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Messaggeri della tenerezza di Dio accanto a chi soffre

Relazione di sr Elena Bosetti in occasione dell’incontro diocesano di formazione per Ministri Straordinari della Santa Comunione. Bari, Aula Magna del Politecnico, 25 gennaio 2014.

Sono contenta di essere nuovamente qui con voi in occasione della Giornata mondiale del malato. Grazie della vostra cordiale accoglienza e dell’apporto che darete allo sviluppo del tema con le vostre domande e riflessioni.

Non abbiate paura della tenerezza!

Tenerezza è parola assai cara a Papa Francesco che fin dall’inizio del suo ministero petrino ci ha esortato a non avere timore della bontà, della tenerezza (19 marzo 2013). Non solo bontà, non solo amore, anche tenerezza. Che cosa aggiunge la tenerezza all’amore? Il tocco del gratuito, un sorriso, una carezza … Noi siamo creati e guariti dalla tenerezza di Dio che ci abbraccia nella carne umanissima di Gesù e siamo inviati come messaggeri/messaggere della sua tenerezza. “Oggi la gente – osserva Papa Francesco – ha bisogno certamente di parole, ma soprattutto che noi testimoniamo la misericordia, la tenerezza del Signore che scalda il cuore, che risveglia la speranza, che attira verso il bene (...) La diffusione del Vangelo non è assicurata né dal numero delle persone, né dal prestigio dell’istituzione, né dalla quantità di risorse disponibili, ma solo dalla tenerezza e dall’amore di Cristo” (Omelia del 7 luglio 2013).

Anche nel Messaggio per questa XXII Giornata mondiale del malato il Santo Padre parla di tenerezza. Ci esorta a “crescere nella tenerezza, nella carità rispettosa e delicata”, seguendo il luminoso esempio della madre del Signore: “Maria, spinta dalla divina misericordia che in lei si fa carne, dimentica se stessa  e si incammina in fretta dalla Galilea alla Giudea per incontrare e aiutare la cugina Elisabetta; intercede presso il suo Figlio alle nozze di Cana, quando vede che viene a mancare il vino della festa; porta nel suo cuore, lungo il pellegrinaggio della vita, le parole del vecchio Simeone che le preannunciano una spada che trafiggerà la sua anima, e con fortezza rimane ai piedi della Croce di Gesù. Lei sa come si fa questa strada e per questo è la Madre di tutti i malati e i sofferenti”.

Dostoevskij ha definito la tenerezza “forza dell’amore umile”. In effetti, non è virtù dei deboli ma dei forti. Lo ha bene illustrato Carlo Rocchetta nella sua originale monografia: “Teologia della tenerezza. Un Vangelo da riscoprire” (Bologna 2000), e più recentemente in “Abbracciami. Per una terapia della tenerezza” (Bologna 2012). Oltre che teologo, don Carlo è fondatore e guida spirituale del centro familiare “Casa della tenerezza” (Perugia). Egli ritiene che fra tutti i sentimenti non ne esista uno che superi la tenerezza come qualità tipicamente umana e umanizzante.

Sullo sfondo di questa essenziale premessa ci poniamo tre domande:

  • Come si rivela la tenerezza di Dio, come ne parlano i profeti, come la rende tangibile Gesù?
  • Come diventare “messaggeri/messaggere” della tenerezza di Dio? Questa domanda non ci porta subito “fuori” (verso gli altri), ma anzitutto “dentro” (verso il nostro cuore). Soltanto se ci lasciamo abbracciare dalla tenerezza di Dio possiamo a nostra volta irradiarla, prendendoci teneramente cura di chi soffre.
  • Inoltre, quale messaggio comunica la persona che si trova nella sofferenza? Essa non è semplicemente destinataria dell’amore di chi le sta accanto, ma è quanto mai coinvolta nella reciprocità perché irradia la tenerezza di Dio che si rivela in modo eminente sulla Croce.

Articolo la mia conversazione in tre passaggi: 1) come un padre che solleva il figlio alla sua guancia; 2) come una madre che accarezza e consola; 3) come Gesù, con la sua tenerezza.

1. Come un padre che solleva il figlio alla sua guancia

Il profeta Osea rilegge l’esperienza dell’Esodo in chiave di tenerezza, vede Israele come un bambino su cui Dio si china con amorevole cura per nutrirlo e insegnargli a camminare “tenendolo per mano”, proprio come si fa con un bambino che muove i primi passi e deve acquisire sicurezza. Il Signore ci insegna a camminare nella via dei suoi comandamenti, sulla strada che porta alla vita piena e felice.

Come un padre si prende cura di suo figlio, così ha fatto Dio con il suo popolo durante la peregrinazione nel deserto. Non solo lo ha custodito, lo ha nutrito con la manna, lo ha dissetato con acqua dalla roccia, ma più ancora  lo ha fatto vivere della sua parola, lo ha come ricreato mediante le parole della sua bocca, parole di vita e di alleanza. Lo scenario del deserto riecheggia continuamente la domanda essenziale: “Non è lui il padre che ti ha creato, non è lui che ti ha fatto e ti ha costituito?” (Dt 32,6). Recita il salmista che ricorda le meraviglie e i benefici del Signore: “Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono” (Sal 103,13).

Un Dio che si china: la via kenotica della tenerezza

La Bibbia ci parla di un Dio che è sceso e si è chinato sulle sofferenze del suo popolo, che si è abbassato per sollevare Israele “su ali di aquila” (Es 19,4). Sempre di nuovo il Signore si abbassa, si china per prendersi cura di ogni persona che vive in situazione di oppressione, di sofferenza e infermità. A ciascuno egli ripete: “Io sono il Signore, colui che ti guarisce!” (Es 15,26).

Possiamo parlare di una dimensione kenotica della tenerezza divina, descritta con forte pathos in Osea 11,1-4:

Quando Israele era fanciullo,

io l’ho amato

e dall’Egitto ho chiamato mio figlio ...

A Èfraim io insegnavo a camminare

tenendolo per mano,

ma essi non compresero

che avevo cura di loro.

Io li traevo con legami di bontà,

con vincoli d’amore,

ero per loro

come chi solleva un bimbo alla sua guancia,

mi chinavo su di lui

per dargli da mangiare.

Dio ha posto in atto per Israele tutta la cura e l’affetto che un genitore (padre/madre) riserva alla sua creatura. Un bimbo piccolo che impara a camminare facilmente cade a terra. Allora il padre cosa fa? Lo prende in braccio, lo stringe teneramente a sé, lo solleva fino “alla sua guancia”. Così ha fatto Dio con il suo popolo. Dio trova la sua gioia nel prendersi cura dei suoi figli, nel chinarsi per nutrire e per rialzare chi cade, per sostenere e rinvigorire i passi incerti sulla via della vita.

L’immagine del padre/madre che si china sulla propria creatura per imboccarla, traspare anche nel Salmo che recita: “Apri la tua bocca, la voglio riempire” (Sal 81,11). Che cosa indica questo modo di esprimersi? Non si dice a una persona adulta e sana: “Apri la tua bocca, la voglio riempire”. Chi si trova nella situazione di essere imboccato? Generalmente un bimbo oppure una persona invalida che non riesce a portarsi il cibo alla bocca. Ho chiesto una volta a chi mi stava accanto e pregava questo salmo: cosa ti viene in mente quando leggi questa frase? E prontamente mi ha risposto: quando apro la bocca per ricevere la Comunione. Interessante, ma il salmista non aveva certo in mente questa situazione! Forse è più vicino alla realtà pensare a come la mamma imbocca il suo bambino, alle coccole e paroline dolci che usa talora per fargli aprire la bocca quando non ha voglia di mangiare. Non diversamente si comporta il Signore con il suo popolo: “Lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazierei con miele dalla roccia” (Sal 81,17).

E come risponde l’umanità a tanta cura e tenerezza? “Essi non compresero che avevo cura di loro”, dice Dio per bocca di Osea. Anzi, “più li chiamavo, più si allontanavano da me” (Os 11,2-3). Siamo di fronte al dramma dell’amore divino che non è compreso e rifiutato. Dio che si coinvolge, che desidera ardentemente stabilire una relazione di intimità, e il suo popolo che invece rimane indifferente e si allontana. È un dramma che si prolunga nella storia, che riguarda anche il nostro oggi.

Siamo chiamati a portare a tutti la bella notizia, l’abbraccio del Padre, il suo sorriso. È necessario però che i nostri vicini, le persone che visitiamo e di cui ci prendiamo cura, possano sentire e vedere che non sono soltanto belle parole, che Dio è veramente così, pieno di tenerezza: padre/madre per ciascuno di noi, sue creature. La gente ha spesso in testa un’altra idea di Dio, quella del Signore onnipotente che se poi non fa il miracolo è visto come “onnipotente indifferente” se non proprio ostile. Come annunciare la tenerezza divina a gente che è arrabbiata con la vita? Non tanto con le parole, quanto piuttosto con la nostra vita. Occorre che i messaggeri e le messaggere siano pienamente sintonizzati con il messaggio che annunciano, che ne siano talmente impregnati da poterlo comunicare, per così dire, attraverso tutti i pori.

2. Come una madre che accarezza e consola

Per esprimere la tenerezza di Dio la Bibbia parla anche di viscere materne che fremono di compassione. Dio per Isaia è come una madre che non può dimenticare la sua creatura. Anzi, se dolorosamente può accadere che una madre abbandoni il proprio figlio, Dio invece non ci dimenticherà mai:

Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato,
il Signore mi ha dimenticato».
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se costoro si dimenticassero,
io invece non ti dimenticherò mai.
Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato,
le tue mura sono sempre davanti a me (Is 49,14-16).

La città di Sion si lamenta di essere stata dimenticata dal Signore, e a questo lamento Dio risponde per bocca del profeta con parole che toccano il cuore, che fanno vibrare l’animo aprendolo alla piena fiducia. La madre esprime il legame originario e la forza quasi istintiva del prendersi cura. È il corpo stesso della madre che dichiara questo legame affettivo, un corpo che si contrae e si dilata in funzione della creatura che porta in grembo, un corpo che accoglie e nutre la vita.

Per dire il suo indelebile e tenerissimo amore Dio fa leva su questa forza primordiale, sulla memoria iscritta nelle viscere materne. Anche se (terribilmente) una madre si dimenticasse del suo bambino, egli invece non si dimenticherà mai dei suoi figli. Dio conosce bene le paure del nostro cuore e ci vuole rassicurare: fidati di me che ti voglio bene, ti sono affezionato più di quanto lo sia la più tenera delle madri, non ti abbandonerò mai! Ricordo l’emozione suscitata dalle parole di Giovanni Paolo I quando commentò, con il suo stile semplice e diretto: «Il popolo ebraico ha passato un tempo momenti difficili e si è rivolto al Signore lamentandosi dicendo: “Ci hai abbandonati, ci hai dimenticati!”. “No! - ha risposto per mezzo di Isaia profeta - può forse una mamma dimenticare il proprio bambino?  Ma anche se succedesse, mai Dio dimenticherà il suo popolo (cf. Is. 49,15)”. Anche noi che siamo qui, abbiamo gli stessi sentimenti; noi siamo oggetti da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre» (10 settembre 1978).

L’immagine di Dio-madre ritorna alla fine del libro di Isaia con accenti particolarmente intensi. Il profeta vuole trasmetterci, e ci riesce, il suo entusiasmo per il progetto di Dio che porta fino in fondo la gestazione della salvezza. I figli di Gerusalemme saranno come bambini coccolati in braccio alla mamma:

Voi sarete allattati e portati in braccio,
e sulle ginocchia sarete accarezzati.
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò;
a Gerusalemme sarete consolati (Is 66,12-13).

La madre Sion, ricca di amore e di latte, si fa nutrice generosa e tenera. Una immagine dolcissima che ha affascinato santa Teresa di Lisieux dischiudendo una chiave interpretativa della sua spiritualità. Lei ha profondamente compreso la tenerezza materna di Dio. La sua “via breve" consiste nell’essere presa tra le braccia di Gesù e portata da Lui fin sulla vetta della santa montagna. La debolezza, la povertà e perfino il peccato non sono di ostacolo all’Amore, anzi lo attraggono: la misericordia abbraccia la miseria. Teresa ha capito che la tenerezza è radicata nel mistero stesso di Dio. Possiamo essere molto limitati nel dare amore, ma tutti possiamo essere infiniti nel lasciarsi amare.

3. Come Gesù, con la sua tenerezza

Gesù è la tenerezza di Dio fatta carne. Egli ci comunica con l’intera vita, con il suo insegnamento e i segni di guarigione nel corpo e nello spirito, come Dio ha tanto amato e ama il mondo. Gesù rivela il volto del Padre con cuore di madre, pieno di misericordia e compassione. Basti pensare alle parabole e in particolare a Lc 15, all’abbraccio padre che vede da lontano il figlio che torna a casa dopo aver sperperato la sua eredità, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo abbraccia teneramente colmo di gioia… Lascio a voi approfondire queste stupende parabole. Qui mi limito a evidenziare alcuni segni (miracoli) che rendono visibile la tenerezza di Gesù nei confronti dei malati nel corpo e nello spirito.

Notiamo anzitutto che Gesù non solo comunica tenerezza ma è capace di accoglierla. Si lascia amare teneramente (e anche pubblicamente) da donne che non godono fama di santità, come l’anonima peccatrice di cui parla Luca al capitolo sette. Non interrompe il pianto di quella donna, non le dice “adesso basta”, lascia che pianga tutte  le sue lacrime, che gli asciughi i piedi con i suoi lunghi capelli, che glieli baci e cosparga di profumo … Il fariseo che lo aveva invitato a pranzo e i suoi ospiti restano allibiti e sgomenti davanti a questa scena che sappiamo come va a finire: non solo Gesù prende le difese ma elogia quella donna contrapponendo il suo atteggiamento a quello del fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati» (Lc 7,44-48).

Un contatto diretto, personale

Gesù imponeva le mani su ciascuno, pur essendo innumerevoli i malati che andavano da lui: «tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva» (Lc 4,40). Colpisce l’insistenza su questo contatto diretto di Gesù con le persone. Gesù non ha fretta, vuole avere un contatto diretto con ogni uomo e donna: la sua è una cura personalizzata. Gesù non prescrive ricette a distanza ma asseconda l’esigenza umana del contatto, non si sottrae alla folla che preme per toccarlo personalmente. Emana dal suo corpo una straordinaria energia sanante, una forza (dynamis) carismatica che ha il potere di guarire ogni tipo di infermità e di malattia (dell’anima e del corpo).

Il Cristo è abitato da un’infinita compassione. La sua azione terapeutica muove dal di dentro, dalle ferite profonde dell’anima, ma riabilita (mette in piedi) tutta la persona, come appare chiaramente nella guarigione del paralitico al quale Gesù dice anzitutto «ti sono perdonati i peccati» e quindi: «Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua» (Mc 2,9-11). La scena è da film, così plastica che sembra di vederla. L’uomo paralitico disteso sulla barella prontamente si alza, si regge sulle sue gambe, sta in piedi e cammina, riesce anche a portarsi la barella sulle spalle!

Gesù guarisce l’uomo tutt’intero, anima e corpo. La sua parola ha il potere di farci alzare (posizione del risorto) e di metterci in cammino interiormente riconciliati, in grado di ritornare a casa con piena dignità.

Chinato su di lei

Il primo miracolo compiuto da Gesù a favore di una donna ha per protagonista la suocera di Pietro. Su questo dato concordano tutti e tre i Sinottici. Diversamente da Marco che registra l’interessamento dei parenti («e subito gli parlarono di lei»: Mc 1,30), Luca sottolinea la dimensione di preghiera che caratterizza quella casa: «lo pregarono per lei» (Lc 4,38). Gesù li esaudisce. Si avvicina al letto e si china con tenerezza sulla malata per guarirla e riabilitarla nella sua dignità vocazionale e ministeriale. Si tratta di una guarigione per la diakonia. Questa donna, infatti, prontamente si mette a “servire” i suoi ospiti. Occorre tener presente che siamo in giorno di sabato e che la signora di casa ha un compito specifico nella liturgia domestica. Guarita da Gesù, la suocera di Pietro è dunque riabilitata nella sua ministerialità liturgica, nella sua specifica diakonia, diventando per così figura della stessa comunità ecclesiale che corrisponde con gioia alla tenerezza di Dio.

Figlia, la tua fede ti ha salvata

In Lc 8,41-56 sono intrecciati due miracoli: la guarigione di una donna che da dodici anni soffriva perdite di sangue e la risurrezione della dodicenne figlia di Giairo. La figura di quest’ultima è inseparabilmente legata a quella del padre, l’unico personaggio di cui è detto il nome (Giairo in ebraico significa “Dio risplende”).

Si tratta di un uomo di spicco, con una certa autorità sociale: è “il capo della sinagoga”, ma si getta ai piedi di Gesù come uno schiavo davanti al padrone. Non bada alla propria reputazione, l’unica cosa che in quel momento gli importa è la vita della sua giovane figlia che sta per morire.

Gesù accetta di andare a guarirla. Ma strada facendo ecco un incontro fuori programma: una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire, gli si avvicinò alle spalle e gli toccò il lembo del mantello …

L’evangelista Marco presenta la situazione in forma assai più cruda: quella donna aveva speso tutto il suo patrimonio per consultare i medici e lo aveva fatto inutilmente, anzi si era ridotta in miseria. Luca (“medico”) risparmia l’affronto ai colleghi, si limita a dire che «nessuno era riuscito a guarirla». Ma è più che sufficiente per dipingere la realtà dolorosa di quella poveretta. Umiliata dal suo male che la rendeva “impura” secondo la Legge (Levitico 15,19-27), lei sperava tanto di ottenere la guarigione passando inosservata. Solo Luca riferisce il particolare, così espressivo, del “lembo del mantello”.

Gesù non si sottrae al bisogno umano del contatto. Anzi, ci tiene a esplicitare la tenerezza: «Chi mi ha toccato?», chiede alla folla che gli si stringe attorno. E non si arrende, benché Pietro gli faccia notare la situazione: «Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia». Ma Gesù insiste: «Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me» (Lc 8,46). La donna allora si fa avanti, si gettata ai piedi del Signore, dichiara il motivo per cui l’aveva toccato e come subito era stata guarita. E qui accade il vero miracolo e si comprende perché il Maestro cercava con tanta insistenza chi lo avesse toccato. Non certo per rimproverare, ma piuttosto per comunicare alla persona guarita la sua dignità filiale. Gesù guarda con tenerezza la donna che con grande fede gli aveva toccato il mantello e la chiama «figlia». Ecco perché la cercava! Si può forse lasciare andare una figlia senza riconoscerla? Lei non è semplicemente una miracolata tra le tante, ma una figlia. Gesù vuole che abbia piena consapevolezza dell’affetto che lui nutre per lei, deve poter continuare a vivere di quel suo affetto... La tenerezza di Gesù si esprime nel dare volto, nome, significato. È tenerezza che conferma e rassicura: «Figlia, la tua fede ti ha salvata, và (e rimani) nella pace!» (Lc 8,48).

Per continuare la riflessione

A questo punto vorrei riprendere le tre domande poste in apertura della nostra conversazione e approfondirle alla luce della vostra esperienza.

  • Come essere messaggeri/messaggere di tenerezza nei confronti di chi si trova a vivere l’angoscia della sofferenza, della malattia o comunque di situazioni pesanti, umanamente senza speranza?
  • Siamo capaci di cogliere in chi sta vivendo il dolore l’appello che ci viene rivolto in chiave di tenerezza?  Non si tratta di spiritualismi, ma di spiritualità profonda. La tenerezza di Dio per un cristiano si rivela in modo eminente sulla croce.

La forma fisica della croce richiama quella dell’abbraccio. L’essere umano (a differenza dell’animale) è capace di stare in piedi e di stendere le sue mani. La “croce” implica l’essere innalzati e aprire le braccia in sego di accoglienza. Cristo è l’unico fondatore di una religione che muore con le braccia aperte ad accogliere l’intera umanità. Abbraccio universale di cui la Chiesa è frutto e primizia. Dio ha disteso nella sua sofferenza le mani e ha abbracciato l’universo per annunciare che da oriente a occidente un popolo nuovo sarebbe venuto ad adunarsi sotto le sue ali (Lattanzio)

  • Come risvegliare nelle nostre comunità (e nel mondo) l’incanto del Vangelo, di un Gesù vivo, che ancora passa in mezzo al suo popolo, incoraggia, consola, cura le ferite dell’anima e del corpo, annuncia ai poveri la bella notizia? Gesù non manda la sua Chiesa soltanto a predicare, ma a compiere i “segni” che lui stesso faceva (si veda Mc 16,15-18).

La prima comunità cristiana ha sperimentato l’energia vivificante del Risorto, l’effusione dello Spirito con la molteplicità dei suoi carismi. Segni e prodigi accompagnavano la predicazione degli apostoli (At 5,12). Non si tratta di incrementare la caccia ai miracoli e l’insaziabile bisogno di vedere segni prodigiosi, atteggiamento da cui Cristo stesso prende le distanze (vedi Mt 12,38-39 e testi paralleli). Si tratta piuttosto di saper intercettare la domanda profonda che abita i nostri contemporanei, la ricerca di senso, le fatiche, lo smarrimento, il vuoto esistenziale... Occorre diventare simili a Gesù e lasciarci abitare dal suo Spirito per vedere le cose (e le persone) come le ha viste lui, con il suo sguardo luminoso, con il suo fremito di compassione e la sua infinita tenerezza.

Sr. Elena Bosetti

Suore di Gesù Buon Pastore

Strada Montanara, 178

41122 Modena

elena.bosetti@gmail.com

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