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Il caso Antinori e le nostre indifferenze

Dopo l’arresto del ginecologo Severino Antinori e il sequestro della clinica per la infertilità Matris spuntano dalle carte dell’inchiesta di Milano i nomi di 23 ragazze, che si sarebbero prestate alla ovodonazione. Si scopre che vengono dall’Albania, dalla Romania, dal Sudamerica, da Paesi poveri; solo due le italiane – una di Messina e una di Bari, cioè da un Sud con ampie sacche di disoccupazione e povertà. E queste provenienze, incrociate con la nota scarsità di ovodonatrici in Italia, tale che anche degli ospedali pubblici hanno dovuto rivolgersi all’estero, dovrebbero fare pensare. Pare improbabile che una giovane donna rumena o cubana venga da tanto lontano, semplicemente animata dalla altruistica volontà di donare le sue cellule germinali, dietro a un modesto rimborso spese.

Se questa volontà generosa fosse davvero tale, non si capisce perché non dovrebbe aiutare a diventare madri delle sue connazionali, amiche o parenti. Invece gli itinerari di queste donne sono gli stessi, a pensarci, della manodopera meno qualificata, quella di colf e badanti, che convergono verso l’Italia, spesso pagate in nero. La versione divulgata da alcuni media, secondo cui le donatrici sarebbero delle donne straniere dalla mentalità più "libera" e evoluta della nostra, appare dunque contraddetta da quei passaporti: quando non ci sia di mezzo un rapporto di sangue o di amicizia, è il bisogno che spinge a mettere a disposizione il proprio patrimonio biologico.

D’altronde, e senza bisogno di inchieste penali, era abbastanza chiaro che difficilmente una donna si sottopone a esami medici, bombardamenti ormonali e un intervento chirurgico, per pura gratuità. Si inizia a delineare cioè, fra le pieghe dalla fecondazione assistita, l’emergere di una sorta di Lumpenproletariat, un nuovo sottoproletariato femminile disponibile a mettere in vendita una parte del proprio corpo, e non certo una parte irrilevante, giacché da quegli ovuli, quando vengano fecondati, può nascere un bambino. Fa pensare, che trenta o quarant’anni fa il femminismo gridasse nelle strade d’Occidente contro lo sfruttamento delle donne, e ora invece cominci a diventare pensabile vendere la propria fecondità, o perfino a rendersi disponibili a una gestazione per altri, "affittando" il proprio utero. Si registra, è vero, un sussulto di fronte a questa "modernità" nelle fila del femminismo storico o semplicemente fra donne esponenti della cultura e della politica; eppure questo condivisibile rigetto non appare ancora qualcosa di elitario, di riservato alla metà "giusta" del mondo? Poi invece dall’Albania e dal Sudamerica, e perfino dal nostro Sud, arrivano giovani donne disposte a "donare" la loro fecondità, per bisogno.

Con quel che ho preso dall’intervento mi sono pagata tre mesi di affitto », ha raccontato una ragazza spagnola a un giornale italiano, descrivendo la propria esperienza in una clinica del suo Paese. Il mondo del precariato e della disoccupazione giovanile di massa forse sfocia anche nella disponibilità a cedere qualcosa del proprio corpo. Sarà una vittoria del progresso, della modernità? Ne dubitiamo fortemente. Piuttosto ci pare la ultima declinazione di una certa visione attuale del mondo, secondo cui tutto è mercato, tutto si può vendere. E ci sarà magari anche qualcuno che dirà: che male ci sarebbe, se anche le donne fertili mettessero i loro ovuli a disposizione delle meno fortunate, dietro un ragionevole compenso. Ma sono obiezioni che valgono in linea teorica, finché si discute di estranee. Immaginiamoci invece che una nostra figlia ci annunci che ha firmato il contratto, e che sarà madre biologica di figli che non vedrà mai. Chi di noi resterebbe indifferente? Ci sono cose che attengono alla natura degli esseri umani, e che non possono essere vendute senza che, consenziente o no che sia il venditore, ci sia sfruttamento. La questione sta nel vedere il mondo come un unico grande mercato globale, o nel riconoscere che ci sono cose inalienabili – ciò che sappiamo molto bene, quando parliamo di figli nostri. In fondo, il mondo ridotto a mercato spesso denunciato dal Papa finisce quando si pensa all’altro come a un figlio, e non come a una cosa.

Marina Corradi © riproduzione riservata

© Avvenire, 20 maggio 2016