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I 50 anni di sacerdozio di Cacucci: «il difetto dei baresi, parlare male della città»

Sorriso accennato. Chi lo conosce, sa che quello è il suo sorriso che ha la stessa levità del tono di voce o dei gesti. Come quando tocca la croce che gli pende sul petto, mentre parla, seduto sulla sediolina verde, in una stanza al secondo piano dell'Arcivescovado, nel cuore di Barivecchia. Perché siamo qui? Perché monsignor Francesco Cacucci celebra i suoi 50 anni cli sacerdozio, era il 29 giugno 1966, e l’arcivescovo ha accettato l’intervista, cosa assai rara. Uomo schivo, sostanzialmente, seppur immerso nel popolo.

 

Facciamo un salto indietro: giorno d'emozione, quel 29 giugno?

«Non particolarmente, né il giorno dell’ordinazione presbiterale, né il giorno dell'ordinazione episcopale, 29 anni fa. Potrei dire che il Signore mi ha preparato a vivere i momenti di pienezza e di gioia nell'intero arco del ministero presbiteriale ed episcopale. Quindi quando si dice '”il giorno più bello della mia vita”, la prima comunione o il giorno dell'ordinazione, credo che questo non faccia parte della mia profonda esperienza, Ciò non significa che non abbia vissuto felicemente la mia vita sacerdotale. Devo forse sottolineare che una sorta di pienezza di vita sacerdotale l'ho vissuta da parroco perché l'esperienza della parrocchia è l'esperienza dell'incontro con una chiesa di popolo dove percepire la fede a livelli alti; ci sono i fedelissimi ma anche coloro che vivono sulla soglia».

 

Da vescovo ha perso forse il contatto con la «strada»?

«Ho vissuto i primi sei anni da vescovo ausiliare nella diocesi di Bari-Bitonto, ho continuato a vivere a casa con i miei genitori, in un condominio, quindi non ho perso questo riferimento con la strada. C'è da dire che l'esperienza del vescovo è un’esperienza unica e singolare, si vive una paternità che nemmeno da sacerdote si vive con tale pienezza».

 

Ma cosa è cambiato in questi 50 anni? Sono ad esempio cambiate le parole per dialogare con le persone? Era più facile un tempo rispetto a questa distanza, a questo nichilismo dei tempi nuovi?

«In questi anni c'è stata un’evoluzione. Subito dopo il Concilio da una parte l'entusiasmo per il rinnovamento della Chiesa, dall'altra parte in quegli anni la contestazione giovanile e il furore ideologico. Io sono diventato sacerdote nel '66 e ho cominciato a insegnare al Liceo Scacchi nel '68, dove ho insegnato fino all'87, quando sono diventato vescovo. Ho vissuto fin dall'inizio questo cambiamento. Era difficile in quegli anni anche la convivenza tra un viceparroco e il parroco cosi come lo era tra figli e genitori, tra giovani e adulti. Anni difficili per un verso ma entusiasmanti, non si tratta adesso di leggere con gli occhi del poi gli anni della contestazione certo quando mi incontro con diverse classi dl quegli anni, e capita spesso, noto come la tentazione di essere laudator temporis acti (lodatore del tempa passato, ndr) è sempre in agguato. Credo che l'aspetto limitante di quegli anni era la rigidità ideologica senza mezzi termini bisogna dire che chi non ragionava secondo l'ideo logia marxista era ritenuto arretrato non solo sul piano della società ma anche della Chiesa. Come accade sempre, poi, gli aspetti positivi che emergevano da quella critica della società sono stati eccessivamente liquidati».

 

E oggi la gente che viene in chiesa, o che viene da lei, chiede aiuto rispetto a questo sbando?

«Non ho mai incontrato nella mia vita di sacerdote e di vescovo una persona veramente atea. Mi ha impressionato quello che ha detto Indro Montanelli prima di morire, in un elzeviro sul Corriere, rivolgendosi al cardinale Martini, diceva: al termine della mia vita, dico che se Dio esistesse, incontrandolo, lo rimprovererei perché non mi ha concesso la fede. E aggiungeva: non consideri questo mio sfogo quasi una impertinenza ma una dichiarazione di fallimento. In fondo quella di Montanelli era un'implicita professione di fede. Io incontro tante persone, anche persone dichiaratamente agnostiche, che però si pongono questi problemi».

 

Quando incontra i suoi ex alunni dello «Scacchi» cosa vede in loro? Persone risolte o perdute? Sente un po’ il senso della responsabilità?

«Mi impressiona che alcuni di questi vengano da Londra, da Stoccolma, da Milano, da tutte le parti del mondo per vivere una serata insieme. E non mi sembra che si riduca tutto a una sorta di amarcord, anzi si parla del presente e colgo un cammino di maturità in questi adulti, alcuni già in pensione, con le contraddizioni e anche le ferite della vita. Globalmente però dico che quei giovani sono stati accompagnati nell'inserimento nella società e nel lavoro, la maggior parte di questi ha ruoli di grande responsabilità, negli ospedali che visito, al Policlinico, ad esempio, incontro tanti ex alunni: non so se mi devono tranquillizzare sul mio futuro o mi debbano quasi far capire che sarò presto in mano loro ... Però per loro è esistito un futuro, ciò che invece è molto più difficile per i giovani di oggi».

 

Lei parla spesso dell'importanza dell'ascolto. Forse quello che manca nelle nostre periferie.

«Non da adesso, da quando son venuto a Bari, non ho condiviso molto la declinazione di periferie, ferma a quelle che erano le periferie del passato. Per esempio il San Paolo o Japigia, me ne sono accorto durante le visite pastorali, non sono più periferie. lo sono state un tempo. Io che sono nato in corso Sonnino consideravo Japigia come una sorta di quinto mondo. Ma oggi, nonostante gli errori commessi sotto il profilo urbanistico, non si può dire nemmeno che lo periferie siano l'ex Enziteto, San Pio, o Catino, senza negare le serie problematiche che lì sussistono. Credo che il quartiere più periferico sia il Libertà. Quando quasi una decina di anni fa, facendo una visita pastorale, ho incontrato non solo le persone ma sono entrato nelle case del Libertà, mi sono permesso dl sottolinearlo fortemente a tutti i livelli. Poi ci si è lentamente resi conto che il Libertà è la vera periferia. Passi avanti sono stati fatti, grazie alla riapertura dell'Oratorio del Redentore. Ma non dimentichiamo che esistono periferie esistenziali».

 

Cosa intende?

«Le periferie che toccano il mondo degli anziani. Cinquant'anni fa esistevano parrocchie giovanili, penso a Poggiofranco, ad esempio, o al Buon Pastore, dove sono stato parroco. Oggi sono quartieri di anziani, sono quartieri in crisi. Noi non abbiamo ancora considerato a sufficienza questo tipo di periferia».

 

Quando parla di Bari s'avverte come una vibrazione ... le piace questa città?

«Moltissimo. E vorrei che noi baresi parlassimo bene di Bari. In questi 17 anni, di ritorno da Otranto, ho trovato gradualmente una Bari che è migliorata. Tutti i funzionari, soprattutto ad altri livelli, che vendono a Bari mi dicono sempre che quando sono venuti, son venuti mal volentieri, preceduti da una immagine non positiva della città. Senza eccezione, quando vanno via, vanno malvolentieri e tutti mi dicono: dica ai baresi di non parlare male di Bari».

 

Parlare male di Bari: un nostro difetto peculiare?

«È un tale difetto barese che dire difetto è un eufemismo. Perché ogni volta che dobbiamo riconoscere che c'è una cosa buona dobbiamo mettere una virgola e aggiungere un «ma». I sacerdoti lo sanno benissimo, ma vorrei aggiungere che non solo dal punto di vista sociale ma anche ecclesiale, ovunque vado in Italia parlano della chiesa di Bari e delle chiese di Puglia come una sorta di eccezione positiva nel panorama più generale. Non si tratta di considerare ingenuamente solo le luci, ci sono alcuni aspetti che riguardano il rispetto reciproco, penso soprattutto al traffico, che sarebbe improvvido considerare positivo».

 

Un altro difetto barese ...

« ... però ci sono degli aspetti di capacità di intraprendenza che rendono la città di Bari non solo nel Sud, e la diocesi non solo nel Sud, in tutta Italia, un esempio di apertura all'avvenire».

 

Parlando di Bari non si può prescindere dalla gloriosa presenza nicolaiana. Non pensa che, al di là dell'energia che richiama tanti pellegrini, cominci ad emergere una nota speculativa, commerciale, perfino superstiziosa? Si domanda quale immagine si stia realmente consegnando della città di San Nicola?

«Bari e San Nicola sono una sola cosa. Le sorti di Bari sono dipese nella storia, fin dall’inizio, fin dal 1087, dalla traslazione da Myra delle reliquie di San Nicola. Non si potrebbe concepire la vita di Bari sotto il profilo ecclesiale e civile senza la presenza di San Nicola, è un dato storico incontrovertibile. Parto da una esperienza: la celebrazione della solennità di San Nicola il 6 dicembre. Sto ripetendo ultimamente che vorrei battezzare questo giorno come il precetto natalizio dei baresi. Non ci sono, in quel giorno festeggiamenti esterni, ma dal primo mattino fino alla sera si celebrano lo sante messe e non sono mai sufficienti i confessori nella basilica: i padri domenicani, che sono 13 e che prestano questo ministero prezioso nella basilica, hanno bisogno dell'aiuto di tantissimi altri sacerdoti. Sento spesso che anche delle persone non proprio fervorose sul piano della fede, sentano il bisogno, in quel giorno, di confessarsi e di fare quello che io vorrei definire ancora una volta il precetto natalizio. Ma questo è un segnale, il segnale di quello che i baresi sentono verso San Nicola. Certo, ogni realtà può avere le sue deformazioni. Mi riferisco anche agli ultimi episodi che hanno accompagnato San Nicola».

 

Allude alla «guerriglia degli abusivi», alla violenza esplosa a maggio nel corso dell'ultima festa patronale?

«Sì. Mi sento di sostenere fortemente l'opera del sindaco Antonio Decaro in questa purificazione: nulla deve essere confuso con gli interessi sovraeconomici o peggio con la criminalità».

 

Ma le piace questa identificazione, un po' commerciale, con Babbo Natale?

«Che San Nicola sia stato identificato con Papà Noel, questo fa parte anche di un immaginario che ha accompagnato tutto il mondo. Non dimentichiamo che San Nicola, dopo la Madonna, è il santo più venerato al mondo. Sono convinto che l'avvenire dell'ecumenismo passa attraverso questo santo, e so quel che dico. Quindi, nonostante le tentazioni di deformazione della realtà di fede e di devozione, San Nicola non appartiene solo ai baresi ma al mondo ecclesiale occidentale e orientale, al mondo cattolico e ortodosso e anche al mondo evangelico. Non avrei preoccupazione di attenuazione di questa vocazione ecumenica di Bari».

 

Qual è una cosa che ama fare in questa città: sentire l'odore del mare, passeggiare in solitudine, tornare in corso Sonnino?

«Passeggiare, sì, mi piace molto. Credo di farlo abbastanza, frequentemente e non da adesso. Quando sono diventato vescovo ho vissuto con una certa sofferenza l'essere diventato più “funzione”. Mi hanno aiutato soprattutto i giovani ad essere sempre “don Franco”. Mi piace raggiungere i luoghi o le parrocchie passeggiando, mi piace passeggiare con gli amici».

 

Insomma. Un bilancio di questi 50 anni?

«Il bilancio lo lascio al Signore».

Carmela Formicola

La Gazzetta del Mezzogiorno, 28 giugno 2016

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