di scontro, è realmente l’ambito per un dialogo costruttivo, nello spirito dei valori di libertà, di uguaglianza e di fraternità (Giovanni Paolo II, Lettera a tutti i vescovi di Francia 3.6, 13 febbraio 2005).

 

Nonostante queste affermazioni così chiare e decisive, noi assistiamo in realtà sempre di più ad atteggiamenti che finiscono per causare scontro e polemica tra Stato e chiesa, tra cristiani e non cristiani, tra i laici non cristiani e alcune porzioni di chiesa, proprio su come siano da intendere la laicità e l’uguaglianza dei diritti di quanti appartengono alla polis. Come non ricordare, in proposito, le prese di posizione da parte di alcuni laici non cristiani che negano ai cattolici la possibilità di essere capaci di etica o di non avere senso della democrazia? E come non ricordare, specularmente, che molti cristiani negano ai non credenti la capacità di etica, citando la frase di Dostoevskij «se Dio non esiste, tutto è permesso» (cf. I fratelli Karamazov, parte IV, libro XI, cap. IV)?

 

 

3.         La differenza cristiana: Vangelo e stile

Nei vangeli le parole di Gesù su Cesare, sull’esercizio del potere sono rare eppure forti, decisive e profetiche. C’è soprattutto una parola, detta significativamente nel contesto testamentario dell’ultima cena con i suoi discepoli, quando Gesù guarda al mondo e osserva: «I re delle genti le governano e coloro che esercitano il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Voi però non così (Vos autem non sic)! Ma chi è il più grande tra voi si faccia come il più piccolo e chi governa come colui che serve» (Lc 22,25-26). Questo forte: «Voi però non così!» non riguarda solo l’esercizio del potere, ma indica una differenza, la differenza di pensiero, di comportamento, di stile del discepolo di Gesù.

Ma si faccia attenzione: tale differenza non va letta come l’affermazione di una comunità cristiana che nel mondo si situa «contro», in una logica di inimicizia, di concorrenzialità e di contrapposizione, bensì come l’affermazione di una differenza che instaura una comunità diversa, una comunità alternativa capace di inoculare messaggi, diastasi nella società in vista di un’umanizzazione, di una migliore qualità della convivenza. La differenza cristiana è quella che Gesù ha evocato con l’immagine del sale («Voi siete il sale della terra»: Mt 5,13) e, indirettamente, con quella del lievito del Regno che fa fermentare tutta la pasta (cf. Mt 13,33; Lc 13,21). È la differenza di fronte alla quale oggi sta l’indifferenza, non la contrapposizione della società… E, certo, quando regna l’indifferenza si fa urgente e decisivo il compito di mostrare la differenza che, sola, può scuotere l’indifferenza dominante, la quale è sempre anche omologazione e appiattimento.

E che cos’è la profezia se non il coraggio della differenza che dice: Vos autem non sic, «Voi però non così»? Al «così fan tutti» – parola tanto invocata per giustificare atteggiamenti e modi di vita peraltro percepiti come non virtuosi, alienanti, disumanizzanti – viene opposta dalla differenza cristiana un’alterità: «si può fare diversamente», si può vivere a servizio dell’uomo, nell’amore all’umanità e nella fedeltà a questa terra su cui viviamo. La profezia dei profeti dell’Antico Testamento, la profezia di Gesù e di conseguenza la profezia della chiesa e dei cristiani è certamente capace di denuncia, di contestazione, ma soprattutto di dare un contributo alla vita della polis, nella quale non mancano mai idoli antichi e nuovi, idoli che non sono un falso teologico, ma innanzitutto un falso antropologico, fonte di alienazione. Nella convinzione che «l’uomo è la via della chiesa», definizione di Giovanni Paolo II (Lettera enciclica Redemptor hominis 14, 4 marzo 1979) ben lontana dall’essere compresa e assunta dalla chiesa stessa, possiamo affermare che niente è più umano di ciò che è cristiano: cristianesimo, vita cristiana e umanizzazione concorrono allo stesso cammino, e il cammino di salvezza non può mai non essere anche cammino di umanizzazione!

In questo senso ci sono opzioni che la fede cristiana impone e ispira, certamente lasciando alle figure rappresentative della chiesa (vescovi, presbiteri, religiosi) il compito di agire nel terreno profetico, pre-politico, pre-economico, pre-giuridico, ma assegnando ai fedeli, a tutti i laici cristiani, l’incarico di una realizzazione di tali istanze sotto la loro responsabilità mediata dalla loro coscienza. Mi pare che questi comportamenti capaci di mostrare la differenza cristiana possano essere riassunti in alcune opzioni di fondo.

 

a) Opzione per gli ultimi, le vittime della storia, i sofferenti

Il «comandamento nuovo», cioè ultimo e definitivo, lasciatoci da Gesù è: «Amatevi come io vi ho amati» (Gv 13,34; cf. 15,12), amatevi fino a spendere la vita per gli altri, fino a donarla per i fratelli. Ebbene, questo comandamento che narra la specificità del cristianesimo richiede che il cristiano non ami solo il prossimo, non ami solo i suoi famigliari, ma ami tutti coloro che egli incontra, e tra di essi privilegi gli ultimi, i sofferenti, i bisognosi.

Anche qui occorre fare attenzione: Gesù non incontrava il povero in quanto povero, il malato in quanto malato, il peccatore in quanto peccatore, l’escluso in quanto escluso. Ciò avrebbe significato porsi in una condizione in cui l’altro veniva rinchiuso in una categoria, avrebbe significato ridurre l’altro a ciò che era solo un aspetto della sua persona. No, Gesù incontrava l’altro in quanto uomo come lui, membro dell’umanità, uguale in dignità a ogni altro uomo. E nell’incontrare e ascoltare un uomo Gesù sapeva coglierlo, questo sì, come una persona segnata da povertà, da malattia, da peccato. In tal modo ci ha insegnato a prenderci cura di tutto l’uomo, ad avvicinarci all’altro per vivere con lui un incontro ospitale, all’insegna della gratuità e teso alla comunione.

Ma nell’osservare, con questa attenzione, il comandamento nuovo, il cristiano non può non pensare alla forma politica da dare all’uguaglianza, alla solidarietà, alla giustizia sociale. Se non ci fosse un’epifania anche politica dell’amore per l’ultimo, della cura per il bisognoso, mancherebbe alla polis qualcosa di decisivo nei rapporti sociali e sarebbe certamente evasa una grave responsabilità cristiana. Non dimentichiamolo: Gesù ha ammonito che il giudizio per la vita o per la morte avverrà proprio sul rapporto avuto nella vita e nella storia, qui e ora, con l’uomo nel bisogno, affamato, assetato, straniero, nudo, malato, prigioniero (cf. Mt 25,31-46)! Ecco l’etica cristiana, un’etica esigente, ispirata dal Vangelo.

 

b) Opzione per l’umanizzazione e la pienezza della vita

Alla missione evangelizzatrice della chiesa appartiene anche il compito di indicare l’uomo e la sua dignità come criterio primo ed essenziale all’umanizzazione, a un cammino di autentica pienezza di vita. Questo richiede che i cristiani sappiano innanzitutto dare una testimonianza con la loro vita, ma sappiano anche rendere eloquenti le loro convinzioni sulle esigenze di rispetto, salvaguardia, difesa della vita umana e della dignità della persona. Di fronte alla violenza e alla guerra che, nonostante le esperienze vissute, continuano a sedurre i poteri politici e gli esseri umani, i cristiani devono saper manifestare la loro contrarietà e la loro condanna, nella convinzione che non ci può essere una guerra giusta – come profeticamente ha indicato il magistero di Giovanni XXIII (cf. Lettera enciclica Pacem in terris 67, 11 aprile 1963), ripreso da Giovanni Paolo II in occasione della seconda guerra del Golfo – e che ogni forma di violenza e di aggressione è lesiva dei diritti della persona.

I cristiani devono saper manifestare in modo eloquente la loro opzione in favore del rispetto della vita dei popoli e delle genti, minacciati anche da possibili catastrofi ecologiche. Devono promuovere il rispetto della vita di ogni singolo essere umano che, certo, nasce da un uomo e da una donna ma è innanzitutto voluto, pensato, amato da Dio che lo chiama alla vita (cf. Sal 139,13-16); il rispetto di ogni uomo e ogni donna dei quali ha senso non solo la vita ma anche la sofferenza fino alla morte. Occorrono oggi da parte dei credenti la creatività, la fatica del ricercare e del pensare, la capacità di esprimersi in termini che siano comprensibili anche dai non cristiani, termini antropologici dunque e non teologici o dogmatici…

 

c) Lo stile dei cristiani nella compagnia degli uomini

Questa azione nella polis non deve mai prescindere dallo stile di comunicazione e di prassi: anche questa è un’istanza fondamentale, perché lo stile è tanto importante quanto il contenuto del messaggio, soprattutto per noi cristiani. È significativo che nei vangeli si trovi sulla bocca di Gesù un’insistenza maggiore sullo stile che non sul contenuto del messaggio (che è sempre sintetico e preciso):

«Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29);

«Andate come pecore tra i lupi» (cf. Mt 10,16);

«Non fate come gli ipocriti» (cf. Mt 6,2.5.16).

Lo stile con cui il cristiano sta nella compagnia degli uomini è determinante: da esso dipende la fede stessa, perché non si può annunciare un Gesù che racconta Dio nella mitezza, nell’umiltà, nella misericordia, e farlo con stile arrogante, con toni forti o addirittura con atteggiamenti che appartengono alla militanza mondana! E proprio per salvaguardare lo stile cristiano occorre resistere alla tentazione di contarsi, di farsi contare, di mostrare i muscoli… La fede non è questione di numeri ma di convinzione profonda e di grandezza d’animo – si potrebbe dire parafrasando Ignazio di Antiochia (Ai romani III,3) –, di capacità di non avere paura dell’altro, del diverso, ma di saperlo ascoltare con dolcezza, discernimento e rispetto.

Dallo stile dei cristiani nel mondo dipende l’ascolto del Vangelo come buona o cattiva comunicazione, e quindi buona o cattiva notizia. Ed è in questo stile che consiste anche – per dirla con l’Apostolo Paolo – il vero «culto secondo il Lógos» (loghikè latreía: Rm 12,1), un culto che i laici cristiani sono chiamati a vivere nel mondo, tra gli altri uomini e donne, senza evasioni: spendere la vita al servizio degli altri, questo è «offrire i propri corpi in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (cf. ibid.).

 

 

Conclusione

La concezione cristiana della politica – per usare le parole di Paul Valadier, l’ex direttore della rivista Études – è eversiva e può talvolta essere a-normale, nel senso che si distacca da ciò che nella storia è secondo la norma, è vincente e più facilmente attestato. Di fatto nella storia religione e politica sono sovente andate di pari passo, l’una a sostegno dell’altra: si pensi solo alla res publica romana, in cui la religione costringeva i cittadini alla devozione all’imperatore; all’epoca costantiniana che dal IV secolo è giunta in forme diverse fino al XIX secolo; al potere temporale accordato ai papi; agli stati confessionali; alle attuali teocrazie…

Ma la fede cristiana urta contro tale concezione perché pretende di avere principi irrinunciabili e non negoziabili nella vita personale del cristiano e in quella della comunità cristiana: il perdono e l’amore del nemico, la difesa degli ultimi, la protezione e la liberazione delle vittime, la dignità di ogni persona vivente, l’accoglienza degli stranieri… L’anomalia cristiana, la differenza cristiana appare dunque dove il messaggio del Vangelo si oppone alla necessitas imposta da qualsiasi potere mondano. È vero, la relazione tra politica e fede cristiana non può mai essere statica o risolta una volta per tutte: ma questo è lo spazio della profezia, ossia di una parola liberante e umile capace di essere solidale con gli uomini, a servizio della loro libertà e della loro umanizzazione.

Se tale anomalia del cristianesimo è un dato reale, i laici cristiani però non posono e non devono, a partire da questa autocoscienza evangelica, pretendere di imporre alla società il loro punto di vista etico; in particolare, devono rifiutare ogni tentazione di entrare nell’azione politica sfuggendo ai principi democratici. I cristiani, anche se sono una minoranza, hanno la responsabilità di dare il loro contributo all’edificazione della polis, accettando la logica della democrazia. E nel caso in cui comprendano che «è necessario obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29), possono ricorrere all’obiezione di coscienza verso le leggi dello Stato: si dimentica infatti troppo facilmente che i cristiani sono stati i primi a utilizzare questo strumento, attraverso la loro obiezione al servizio militare nell’impero romano… Certamente l’obiezione di coscienza è una scelta che deve essere meditata, non fatta con spirito di inimicizia nei confronti della società, ma nella consapevolezza che attraverso di essa si vuole affermare un cammino di umanizzazione, contro ogni barbarie.

Con tutto ciò che si è detto, non possiamo non denunciare oggi una certa afonia da parte dei laici cristiani nella vita della polis. In questo senso faccio mie le parole con cui il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, concludeva la sua prolusione ai lavori del Consiglio Episcopale Permanente (25 gennaio 2010):

 

[Vi] confid[o] un sogno, di quelli che si fanno ad occhi aperti, e che dicono una direzione verso cui preme andare. Mentre incoraggiamo i cattolici impegnati in politica a essere sempre coerenti con la fede che include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani, vorrei che questa stagione contribuisse a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro a essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni.

 Sì, occorre una comunità cristiana in cui i fedeli laici imparino a vivere con intensità la fede, fino a essere testimoni del Vangelo nella compagnia degli uomini. A questo ha recentemente fatto allusione anche Benedetto XVI quando, rispondendo alle domande dei giornalisti durante il volo verso il Regno Unito (Viaggio apostolico del 16-19 settembre 2010), in merito al futuro dei cristiani ha detto che le nuove generazioni di credenti dovranno imparare a vivere come minoranza in una società non più cristiana e indifferente. Ebbene, se i cristiani saranno una minoranza significativa, se sapranno essere sale del mondo e lievito del Regno nella società, allora svolgeranno il loro compito: il Vangelo sarà da loro testimoniato e annunciato, e così saranno – secondo le parole di Gesù – «suoi testimoni» (cf. At 1,8), cioè realizzeranno la loro missione in mezzo a tutti gli uomini.

Enzo Bianchi

 

 

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