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Verso le periferie della storia. La Pentecoste e lo splendore della speranza

Proposta per l'Anno Pastorale 2013-2014, "Anno della speranza". Relazione dell'Arcivescovo di Bari-Bitonto mons. Francesco Cacucci all'Assemblea Diocesana. Bari, Aula Magna Scuola Allievi della Guardia di Finanza, mercoledì 18 settembre 2013.

Canto dello splendore dell’acqua

Nel fondo stesso, a cui volevo solo attingere

acqua dalla mia brocca, ormai da tempo alle pupille

aderisce splendore… tante le mie scoperte

quante mai fino ad ora!

Qui, riflesso dal pozzo, scopersi in me tanto vuoto.

Che sollievo! Interamente non saprò in me trasportarti,

ma voglio che tu resti, come nello specchio del pozzo

restano foglie e fiori colti dall’alto,

dallo sguardo degli occhi stupefatti –

occhi più luminosi che tristi

(Karol Wojtyla, 1950)

a) Dall’Anno della fede…

Con lo pseudonimo di Andrzej Jawien, a trent’anni, Karol Wojtyla pubblicava la raccolta dal titolo ‘Canto dello splendore dell’acqua’, otto intense poesie dedicate all’incontro di Gesù con la Samaritana[1].

Lo scorso anno, celebrando l’Anno della Fede, ci siamo lasciati ispirare, lungo il cammino dell’Anno liturgico, da un riferimento liturgico e uno biblico: la sorgente luminosa della Veglia pasquale e la storia di Bartimeo, privato della luce dalla sua cecità (Mc 10, 46-52). L’esperienza vissuta dalle nostre comunità, grazie a questo binario biblico-liturgico è stata feconda. Anche quest’anno, allora, ci muoveremo in questa maniera, seguendo però non l’immagine della luce ma quella dello “splendore dell’acqua”. Da qui la scelta del passo evangelico che racconta l’incontro di Gesù con la donna Samaritana (Gv 4, 5-30), e la scelta della Pentecoste, come orizzonte del cammino che vogliamo percorrere.

Rimaniamo in continuità con lo scorso anno, perché il riferimento liturgico al dono dello Spirito sottolinea le conseguenze del dono pasquale. La festa di Pentecoste non potrebbe realizzarsi se non ci fosse la Pasqua; e, allo stesso tempo, la Pasqua non porterebbe i suoi frutti in noi se non ci fosse la Pentecoste. Dice san Bernardo: “abbiamo un pegno della nostra salvezza: la doppia effusione del Sangue e dello Spirito; a nulla mi gioverebbe l’una senza l’altra. Non mi gioverebbe il fatto che Cristo è morto per me, se non mi vivificasse con il suo Spirito”[2].

Rimaniamo in continuità anche con l’esperienza dell’Anno della Fede, che in qualche maniera non poteva non condurci e non invitarci alla speranza. Infatti, un tratto che accomuna e allo stesso tempo distingue il mistero della Pasqua e della Pentecoste è proprio il cammino della fede ‘e’ della speranza: fede ‘e’ speranza: come due facce di una stessa medaglia. Da un lato la Veglia pasquale, che ci invita a procedere dall’esterno verso l’interno, dalla strada verso l’altare; dall’altro lato la Pentecoste, che porta la nostra fede dall’interno verso l’esterno, dall’altare verso la strada. Questo perché non è possibile aprirci alla missione se prima non viviamo la comunione: è il cammino della mistagogia.

Spesso, in questi anni, è ritornata l’esigenza di vivere il cammino mistagogico nella nostra diocesi superando la tentazione di considerarlo relegato all’aspetto liturgico-sacramentale. La mistagogia ha il suo posto nella vita, nella sintesi tra Parola-Liturgia-Vita, aiuta tutta la Chiesa a passare dai “principi” evangelici agli “imperativi” per attuare, oggi l’amore di Dio e del prossimo[3].

Molto bella, ripensata in quest’ottica, è l’immagine che ci offre Karol Wojtyla, quando dice che lo splendore dell’acqua del pozzo, il mistero di Cristo, resta inattingibile. Con stupore la Samaritana “scopre in sé tanto vuoto”; ma “con sollievo” sceglie di conservare in sé l’immagine dell’acqua del pozzo, piena di “foglie e fiori”. Perché “interamente non saprò in me trasportarTi” (dice la Samaritana al Signore), ma “voglio che Tu resti”: come Fondo del mio fondo, “splendore” della mia brocca. E da questa pienezza, come sappiamo, come vedremo, nasce nella Samaritana anche l’urgenza del dono di sé, il farsi sorgente per gli altri. Come dice Papa Francesco nella sua prima Enciclica, Lumen fidei, “chi si è aperto all’amore di Dio, ha ascoltato la sua voce e ha ricevuto la sua luce, non può tenere questo dono per sé”[4]. Con il Mistero nel cuore, la Samaritana corre in città e diventa ‘apostola’ (comunione-missione).

b) Con il sostegno dalla speranza

La dinamica vissuta dalla Samaritana è la stessa vissuta dai discepoli nella Pentecoste, quando il vento dello Spirito apre le porte del Cenacolo, libera gli apostoli dalla paura e li apre alla speranza. E anche noi vogliamo vivere così il cammino di quest’anno: come un esercizio della speranza, una speranza che non teme di confrontarsi con la storia e di accettare le sfide che essa pone. Leggiamo nella Spe salvi: “noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere”[5].

Così come l’incontro con Gesù costringe la Samaritana ad andare verso “la gente” (ci dice il Vangelo di Giovanni), così come l’evento di Pentecoste spalanca il Cenacolo e porta i Discepoli sulle strade del mondo, così anche noi, allora, in quest’anno più che nel passato, vogliamo ‘uscire’ ed andare verso quelle realtà che Papa Francesco chiama periferie. Commentando il Salmo 133 durante l’Omelia della Messa Crismale, il Papa ci ha detto: “l’olio prezioso che unge il capo di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge le periferie. Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli”[6].

c) Animati dalla carità

Così anche noi. Ma che cosa sono le periferie? Potremmo rispondere in tante maniere. Una cosa è certa: le periferie non sono tanto (o solo) luoghi spaziali, ma luoghi esistenziali, culturali, sociali. La periferia non è uno spazio, ma è una situazione di vita. Oggi, lo sviluppo e la vita delle nostre città hanno messo in crisi la stessa definizione di centro e di periferia, perché continuamente vengono ridisegnati i confini dei luoghi che abitiamo. Dal punto di vista spaziale, la periferia può essere definita come un “luogo di messa al bando”, e quindi anche in qualche maniera un luogo banale. Luogo che può divenire bordo, margine: e quindi anche luogo di esclusione, di segregazione e di rivolta”[7].

Spostando tutto questo sulla vita, nella vita, periferia è, allora, ognuno di noi, quando vive una situazione di emarginazione. Periferia è ogni uomo costretto a vivere ai margini della storia e delle relazioni. Ed è a lui che sentiamo l’urgenza di far arrivare l’annuncio della misericordia di Dio, anche attraverso la testimonianza delle nostre comunità. E’ la periferia a chiamare in causa la responsabilità di ognuno di noi, perché, come scrive Madaleine Delbrêl: “ogni cristiano, in mezzo al mondo, costituisce una frontiera della grazia. Attraverso la sua persona, la grazia deve passare di là”[8].

Ecco allora delineato il percorso di quest’anno: tenendo gli occhi fissi sullo splendore dell’evento di Pentecoste (che spalanca le porte chiuse dalla paura e accende nel cuore di ogni uomo la speranza), ci lasceremo accompagnare dall’esperienza della Samaritana; e il suo incontro di Gesù (così come è raccontato nel Vangelo di Giovanni) ci aiuterà a scandire i vari tempi dell’Anno liturgico.


 

M. I. Rupnik, Gesù con la samaritana al pozzo,

mosaico della Cappella della “Casa incontri cristiani” Capiago (CO), febbraio 2006.

 

Giovanni 4, 5-30

Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6qui c'era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: "Dammi da bere". 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: "Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?". I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva". 11Gli dice la donna: "Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest'acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?". 13Gesù le risponde: "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna". 15"Signore - gli dice la donna -, dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua". 16Le dice: "Va' a chiamare tuo marito e ritorna qui". 17Gli risponde la donna: "Io non ho marito". Le dice Gesù: "Hai detto bene: "Io non ho marito". 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero". 19Gli replica la donna: "Signore, vedo che tu sei un profeta! 20I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare". 21Gesù le dice: "Credimi, donna, viene l'ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità". 25Gli rispose la donna: "So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa". 26Le dice Gesù: "Sono io, che parlo con te".

27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: "Che cosa cerchi?", o: "Di che cosa parli con lei?". 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29"Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?". 30Uscirono dalla città e andavano da lui.


1. Giunse ad una città della Samaria”

Avvento-Natale: Uscire dal Tempio per andare verso gli altri

Gesù, che raggiunge la terra straniera e ostile di Samaria, offre una luce particolare al tempo di Avvento-Natale. Siamo nel cammino che prepara la comunità cristiana ad accogliere l’ingresso di Dio nella storia degli uomini. Gesù, che raggiunge una terra straniera, diventa metafora della venuta di Dio tra noi.

2. “Giunge una donna samaritana ad attingere acqua”

Tempo Ordinario (prima parte): la quotidianità come spazio di apertura al dialogo

La donna con la sua anfora si reca al pozzo, ma l’incontro con Gesù apre quel suo gesto quotidiano alla novità. Il Tempo Ordinario che segue al ciclo natalizio, illuminato da questa scena, apre al credente il pozzo delle Scritture e attraverso di esse gli fa incontrare e riconoscere il Cristo.

3. “Dammi quest’acqua perché non abbia più sete”

Tempo di Quaresima: Dalla domanda all’offerta

La domanda che Gesù rivolge alla donna suscita in lei il desiderio di avere l’acqua che toglie definitivamente la sete. Siamo nel ciclo A della Quaresima caratterizzato dal cammino battesimale. E’ un cammino che aiuta a scoprire il desiderio più profondo dell’uomo, quello della vita eterna che solo Dio può donare.

4. “I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità”

Tempo di Pasqua-Pentecoste: Le periferie all’interno della comunità

La donna chiede a Gesù quale sia il luogo nel quale adorare Dio, ma Gesù spiega che il vero culto non è vincolato ad un luogo. Il mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo aprirà l’uomo al vero culto. Il Tempo Pasquale si offre alla comunità come tempo nel quale scoprire che la comunione nasce intorno all’unico altare e diventa essa stessa il culto gradito a Dio.

5. La donna lasciò la sua anfora”

Pentecoste-Tempo Ordinario (seconda parte): Vivere il quotidiano

L’incontro con Gesù provoca una svolta nella vita della donna. L’anfora non le serve più perché in Cristo ha trovato la sorgente che le permetterà di vivere ogni giorno aprendosi alla novità della sua presenza. La Pentecoste che conclude il Tempo Pasquale, allo stesso tempo introduce nel Tempo Ordinario perché, animato dalla fiamma dello Spirito, ogni credente diventi testimone di speranza.


1. Giunse ad una città della Samaria”

Avvento-Natale: Uscire dal Tempio per andare verso gli altri

 

Guardando nel pozzo di Sichar

Guarda – l'acqua senza posa si sfalda in scaglie d'argento –

e trema in essa il peso della profondità (…).

L'acqua lava dai tuoi occhi i cerchi di stanchezza

e ti lambisce il volto con riflessi di larghe foglie.

(…) Questi occhi stanchi sono il segno

che le acque oscure della notte fluirono in parole di preghiera

(carestia, carestia di anime).

Ora la luce del pozzo vibra profonda nelle lacrime

scosse – penseranno i passanti – da una ventata di sogni...

(…) Eppure in Te vibrano moltitudini

in cui raggia lo splendore delle Tue parole

come raggia negli occhi lo splendore dell'acqua...

Tu le conosci nella stanchezza, le conosci nella luce[9]

 

La pagina biblica

Il vento di Pentecoste spingerà i discepoli oltre i confini del Cenacolo.

“Una ventata di sogni” (per usare le parole di Karol Wojtyla), la sete, la “carestia di anime” spinge Gesù, nel racconto della Samaritana, oltre i confini della sua terra.

Nel mosaico di Rupnik - che ci accompagnerà nel cammino di quest’anno - si vede bene come, da destra verso sinistra, tutta l’immagine sia percorsa dalle onde del vento: sui veli, sui mantelli, persino tra le pietre. Il vento dello Spirito spinge Gesù verso una terra, come quella di Samaria, considerata da tutti ostile, patria di infedeli, da disprezzare al pari dei pagani.

L'evangelista evidenzia come questo passaggio in Samaria non sia un evento casuale. Gesù lascia la Giudea e si dirige di nuovo in Galilea (lascia il centro per recarsi verso la periferia). Per fare questo avrebbe potuto scendere lungo la valle del Giordano, senza passare necessariamente per la Samaria. Pertanto, l’affermazione di Giovanni, secondo la quale Gesù “doveva” attraversare la Samaria ha un significato forte. “Il verbo doveva suppone un movente teologico, come in altri passi di Gv. Se Gesù attraversa la Samaria significa che lo esige la sua missione, secondo il disegno di Dio”[10]. E’ lo stesso evangelista ad informare che c’è ostilità tra Giudei e Samaritani (Gv 4,9); quindi il raggiungere la Samaria indica chiaramente la volontà da parte di Gesù di fare sosta in una terra nemica, nemica anche a partire dalla differenza di culto.

Un ulteriore spunto di riflessione proviene dai versetti introduttivi della narrazione, in cui Giovanni espone il motivo che spinge Gesù a lasciare la Giudea e mettersi in viaggio: la voce, giunta agli orecchi dei Farisei, secondo la quale Gesù stava ricevendo più consensi di quanti ne avesse ottenuti Giovanni Battista. Proprio in un momento di particolare popolarità, quando i successi della sua predicazione stavano raccogliendo attorno a lui un gran numero di discepoli, ecco che Gesù paradossalmente decide di interrompere la sua attività e abbandonare i territori di ‘vittoria’. Gesù sembra “spogliarsi” continuamente dei luoghi e delle situazioni di “sicurezza”, per avvicinarsi invece alle miserie umane, per accettare il rischio dell'incontro con i lontani, per attraversare luoghi ostili e inospitali[11]. È una continua kenosis, un continuo de-centramento verso le periferie non raggiunte dall’acclamazione e dagli applausi. Uno spogliamento, un mutamento di sguardo (dalla ricchezza alla povertà), che è proprio della logica dell'incarnazione.

Contempleremo, nel tempo di Avvento e Natale, la decisione del Verbo eterno: di lasciare “il seno del Padre” per entrare nella povertà della natura umana.

Contempleremo l’ingresso dell’Eterno nelle periferie della storia, avendo come orizzonte d’arrivo l’evento di Pentecoste. Anche lì un vento e un ponte: tra cielo e terra. Anche lì un Dono che viene dall’Alto. Anche lì un “fragore”, una scossa che apre il cuore dei discepoli, chiusi, perché vittime della paura. Anche lì un mutamento di sguardo e un de-centramento: perché la Pentecoste non è solo sguardo verso il cielo per accogliere il dono dello Spirito, ma anche spinta a varcare i confini di sé, per portare agli altri il dono ricevuto. Come dice Benedetto XVI: “questo mistero costituisce il battesimo della Chiesa, è un evento che le ha dato, per così dire, la forma iniziale e la spinta per la sua missione“[12].

 

Nel solco dell’Anno liturgico

Il cammino di Gesù verso la Samaria ci aiuterà, quindi, a leggere il Tempo di Avvento-Natale come il cammino di Dio verso l’uomo. Con il mistero dell’Incarnazione la Chiesa celebra il Dio che “generato prima dei secoli, cominciò ad esistere nel tempo”[13]. Pensiamo in particolare al racconto della Genealogia nel Vangelo di Matteo, proclamato sia all’inizio delle Ferie Maggiori di Avvento che nella vigilia di Natale. L’elenco matteano degli antenati di Gesù, oltre a sottolineare la venuta di Cristo nella storia concreta degli uomini è anche il racconto di personaggi la cui storia macchiata dal peccato non impedisce a Dio di fare il suo ingresso nel mondo. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”: dal cammino di Dio verso l’umanità nasce il cammino di ogni credente… invitato a mettere le proprie tende nella storia degli uomini, soprattutto dove essa mostra le sue pieghe e le sue ombre. Ci dice Papa Francesco: “Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la sua misericordia che salva e dona speranza. Anche noi, se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo ‘uscire’, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana. Ricordate bene: uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi”[14].

La disponibilità ad uscire dalle mura del Tempio, dalle mura delle nostre sicurezze, trasforma il cammino di Avvento-Natale in un’occasione privilegiata per vivere la responsabilità dell’accoglienza. Sarà bello vivere questo tempo come un momento in cui le nostre comunità, disponendosi ad accogliere la presenza di Dio, possono contemporaneamente imparare ad allargare sempre di più le braccia, per accogliere Gesù nel volto di ogni fratello.

 

Per la vita del singolo e della comunità

Allora, pensando alla presenza/venuta di Gesù nella terra di Samaria e alla presenza/incarnazione del Verbo nella terra degli uomini, perché non provare a tradurre lo stesso mistero in noi e nelle nostre comunità, facendo nostra la terra e la storia in cui viviamo e operiamo?

a)      Le periferie territoriali. Proviamo, per esempio, ad iniziare a studiare il contesto nel quale opera la Parrocchia in cui ci troviamo, per individuare le periferie che la interpellano[15], i luoghi/Samaria (i contesti sociali considerati ostili e “pagani”), i luoghi in cui “vibrano moltitudini”, che attendono ancora il “raggiare dello splendore delle parole”[16], della Parola.

Potrebbe risultare utile riprendere, negli incontri comunitari parrocchiali, la Lettera conclusiva della Visita pastorale, che ho inviato, soprattutto nel paragrafo uno: In ascolto del Signore e dei segni dei tempi. La lettura del territorio, che ho potuto operare col vostro aiuto, fa emergere la varietà delle periferie sul piano sociale e umano.

b)      La periferia del ‘femminile’. In particolare, la figura della Samaritana incontrata da Gesù offre un’ulteriore spazio di riflessione che tocca la relazione tra uomo e donna, origine della vita. E’ una relazione che chiede allo stesso tempo vicinanza e distanza: vicinanza che custodisce l’amore e distanza che garantisce il rispetto. L’atteggiamento di Gesù verso la donna porta il nostro sguardo su tutte quelle relazioni nelle quali la donna è costretta a vivere come periferia la propria femminilità e vede ignorata o calpestata la sua dignità. Potremmo pensare a dei momenti di riflessione specifici su questi argomenti.

 

Per la celebrazione liturgica

In questo Tempo di Avvento-Natale, un aiuto a vivere l’atteggiamento dell’accoglienza potrebbe offrirlo la stessa celebrazione eucaristica.

a)      Pensiamo, per esempio, a come potrebbero essere valorizzati i riti di accoglienza. Non si tratta di semplici gesti e parole per introdurre l’assemblea nella celebrazione; lo “scopo di questi riti è che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità”[17]. Se questo è vero, allora sarebbe bello imparare dall’accoglienza eucaristica uno stile di maggiore ‘apertura’ e ‘condivisione’ nelle nostre assemblee. Per esempio, tenendo conto che siamo all’inizio di un nuovo Anno liturgico, il tempo di Avvento potrebbe essere una preziosa occasione per

b)      accogliere i vari gruppi presenti nella comunità, in particolare i bambini che frequentano il cammino della Iniziazione cristiana[18]. Ma, soprattutto, sarebbe importante iniziare a capire

c)      come rivolgere un’attenzione particolare verso le persone che non frequentano abitualmente le nostre Chiese, verso chi, magari, si fa vedere solo la domenica a Messa e che troppo spesso si sente solo ospite di una comunità ripiegata su se stessa.

 

Il documento “Ad gentes”

In questo tempo potrebbe essere utile una ripresa del documento conciliare Ad gentes, dove leggiamo che: “la Chiesa durante il suo pellegrinaggio sulla terra è per sua natura missionaria, in quanto è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che essa, secondo il piano di Dio Padre, deriva la propria origine” (AG, 2). Perché non provare a vivere la preparazione al Natale come una preziosa occasione per maturare nella consapevolezza che la missione, prima di essere un impegno, è un modo di essere che caratterizza il cristiano? “Essere un missionario non è ciò che faccio; è ciò che sono”[19].

 

 


2. “Giunge una donna samaritana ad attingere acqua”

Tempo Ordinario (prima di Quaresima): la quotidianità come spazio di apertura al dialogo

 

La samaritana

Il pozzo a Te mi ha unita,

il pozzo in Te mi ha fatta entrare.

Altro non v’era tra noi

che il suo splendore profondo

vibrante come chiara pupilla

nell’orbita di pietre.

Il pozzo mi ha introdotta nei suoi occhi,

in essi mi ha chiusa[20].

 

 

La pagina biblica

Il Signore viene ad ‘abitare’ in mezzo a noi. Il luogo in cui il racconto lucano degli Atti ambienta l'evento della Pentecoste è “la casa”, dove i discepoli stavano tutti insieme (At 1,1-2). La casa è il luogo dell'ordinarietà, ed è proprio lì che “all'improvviso” irrompe impetuoso il vento dello Spirito, a sconvolgere la monotonia del quotidiano e aprire spazi di novità.

Anche l'episodio della Samaritana è collocato in un contesto di ordinaria quotidianità: un pozzo dove una donna si reca ad attingere acqua. Un gesto che quella donna aveva certamente ripetuto infinite volte, e che anche quella mattina si accingeva a ripetere senza aspettarsi nulla di diverso.

Rupnik immagina quel “pozzo pieno di sabbia; prosciugato”, “il vento ci ha portato dentro la sabbia”[21].

È il vento del vortice dei nostri giorni: che scorrono frenetici e spesso aridi, tutti uguali: granelli di deserto, nella clessidra del tempo.

Ma, proprio nella sabbia dell’ordinario, irrompe, all’improvviso, anche in questo caso, qualcosa: di stra/ordinario: che trasforma il vento sabbioso in vento dello Spirito. È molto bella l’immagine che ci offrono i versi di K. Woijtyla nella poesia La samaritana (un’immagine che diventa più chiara alla luce della lirica che la precede nel ciclo che stiamo considerando, lirica in cui Woijtyla spiega che lo straniero “non alzava neppure lo sguardo” e “parlava soltanto con quegli occhi che il profondo splendore del pozzo rispecchiava”). L’immagine è quella del ‘pozzo’ come occhio in cui si riflette il cielo. Il pozzo come porta che consente all’Infinito di entrare nel finito.

Lo sguardo di Gesù entra in noi quando ci fermiamo a guardare lo “splendore profondo” del nostro quotidiano. Non c’è altro luogo per entrare nello sguardo d’amore del Signore se non attraverso il pozzo povero della nostra ordinarietà. È qui che accade il primo miracolo: che è quello dell’incontro degli sguardi. È qui al pozzo che Rebecca incontra Isacco (Gn 24), che Rachele incontra Giacobbe (Gn 29), che Zippora incontra Mosè (Es 2). Lo Sposo va incontro alla sposa, in terra straniera. Gesù lo sa. La Samaritana lo sente. L’atmosfera si carica di atmosfera nuziale. Dio intende sposare il nostro quotidiano (“il pozzo a Te mi ha unita”) e questo Suo desiderio ricolma l’ordinario di stupore, ancor prima che di acqua.

Il pozzo non è un luogo di culto e la Samaritana, con il suo passato e il suo presente equivoco, non è certamente l’ideale della sposa. Ma questo conferma che Gesù non ci viene incontro secondo schemi precostituiti, ma nella nostra ferialità; nonostante le nostre storie poco limpide; proprio dentro tutti i nostri limiti: amandoci semplicemente così come siamo. Per questo l’incontro con Gesù potrà rompere le abitudini della Samaritana, vittima del passato e rassegnata al suo deserto, e potrà introdurla in una nuova storia, nella speranza di una relazione di vita più vera e più profonda. Potrà farlo perché inizia ad incontrare quella donna proprio nel suo presente, nelle sue abitudini, nelle sue delusioni.

Sono molti i Padri della Chiesa che attribuiscono all’immagine del pozzo un riferimento preciso a Cristo. Origene, in particolare, commentando un brano dei Proverbi, spiega: “quando si fa menzione del pozzo e della fonte, è da intendere che si tratta del Verbo di Dio: pozzo, se tocca la profondità di un mistero; fonte, se trabocca  e si espande ai popoli”[22]. Entrare nel pozzo, per riprendere l’immagine della poesia di Wojtyla, è entrare nel mistero pasquale di Cristo. Anche il riferimento all’orario (è “mezzogiorno”) ci rimanda all’ora della Passione in cui Pilato presenta Gesù ai Giudei come “il vostro re” (cfr. Gv 19,14), affermando inconsapevolmente una verità. La ‘luce’ del mezzogiorno, la “chiara pupilla” dello straniero, caricano l’incontro di dimensioni pasquali: aiutata a scoprire chi è lo Sconosciuto che le sta di fronte, la donna sarà aiutata a scoprire se stessa. Pascal direbbe: “non sapendo da noi stessi chi siamo, non possiamo saperlo che da Dio”[23]. Così la donna potrà affermare di aver incontrato “un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto” (Gv 4,29). La Parola di quel pozzo offre la spiegazione del senso della storia, fa luce sul passato, aiuta ad accoglierlo e a proseguire il cammino della vita.

 

Nel solco dell’Anno liturgico

Nel Tempo successivo al Natale, la contemplazione del Battesimo al Giordano ci fa entrare nell’inaugurazione della missione di Gesù, che porta i suoi passi sulle strade della Palestina per annunciare il Regno di Dio. Il Lezionario domenicale di questo tempo è caratterizzato dalla chiamata dei primi discepoli e dall’invito di Gesù a seguirlo. Anche per i discepoli, come per la Samaritana, la vita chiusa nel piccolo orizzonte delle abitudini quotidiane, si apre alla speranza di un nuovo futuro. Quale suggerimento ci può dare il percorso della Samaritana, per vivere questo tempo liturgico? Il rimando allo straordinario da scoprire nell’ordinario e il simbolo del pozzo come Parola e Scrittura, ci suggeriscono di vivere questo tempo liturgico come tempo privilegiato per scoprire la ricchezza delle Scritture e la loro importanza per il nostro quotidiano. Il Cristo che ha chiamato i suoi primi discepoli sulle rive del lago di Galilea, oggi continua a chiamare attraverso la sua Parola, ed in particolare il suo Vangelo. Nell’ascolto e nella meditazione della Parola di Dio ogni credente trova senso e orientamento per la sua vita. Come scrive Benedetto XVI: “il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita”[24]. Pertanto potrebbe essere opportuno approfittare di questo tempo liturgico per (ri)scoprire la ricchezza della Parola di Dio, invitando le persone della comunità ad un contatto quotidiano e costante con le Sacre Scritture: con la consapevolezza che queste pagine sono un pozzo/specchio e solo guardandoci ‘in’ esse possiamo leggere il senso della nostra storia, e, soprattutto, imparare ad accoglierla come una vocazione: che interpella e chiama all’amore.

 

Per la vita del singolo e della comunità

La modalità dell’incontro di Gesù con la Samaritana ci offre un suggerimento prezioso: vivere questo tempo come occasione privilegiata per aprirsi anche all’ascolto dell’altro: un bisogno talmente radicale e radicato in noi, che forse troppe volte è dato per scontato. Cosa ascoltare? Chi ascoltare? Come ascoltare? Innanzitutto è importante scegliere di vivere l’ascolto come atteggiamento. Ogni luogo, ogni incontro può diventare “il pozzo” presso cui aprirsi al dialogo con l’altro e offrire il racconto di una vita che l’incontro con Gesù ha liberato dalle paure e aperto alla speranza. La vivacità e la ricchezza di una parrocchia non si identifica necessariamente con la ricchezza delle varie attività pastorali. Anzi, a volte, l’affannosa preoccupazione di organizzare mille incontri, rischia di non farci incontrare realmente nessuno. Spesso anche nelle nostre chiese si respira la mania dell’efficientismo e della fretta, che contraddistingue ormai la nostra società. Tutti vogliamo fare tanto in poco tempo. Al contrario, dobbiamo imparare a “perdere tempo”, offrendo tempo all’altro, per vivere rapporti autentici che possano favorire dialogo e comunione[25].

Sarebbe bello provare (in questo tempo liturgico) a creare e difendere tempi e spazi di ascolto, perché, come scrive Bonhoeffer: “il primo servizio che si deve agli altri nella comunione, consiste nel prestar loro ascolto”[26]. Solo imparando ad “ascoltare attraverso l’orecchio di Dio, (…) possiamo poi poter parlare attraverso la sua Parola”[27]. E, certo, poi ci sono anche periferie dell’ascolto che dovremmo imparare a cercare: l’ascolto delle persone ferite dalla violenza e minacciate dalla paura (cfr. il cammino da Gerusalemme a Gerico: Lc 10, 25-37); l’ascolto delle persone che hanno perso la speranza e sono chiuse al futuro (cfr. il cammino da Gerusalemme ad Emmaus: Lc 24, 13-35); l’ascolto delle solitudini assetate di risposte che possano dare senso e orientamento alla vita (cfr. il cammino da Gerusalemme a Gaza: At 8,26-40). Dove e come incontrare queste periferie? Interroghiamoci anche su questo, nel Tempo Ordinario che ci aspetta.

Per la celebrazione liturgica

Inevitabilmente, di conseguenza, l’aspetto liturgico da valorizzare in questo tempo ordinario è quello della liturgia della Parola. Sappiamo che l’intera sequenza che caratterizza la liturgia della Parola nella Celebrazione eucaristica in realtà è un dialogo tra Dio e la comunità. Sarà bello, in questo tempo ordinario, prenderci a cuore lo stile e lo splendore della liturgia del Verbo. Un contributo a questa particolare attenzione potrà darlo, per esempio, una preparazione comunitaria alla liturgia della Parola per la celebrazione domenicale, soprattutto da parte di coloro che hanno il compito di proclamare le letture. È il senso dell’incontro comunitario settimanale: “Spiegare e illuminare il senso e il valore dei riti alla luce della Parola e cogliere nei riti il perenne agire salvifico di Dio, operante, oggi nei segni sacramentali, conformandovi tutta la vita”[28]. E, ancora, un gesto che potrebbe caratterizzare questo tempo ordinario potrebbe essere quello di tenere in particolare evidenza il Lezionario nelle nostre aule liturgiche, con le pagine aperte sulla liturgia del giorno, così da offrire a tutti la possibilità di fermarsi in preghiera davanti alla luce dalla Parola di Dio del giorno.

La Festa del Battesimo di Gesù è un momento privilegiato per una verifica degli impegni assunti da parte dei genitori dei bambini battezzati nell’anno e dei ragazzi che hanno ricevuto la Confermazione[29].

 

 


3. “Dammi quest’acqua perché non abbia più sete”

Tempo di Quaresima: Dalla domanda all’offerta

 

 

Contemplazione retrospettiva dell’incontro


Nessuno oserebbe guardare così dentro di sé.

Diverso il Suo modo di conoscere. Non alzò quasi gli occhi.

Era lui

la grande lente d’ogni conoscenza.

- Come il pozzo che alitava splendore attraverso il viso -

Uno specchio… come il pozzo… che rifulgeva nel profondo.

Non doveva uscir da se stesso, alzare gli occhi, a capire.

Mi vedeva in sé. Mi possedeva in sé.

Attraversava senza sforzo il mio essere

e apparve in me attraverso la mia vergogna e il pensiero a lungo represso.

Parve toccare la pulsazione delle mie tempie.

E a un tratto fece sorgere in me un’infinita stanchezza.

Poi con grande cura…

Erano semplici le parole. Mi camminavano accanto come agnelli ad un richiamo.

E dentro…fecero alzare in volo gli uccelli addormentati nel nido.

Era tutto là, nel mio peccato e nel mio segreto.

Dimmi – doveva dolere, doveva pesare

(l’onda dei miei pensieri si abbatte pesante come un coperchio metallico).

(…) Quale prontezza, quale bontà nel conoscere.

Eppure non alzasti neppure lo sguardo –

Mi parlavi soltanto con quegli occhi

Che il profondo splendore del pozzo rispecchiava (…)[30].

 

La pagina biblica

Un vero dialogo passa non solo attraverso la capacità di ascoltare, ma anche attraverso la capacità di fare domande. Ogni uomo è una domanda: una domanda di senso nascosta. È affascinante osservare lo stile dialogico/interrogativo di Gesù con la Samaritana. Lui apre lo scenario, con la richiesta iniziale. “Dammi da bere”: più che una domanda è “la lente di ogni conoscenza”, cioè il desiderio. Gesù desidera “vedere in sé” quella donna, “possedere in sé” quella donna: farla Sua. È il desiderio di ogni amore: ho sete di te. Ma nello svelare se stesso in questa richiesta, Gesù fa anche da lente di ingrandimento rispetto ai desideri della donna. Suscita il suo bisogno di relazione, di relazioni vere, profonde (come lo sguardo di quel pozzo): un desiderio da lei “a lungo represso” e “addormentato” nell’oppio di una vita burrascosa e disordinata.

Insomma: quello sguardo così interiore (“nessuno oserebbe guardare così dentro di sé”; “(…) non doveva uscire da se stesso”) e così pieno di splendore, ridesta lo stupore del domandare originario nella donna, che infatti chiede: “come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”.

Non è solo una curiosità superficiale, è la provocazione dell’inatteso. Uomo, giudeo, nemico, straniero, “diverso”: perché a me? Perché così? Gesù ha colpito nel segno e lo sa. Quindi può osare di più. E lo fa operando un nuovo sconvolgimento all’interno del dialogo, un nuovo capovolgimento di situazione: se la donna conoscesse “il dono di Dio”, gli avrebbe chiesto quell’acqua viva che solo Lui può donare!

Notiamo come Gesù torna sulle corde del bisogno, della sete, del desiderio, più che su quelle della conoscenza razionale: perché il cristianesimo è incontro e non ideologia, relazione e non razionalizzazione. In ognuno di noi dorme il desiderio di essere desiderati. Gesù ‘è’ questo desiderio. Perciò Sant’Agostino può dire: “domandava da bere e promette di dissetare”[31].

L’immagine di Rupnik ci aiuta ad entrare in questo mistero. Cristo tiene “la sua brocca sul costato”. Quello stesso costato da cui sgorgheranno sangue e acqua (e nella Cappella in cui si trova il mosaico della Samaritana che stiamo ‘leggendo’, tutto l’insieme è improntato alla spiritualità del cuore di Gesù[32]; al grido sulla croce: “ho sete”; Gesù, l’assetato, che disseta e dona vita: sangue e acqua).

La sete che Dio ha di noi è già promessa di dono, di acqua. Ma che cos’è questo “dono di Dio” che Gesù ci invita a conoscere e desiderare? Per gli Ebrei era fondamentalmente la Torah; per la comunità cristiana delle origini (e per noi) è innanzitutto lo Spirito Santo: acqua viva che zampilla per la vita eterna. È bello pensare che le parole di Gesù (che invita la Samaritana a chiedere l'acqua della vita) sono state all’origine della nostra vita cristiana, riecheggiando nel dialogo iniziale dei Riti di accoglienza del battesimo, dove il dono richiesto è proprio la grazia della vita eterna.

Ma torniamo al dialogo di Gesù con la Samaritana, nell’interpretazione della lirica di Wojtyla. Lo sguardo cristallino di Gesù (“specchio” / “pozzo”), con le sue provocazioni “attraversa senza sforzo l’essere” della donna, che sembra diventare a sua volta trasparente. “Pare toccare la pulsazione delle tempie”.

Toccata, ferita, ma non umiliata, la donna esprime il suo bisogno, eleva il suo grido: “dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”. È ‘vera’. Ma non ancora ‘libera’. Ancora “pesante”, infatti, “come un coperchio metallico” che opprime il cuore, è “l’onda dei suoi pensieri” (“doveva dolere, doveva pesare!”). La richiesta è ancora schiacciata dal peso di un bisogno sabbioso, desertico, privo di orizzonte, di slancio, di speranza. Legato all’ordinario del momento; alla sola aspettativa di non dover uscire allo scoperto, di non dover tornare al pozzo. Forse anche di rimanere nascosta “nella propria vergogna”: di non aver bisogno di tornare lì a guardarsi nello specchio dell’acqua: vedendo riflessa un’immagine non amabile di sé.

Lo sguardo della donna, nel mosaico, non guarda libero davanti a sé (come quello di Gesù); non guarda nemmeno direttamente Gesù, né il pozzo. Sembra voler guardare dentro la brocca portata in mano dallo straniero, per scoprire il suo segreto: ma guardinga, come a non voler rivelare il proprio segreto (“era tutto là, nel mio peccato e nel mio segreto”).

Ma Gesù l’ha già guardata e conosciuta. E può quindi “toccarla” con il colpo finale: “va’ a chiamare tuo marito”. Una richiesta che potrebbe avere decisamente dell’indelicato e del fuori luogo… (anche a prescindere dal fatto che poi la donna avesse o non avesse marito; o ne avesse più di uno). Ma, si sa, che l’amore pre-tende. E il Signore sa che “ora è il tempo favorevole”, ora è il momento di rilanciare la posta in gioco, ora è il momento di “svegliare” i sogni “dal nido” e farli volare verso un di più. È il Tempo della Quaresima di questa donna: chiamata dai pesi del deserto agli orizzonti di una nuova primavera.

Questa samaritana non è una che si vende. Non è una che si svende. È un “profondo splendore”, dimenticato, impolverato, logorato da legami senza spessore, da un’insostenibile leggerezza d’essere. Gesù viene ad e/vocare in lei il ricordo di questo splendore. A richiamarlo dal passato in cui è sepolto. C’è una poesia molto intensa di Eugenio Montale, Cigola la carrucola del pozzo, in cui l’acqua buia del fondo rappresenta il passato. E il cigolio della carrucola è il movimento che facciamo quando tentiamo di riportare – nel secchio – il “tremore” di un ricordo (“l’acqua sale alla luce e vi si fonde”[33]).

Acqua, luce, nuova memoria, nuova vita. Conversione. Gesù tocca e fa vibrare le corda affettive di quella donna che, pur avendo avuto tanti uomini, non è mai stata realmente “conosciuta”, “guardata”, “attraversata”, “posseduta”, amata da nessuno (per riprendere i verbi forti usati da Wojtyla). L’osservazione di Gesù non è giudizio, non è un modo per mettere in difficoltà la Samaritana, per rinfacciarle un comportamento sbagliato. “Egli vuole portare la donna alla fede in lui, e, certo, in questo modo provocare nella vita di lei una svolta decisiva”[34]. E lo fa con “prontezza”, “bontà”, “con grande cura”, con “parole semplici”.

“E a un tratto fece sorgere in me un’infinita stanchezza”. Perché il peso di questo secchio, il peso di tutta questa vita senza senso (da riportare all’acqua e alla luce) è grande. Pesantissimo il passato, prima che il peccato. E difficile, quasi impossibile, immaginare diversi scenari per il futuro, quando si è nel deserto.

Sono le stesse difficoltà, le stesse domande, le stesse provocazioni ‘difficili’ destate dall’esperienza della Pentecoste. Lo stupore dei presenti, che sentono i discepoli parlare la propria lingua. “Che cosa significa questo?” (At 2,12): è la domanda che permetterà a Pietro di entrare in dialogo con la folla. Un discorso accorato e convincente, tanto che, al termine, i presenti chiederanno: “che cosa dobbiamo fare, fratelli?” (At 2, 37).

Anche Pietro (alla scuola di Gesù), sulle corde dello Spirito, ha imparato a toccare i cuori. E la sua risposta alla domanda della folla la sappiamo: “convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo” (At 2,38).

La Quaresima: tempo di domande, tempo di memoria, tempo di riscoperta del dono d’amore e vita ricevuto nel Battesimo, tempo di tirare dal pozzo il secchio: nell’acqua e nella luce. Tempo nel quale “Dio ha sete che si abbia sete di Lui”[35].

Nel solco dell’Anno liturgico

L’anno liturgico ci aiuta a segnare i passi del cammino quaresimale, anticipandolo già nelle prime due domeniche: dal deserto alla montagna, dalle Tentazioni alla Trasfigurazione, dal combattimento con il male alla contemplazione della gloria.

Il Tempo Quaresimale, soprattutto nel ciclo A del Lezionario, ci viene incontro propizio, presentandoci tre incontri di Gesù: con la Samaritana, appunto; con il Cieco nato e con Lazzaro, tre incontri che possiamo rileggere alla luce della richiesta di Gesù: “dammi da bere”, richiesta che risentiremo al termine del percorso quaresimale, sulla croce: “Ho sete!”. E, come già detto, la sete di Gesù è che noi possiamo aver sete di Lui. Lo esprime molto bene il Prefazio della domenica della Samaritana: “chiese alla Samaritana l’acqua da bere, per farle il grande dono della fede, e di questa fede ebbe sete così ardente da accendere in lei la fiamma del suo amore”. Con la Beata Teresa di Calcutta anche noi vogliamo prendere coscienza che “il nostro fine è quello di saziare questa sete infinita di Dio”[36].

 

Per la celebrazione liturgica

Le letture proposte dal ciclo A del Lezionario quaresimale presentano un itinerario catecumenale che ritma il cammino della Chiesa attraverso tre racconti-situazione:

-          la Samaritana che racconta quanto sia difficile vivere un amore autentico, fedele, profondo

-          il Cieco nato che racconta del dolore che nasce dall’incapacità di essere autonomo, handicap che costringe ai margini della strada,

-          Lazzaro che racconta dell’esperienza della morte e di ogni lutto che porta nella tomba le speranze di vita.

Questo itinerario quaresimale, che rappresenta il più antico cammino della Chiesa verso la Pasqua, si presenta già come una “mistagogia” battesimale che anticipa l’esperienza pasquale del Battesimo. Sarebbe bello, allora, riuscire a fare un sapiente utilizzo del libro liturgico del RICA, cercando in esso alcuni elementi dell’esperienza battesimale da riproporre a tutta la comunità durante le celebrazioni domenicale.

 

Per la vita del singolo e della comunità

Questi tre racconti, queste tre situazioni esistenziali (l’amore ferito, il corpo malato, la vita soffocata) non possono conseguentemente non provocarci all’azione, invitandoci a portare in queste periferie dell’umano la testimonianza di un incontro che apre alla speranza. Come Gesù incontra i tre personaggi presentati dai Vangeli delle ultime tre domeniche di Quaresima, anche noi sentiamo l’urgenza di renderci presenti nella sete e nella storia di tanti nostri fratelli e sorelle che vivono soffocati delle abitudini o delle delusioni (come la Samaritana), mendicanti ai margini della storia (come il Cieco nato), o chiusi nel sepolcro della rassegnazione (come Lazzaro). Quali sono intorno a me, dentro e fuori della mia comunità quei luoghi e quelle situazioni dove continua a risuonare la domanda di Gesù: “Dammi da bere”?

-          Gli amori feriti: quali situazioni individuali e familiari gridano silenziosamente accoglienza? Quanto e come siamo in grado di fare innanzitutto noi, noi che viviamo in comunità, una conversione di sguardo verso i tanti samaritani di oggi? Qual è l’atteggiamento che abbiamo davanti agli splendori logorati, alle situazioni relazionali lontane dagli schemi ‘ordinati’, davanti a tanti legami diversi rispetto a quelli familiari ideali? Sono per noi periferie da mettere al centro della speranza e della misericordia di Cristo, o solo realtà da considerare con sospetto e giudizio? Sia per noi, questo tempo di Quaresima, tempo di conversione, di accoglienza, di misericordia.

-          Il corpo malato. Un invito particolare ci viene rivolto, nel tempo di quaresima, dalle situazioni assetate… degli ospedali, delle case di riposo per anziani, delle famiglie con ragazzi disabili o comunque provate da particolari esperienza di malattia e sofferenza, dalle realtà in cui vivono i nostri fratelli immigrati, dai quartieri poveri presenti nel territorio delle nostre parrocchie. Siano questi i luoghi quaresimali in cui andare per offrire “l’olio della consolazione e il vino della speranza”[37].

-          La vita soffocata. Di fronte ai tanti episodi di morte e di violenza che macchiano di sangue la nostra terra, non possiamo semplicemente unirci al coro di quelli che denunciano e condannano, ma siamo interpellati come credenti a trovare ogni mezzo perché anche chi si lascia dominare dalla logica della violenza possa incontrare il Signore e camminare dal deserto del peccato verso la montagna della grazia. Come possiamo, come singoli e come comunità, andare incontro anche a queste periferie dell’umano?

 

La Lettera Enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI

L’Enciclica sulla speranza cristiana può essere un valido aiuto per sostenere e illuminare questo cammino. Nel presentarla, Benedetto XVI scrive: “la ‘redenzione’, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”[38]. E questo ci aiuta a ricordare che la Quaresima non è un tempo fine a se stesso, ma è la strada verso la Pasqua…


4. “I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verita”

Tempo di Pasqua-Pentecoste: Le periferie all’interno della comunità

 

 

Meditazione rinnovata


Allora io – proprio io consapevole del mio risveglio,

come chi nella chiara corrente, consapevole della sua immagine,

si rialza un tratto dallo specchio e torna in sé

e stupefatto trattiene il respiro, cullandosi nella sua luce.

Come mi sono rialzata non so, benché consapevole

di me – di me com’ero prima e poi…

Fu soltanto il risveglio a dividermi?

Semplice varco nel muro che finora attraversavo

Senza sapere che mi divideva

Da me stessa – e non solo da me.

(…) Il peso che mi hai tolto – lo saprò a poco a poco,

misurandolo dalla stanchezza di tante, tante lotte,

quando da me vorrò trarre un soffio di quella semplice armonia

che Tu possiedi senza sforzo e senza limite.

(…)

Il peso fu indistinto, e indistinto è il sentirmi leggera.

Come leggera è la fiamma che si inarca

lucente sopra il legno inaridito

e intorno a sé solleva l’ampio coperchio della notte[39].

 

La pagina biblica

La liturgia della Pentecoste, accanto al racconto degli Atti che ne racconta l’evento, proclama in questo giorno un brano della Lettera ai Romani nella quale l’Apostolo Paolo non solo afferma che “lo Spirito di Dio abita in voi” (Rm 8,9), ma spiega che è “lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15).

E questo ci aiuta a comprendere la risposta che Gesù dà alla Samaritana riguardo al vero culto. Infatti, la donna, nel cammino che la sta portando a fare chiarezza su se stessa, incontra la domanda sul Divino. Forse non ancora decisa e profonda, ma legata al suo vissuto, al suo territorio. Ricorda un po’ le domande di tanti nostri contemporanei, che si sentono attratti dal Sacro, ma bloccati rispetto alla dimensione confessionale della fede, che avvertono come meramente rituale (e spesso conflittuale: dentro la Chiesa, e tra la Chiesa e il mondo). La samaritana parte dalla constatazione che la fede non sempre risolve i conflitti, ma a volte li fomenta. La presenza del santuario di Garizim dove i Samaritani offrono il loro culto, in concorrenza rispetto a quello di Gerusalemme, provoca in lei una domanda: se c’è un Dio, dov’è? Dove e come cercarlo e adorarlo nell’autenticità della fede? Qual è il vero culto? La risposta di Gesù è molto chiara: Dio non si lascia ingabbiare dai luoghi, perché “l’adorazione non è autentica se non è prodotta dallo Spirito che comunica la verità del Cristo”[40]. E lo Spirito, come aveva già detto Gesù a Nicodemo, è come il vento: non si sa da dove viene e dove va. Non è afferrabile.

È molto evocativa, anche in questo caso, l’immagine di Rupnik, in cui il vento muove il mantello di Gesù, assimilandolo ad un’onda d’acqua: acqua e vento: lo Spirito. Ed è proprio questo azzurro che inonda e abbraccia la Samaritana, “come chi, nella chiara corrente” diventa finalmente “consapevole della sua immagine, si rialza un tratto dallo specchio e torna in sé, e stupefatto trattiene il respiro, cullandosi nella sua luce” (per riprendere la parole della poesia di Wojtyla). L’acqua/vento/mantello (che è lo stesso Gesù) raggiunge la Samaritana proprio lì dove si trova. Perché il culto cristiano non è vincolato ad un luogo, ma è la vita stessa del credente che, abitata dallo Spirito, diventa tempio nel quale e con il quale adorare Dio.

Non bisogna certo intendere le parole di Gesù in senso spiritualistico, come se Gesù volesse contrapporre all'esteriorità del culto tradizionale un'adorazione di Dio puramente intimistica e individualista. Traducendo e attualizzando la cosa in termini concreti: Gesù non sta dicendo che le chiese non servono, perché tanto Dio è nel nostro cuore. Sta dicendo qualcosa di molto più radicale e impegnativo, che, se colto nella sua profondità, non può non sconvolgere sia il nostro modo ‘personale’ di pregare Dio, sia il nostro modo di relazionarci ‘alla Chiesa’. Infatti l'espressione “in Spirito e Verità” indica, nel linguaggio giovanneo, la dimensione trinitaria dell'adorazione del Padre, realizzata in Cristo per mezzo dello Spirito Santo. Quindi Gesù sta svelando alla Samaritana il mistero d’amore e unità, che, nello Spirito, esiste tra il Padre e il Figlio. E noi sappiamo che questo amore nuziale trova la sua sposa proprio nella Chiesa; e noi sappiamo che la dimensione dell’adorazione trinitaria trova la sua fonte e il suo culmine proprio nell’eucarestia e nell'esperienza comunitaria.

 

Nel solco dell’Anno liturgico

Con entusiasmo, allora, insieme, siamo chiamati a vivere - con ancor più gioia degli anni passati – questo Tempo di Pasqua e la sua Pentecoste. Con la gioia con cui si accoglie e si scarta un grande dono.

La prima Colletta della Veglia di Pentecoste parla della Pasqua come “tempo sacro dei cinquanta giorni”: e il simbolismo di questo numero esprime proprio la pienezza della gioia cristiana; la stessa gioia dei discepoli che incontrano il Risorto nel Cenacolo. Gesù aveva spiegato alla donna Samaritana: ”Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”. Questa promessa di Gesù trova un’eco e una spiegazione nella preghiera della Chiesa che, nel giorno di Pentecoste si rivolge a Dio dicendogli: grazie, perché “oggi hai portato a compimento il mistero pasquale e su coloro che hai reso figli di adozione in Cristo tuo Figlio hai effuso lo Spirito Santo, che agli albori della Chiesa nascente ha rivelato a tutti i popoli il mistero nascosto nei secoli, e ha riunito i linguaggi della famiglia umana nella professione dell’unica fede”[41]. Il Prefazio non solo sottolinea l’unità della Pasqua con la Pentecoste, ma afferma anche la dimensione comunitaria della fede espressa dalla liturgia. Lo Spirito del Risorto ci riunisce in un’unica famiglia e ci permette di professare l’unica fede. Scrive Romano Guardini: “L’individuo prega secondo la liturgia quando lo fa con una viva e intensa consapevolezza di questo Io comunitario della Chiesa”[42]. Il problema quindi non è per noi – lo sappiamo – se sia possibile pregare Dio anche rimanendo al di fuori della Chiesa e/o della Comunità, ma: quanta gioia mi perdo, privandomi della gioia moltiplicata dai pozzi e dai volti dei fratelli? Quanta identità mi perdo, privandomi di questo Io comunitario che dona alla preghiera, nella liturgia, intensità e passione viva?

Il Tempo Pasquale è il tempo della gioia. Lo spiega molto bene Sant’Agostino: “Ciò che celebriamo prima di Pasqua, è anche quello che operiamo. Ciò che celebriamo dopo Pasqua indica quello che ancora non possediamo. Per questo trascorriamo il primo tempo in digiuni e preghiere. L’altro, invece, dopo la fine dei digiuni, lo celebriamo nella lode. Ecco perché cantiamo: alleluia”[43].

Ci aiutano anche in questo caso le immagini della poesia di Wojtyla, decisamente ‘pasquali’. La Samaritana si “rialza” dopo l’incontro con Gesù; si “risveglia”, risorge come ‘altra’ a se stessa. La potenza della resurrezione abbatte in lei “il muro che la divideva”; issa “fiamma” e “luce” “sul legno inaridito” delle sue croci; e le dona il desiderio di diventare anche lei “soffio” di “armonia”.

Cinquanta giorni per vivere la gioia e l’annuncio della liberazione! Cinquanta giorni per far traboccare di resurrezione le nostre anfore; per far traboccare l’acqua ricevuta, in spirito e verità…; traboccare in chi ci è accanto.

 

Per la vita del singolo e della comunità

E il Tempo Pasquale, più di ogni altro, nelle nostre comunità, è di fatto un tempo straordinario di celebrazioni: Battesimi, Prime Comunioni, Cresime, Matrimoni. Certo, è vero che sempre più spesso l’atteggiamento con cui le famiglie chiedono i sacramenti rischia di essere legato solo ad una ‘prassi’ cristiana, ad un ‘meccanismo’ legato alle tradizioni e mancante di radicamento e solidità. Ma anche quando questo fosse vero, dovremmo riuscire ad evitare atteggiamenti di superiorità o di distacco rispetto a queste famiglie. La legittima preoccupazione di salvaguardare la dignità dei sacramenti richiesti non deve portarci ad un atteggiamento di rigidità o di ostilità. Se così fosse, l’occasione sacramentale diventerebbe, invece che possibilità di ‘incontro’, definitivo distacco da e di queste famiglie dalla Chiesa. L’accoglienza e la disponibilità non possono non caratterizzare le nostre comunità, anche qualora dall’altro lato dovessimo trovare solo indifferenza o superficialità. Forse vale la pena ricordare quello che Madre Teresa raccomandava alle sue Consorelle: “Preferisco che facciate errori nella gentilezza, piuttosto che miracoli nella scortesia”[44].

È il caso di ritornare a riflettere su quel luogo-periferia che abbiamo chiamato “degli amori feriti”, e che abbiamo già indicato in relazione al Tempo di Quaresima. Ma è evidente che un percorso tracciato a partire dall’amore ferito della Samaritana non può non indurci a privilegiare questa “periferia” durante l’intero Anno liturgico. Sicuramente, durante il Tempo Pasquale, nelle celebrazioni dei sacramenti, ci troveremo davanti a diverse famiglie che vivono particolari situazioni difficili o irregolari. La domanda di questa umanità “non può essere ridotta alla questione (…) della loro ammissione o meno ai sacramenti”[45], ma chiede un’attenzione e un’accoglienza che permetta loro di non sentirsi abbandonati da Dio ed esclusi dalla Chiesa. Già Benedetto XVI, in una delle sue visite pastorali nella Diocesi di Roma, aveva esortato ad avere una particolare cura e attenzione per le famiglie in difficoltà, o che si trovano in “una condizione di precarietà o di irregolarità”: “non lasciatele sole, ma state loro vicino con amore”[46].

 

Per la celebrazione liturgica

Proviamo, allora, a rilanciare il tentativo di incontrare, in questo tempo pasquale, le famiglie coinvolte nella preparazione ai sacramenti dei loro figli. Il criterio che dovrebbe accompagnarci è che non solo ci si prepara ai sacramenti, ma si viene anche preparati dai sacramenti. Sarebbe bello riuscire, con l’accoglienza e la pazienza, a trasformare le richieste delle famiglie coinvolte nei percorsi sacramentali in un’occasione di grazia, che le aiuti a scoprire il senso cristiano della loro domanda, e la risposta di vita (e responsabilità) che essa comporta. Un suggerimento potrebbe essere quello di prevedere, nella settimana che precede la celebrazione dei sacramenti, un ritiro spirituale con gli stessi genitori dei bambini che riceveranno la prima Comunione[47]. Anche per i cresimandi, insieme ai loro genitori e padrini, “la settimana che precede la Pentecoste potrebbe avere il significato quasi di un ritiro”[48]. Non possiamo liquidare come illusoria la speranza di trasformare le celebrazioni dei sacramenti in una preziosa occasione per ravvivare una fede assopita o soffocata da una sterile abitudine. Come ricorda Papa Francesco: “dobbiamo ravvivare sempre la grazia e intuire in ogni richiesta, a volte inopportuna, a volte puramente materiale o addirittura banale - ma lo è solo apparentemente - il desiderio della nostra gente di essere unta con l’olio profumato, perché sa che noi lo abbiamo”[49].

Il capitolo V della “Lumen gentium”

Per l’impegno che il Tempo Pasquale suggerisce, può essere utile la lettura del capitolo V della Lumen gentium, dedicato alla “Universale vocazione alla santità nella Chiesa”. Il documento conciliare, infatti, può aiutarci a comprendere lo sforzo necessario per superare il solco che spesso separa  la celebrazione dalla vita. Infatti: “tutti coloro che credono nel Cristo, di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità; e tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano” (LG 40).


5. La donna lasciò la sua anfora”

Pentecoste-Tempo Ordinario (II parte): Vivere il quotidiano

 

 

Parole della donna al pozzo al momento di andarsene


Da quel momento la mia ignoranza si è chiusa alle mie spalle come una porta

dalla quale sei entrato – svelando ciò che non sapevo.

E tanta gente in silenzio Tu hai fatto passare attraverso di me.

E tante vie lontane. E, crescente negli uomini, un impeto di città.

 

La pagina biblica

L’evento di Pentecoste non ha semplicemente trasformato il cuore pavido dei discepoli, ma, attraverso il loro annuncio, anche quello di coloro che “all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore” (e quindi chiesero ai discepoli: “che cosa dobbiamo fare, fratelli?”; At 2,37). Chi viene trasformato, trasforma a sua volta il mondo intorno a sé. Anche nel racconto della Samaritana accade questo: dalla sete di Gesù, alla sete della donna, alla sete che lei suscita in quelli che incontra, correndo in città. Ed effettivamente qualcosa di sconvolgente doveva essere accaduto nella sua vita, se l’urgenza della missione le fa persino dimenticare vicino al pozzo la sua anfora. Ma forse non si tratta di una dimenticanza, quanto piuttosto del segno silenzioso di una scelta: la disponibilità a lasciare veramente, finalmente, il deserto della routine (il deserto di quel percorso quotidiano senza sapore, senza amore: dalla città al pozzo, dal pozzo alla città), per abbracciare profondamente e totalmente lo straordinario che la vita può offrire. Sempre. A chiunque. Anche a lei. L’anfora non serve più. Perché l’incontro con Cristo ha lasciato nel suo cuore una sorgente.

L’immagine di Rupnik qui è fortemente simbolica. “Cristo infatti è il pozzo”[50], possiamo dire sinteticamente, conclusivamente: tant’è che il vestito rosso del Re ‘entra’ fisicamente nel pozzo; il pozzo si fa tutt’uno con Lui. E tant’è che “il suo mantello diventa il pozzo, per offrire da bere una bevanda nuova, già accennata sul costato dove Cristo tiene la brocca”. La differenza di colore tra questa brocca nuova, di vita nuova e l’anfora della Samaritana, di colore scuro, non è casuale. Spiega ancora Rupnik: “la samaritana nelle raffigurazioni antiche porta usualmente un contenitore che qualcuno ha spiegato essere un’urna funeraria. (…) Siccome erano morti tutti i suoi mariti, la donna era familiare alla morte, viveva così vicina alla morte da bere al suo pozzo”. “La donna viene con questa sua urna”, viene con questa sua esistenza morta al pozzo e, al termine dell’incontro con Gesù, riceve una brocca nuova, una bevanda nuova, una vita nuova. L’uomo vecchio (la donna vecchia) appartiene al passato; e perciò l’anfora funeraria resta lì (“una porta si è chiusa alle spalle”, per dirla con Wojtyla); mentre la credente/risorta è libera di andare.

Lei, costretta a recarsi quotidianamente al pozzo nell’ora più calda del giorno forse per evitare di incontrare chi poteva malignare sulla sua situazione, ora non ha timore di correre in città per dire a tutti la sua scoperta. “La forza di tutta la pagina è proprio qui: l’incontro personale con Gesù, il dialogo con lui provoca la conversione”[51]. Il Vangelo conclude l’incontro tra Gesù e la Samaritana in maniera quasi lapidaria,  consegnandoci tre verbi: “lasciare”, “andare”, “dire”: tre azioni che indicano chiaramente l’affetto trasformante di quel vento salvifico. La donna “lascia” la sua anfora (si libera dei pesi che potrebbero rallentare la sua corsa); “va” in città, ritorna cioè al suo luogo di vita ordinaria; e “dice” alla gente di aver incontrato il Cristo, rendendo le sue parole evocazione di una Presenza straordinaria. È la dinamica che dovrebbe caratterizzare ogni incontro con Gesù: “lasciare” tutto, “andare” e “annunciare” con gioia il dono ricevuto. È la dinamica dell’amore. Tornando con lo sguardo sul mosaico di Rupnik notiamo ancora qualche piccolo particolare. Una brocca Gesù la tiene sul cuore/costato; altre sono rimaste ai suoi piedi. La sovrapposizione di immagini (acqua/sangue; acqua/vino), dal Calvario ci riporta a Cana. E alla festa di nozze. Ora non è più solo un desiderio. La mano della donna che si solleva verso il Signore esprime il suo sì. Il mantello azzurro (acqua/vento/cielo) di Gesù si apre: e abbraccia e avvolge la Samaritana. Nel mondo semita questo è il gesto che indica la protezione e il legame nuziale tra l’uomo e la donna. Dio esprime il suo ‘sì’: e, nella Samaritana, come in ognuno di noi, viene a sposare sempre, di nuovo, l’umanità. Questo non elimina la nostra sete; le dà i confini dell’infinito e l’urgenza di suscitare altra sete, perché… “tanta gente in silenzio Tu hai fatto passare attraverso di me. E tante vie lontane. E, crescente negli uomini, un impeto di città”. Nell’unità sponsale, l’impeto di Gesù e la sua passione diventano l’impeto e la passione della Samaritana; e anche il nostro impeto e la nostra passione.

 

Nel solco dell’Anno liturgico

Nella liturgia c’è un momento che corrisponde a questo gesto: il lasciare l’anfora e correre in città; è il momento del congedo finale; che non è un semplice rito di conclusione; è un invito ad oltrepassare la soglia delle nostre chiese, il chiuso delle nostre urne, per andare verso il mondo e gli altri, nella ferialità della vita; ed in particolare verso le situazioni di emarginazione e solitudine che disegnano i contorni delle nostre periferie. Vale la pena, a questo proposito, ricordare la spiegazione che Benedetto XVI dà dell’espressione del congedo “ite missa est”. “Per l'antica Roma voleva soltanto dire: ‘è finita’. ‘Missa’ significava ‘dimissione’. Adesso non è più ‘dimissione’ ma ‘missione’, perché questa assemblea non è un'assemblea tecnica, burocratica, ma è un essere insieme con il Signore che tocca i nostri cuori e ci dà una nuova vita”[52].

Questo è il senso anche della solennità di Pentecoste, che non conclude semplicemente il Tempo Pasquale, ma apre al Tempo Ordinario. Un tempo, lo abbiamo capito, che non va sottovalutato, perché l’aggettivo “ordinario” non ne svilisce l’importanza, ma la qualifica. E, tra l’altro, in più, l’aggettivo “ordinario” suggerisce anche l’idea di un tempo che serve per mette “ordine”, per portare e mantenere l’Ordine nell’universo frastagliato e confuso dei nostri giorni. Il Tempo liturgico Ordinario ci porta questo Ordine di Vita invitandoci ad incontrare il Signore nel suo Giorno, invitandoci a vivere la Pasqua settimanalmente, nell’Eucaristica domenicale. È la Domenica a scandire e valorizzare il Tempo Ordinario come antidoto alla frammentarietà, alla “cronofagia”, alla paura del tempo che scorre, inghiottendo ogni cosa. Nel quotidiano della Samaritana, Gesù, possiamo immaginare, non scompare: diventa Spirito e Verità. Il Tempo Ordinario, inaugurato dalla Pentecoste, è questo quotidiano accompagnato dalla presenza dello Spirito e della sua Verità. È il messaggio che il Congresso eucaristico nazionale di Bari ci ha lasciato!

Una proposta concreta potrebbe essere quella di ripensare al significato da dare alla Veglia diocesana di Pentecoste. Piuttosto che viverla come momento di preparazione all’evento, essa potrebbe assumere in modo più marcato un carattere missionario se la collochiamo all’inizio del Tempo Ordinario. Lasciando alle Parrocchie la possibilità di celebrare una Veglia di Pentecoste nella vigilia della festa, la celebrazione diocesana assumerebbe così più il carattere di una “Festa del Fuoco” che invita i fedeli a testimoniare nella storia di ogni giorno la vita nuova nello Spirito.

 

Per la vita del singolo e della comunità

C’è una bellissima preghiera della Chiesa che potrebbe riassumere e illuminare il senso più autentico del Tempo Ordinario:

O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli,

concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti,

perché, fra le vicende del mondo, là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia [53].

Chiedere a Dio che “siano fissi i nostri cuori dov’è la vera gioia” non è solo una preghiera ma anche un impegno: a non lasciarsi abbattere o disorientare da tutte quelle situazioni che rischiano di soffocare la speranza cristiana.

Ma la preghiera porta il nostro sguardo ancora più in alto, perché, nel momento in cui chiede di “desiderare ciò che Dio promette”, ci fa guardare oltre il piccolo orizzonte della nostra storia. E’ la dimensione escatologica che caratterizza la nostra fede e ci porta a guardare lontano, verso l’eternità.

Scrive un noto sociologo che nella nostra società: “l’eternità è ovviamente messa al bando. (…) Grazie al numero infinito di esperienze terrene che si spera di poter fare, non si sente la mancanza dell’eternità; anzi la sua perdita può passare persino inosservata”[54]. La cultura contemporanea ci ha educati a polarizzare la nostra attenzione solo su ciò che è immediato e percepibile. Di questa mentalità soffrono anche le nostre celebrazioni, che, spesso, pur di catturare l’attenzione dei fedeli, restano su una dimensione prettamente orizzontale, dove prevale il sentimentalismo e l’originalità ad ogni costo. Invece, se profondamente vissuta, la celebrazione domenicale può aiutarci a non perderci “fra le vicende del mondo” e a riscoprire la bellezza della fede che apre alla speranza di una storia più grande che Dio dispiega per noi.

Per la celebrazione liturgica

Come vivere allora l’esperienza liturgica in questo Tempo Ordinario? Indubbiamente il riferimento alla quotidianità della storia e ci suggerisce l’impegno di incontrare le persone nella vita di ogni giorno, per esempio riprendendo l’antica prassi della Benedizione alle famiglie, senza però ridurla ad un semplice gesto rituale, ma proponendola come un fraterno incontro di conoscenza e di dialogo. Tuttavia, sarebbe bello se riuscissimo, in questo tempo, a valorizzare sempre più il Giorno del Signore, curando lo stile delle nostre celebrazioni, perché diventino occasioni in cui ogni uomo e ogni donna possa sperimentare veramente la presenza di Dio e aprirsi alla speranza che solo questo incontro può alimentare. Celebrazione e vita non corrono parallele, ma con-corrono a formare la nostra gioia: una gioia che la celebrazione domenicale (non pensata come semplice precetto da osservare) accoglie e rilancia.

La Nota Pastorale “Cristiani nel mondo. Testimoni di speranza”

In questo tempo dell’Anno liturgico può rivelarsi utile la lettura e la riflessione comunitaria sulla Nota Pastorale “Cristiani nel mondo. Testimoni di speranza” della Conferenza Episcopale Pugliese. Nelle sue pagine risuona con forza l’esortazione ai Laici: “nell’aeropago della cultura moderna, siete chiamati a tenere alto il confronto sui grandi temi della verità e della carità, proponendo con franchezza la forza liberante del messaggio evangelico”[55]. Così come può risultare fecondo riprendere la ricchezza dei contenuti offerta dagli Atti del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale (Bari 21-29 maggio 2005).

 

Un impegno, più che una conclusione

Accogliendo il dono dello Spirito del Risorto e lasciandoci guidare per le vie delle nostre città, accogliamo il nuovo Anno Pastorale come “tempo favorevole” che Dio dona alla nostra Chiesa. Non potremo lasciare la nostra anfora presso il pozzo se non scopriamo la sorgente che è Cristo. E non potremo correre in città come la Samaritana se non lasceremo che lo Spirito di Dio accenda in noi il fuoco della speranza. Come scrive Benedetto XVI: “La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me”[56]. E’ questa la responsabilità che il Signore affida oggi alla nostra Chiesa.

Quando apri gli occhi sul fondo dell'acqua

I sassi trasparenti per la recente pioggia, brillano

appena sollevandosi al passo dei viandanti.

(…) Solo tu così fiocamente distingui

questa folla che naviga dietro l'onda del neon.

La svela proprio quello che in essa è più segreto

e che nessuna fiamma può distruggere.

(…) Purché si aprano gli occhi in altro modo,

un modo tutto diverso,

e purché non si scordi la visione che allora appagava lo sguardo[57].


firma vescovo.jpg

 

 

† Mons. Francesco Cacucci

Arcivescovo di Bari-Bitonto

 

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[1] Karol Wojtyła, Canto dello splendore dell'acqua, in Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001.

[2] Bernardo di Chiaravalle, Epistola 107,9.

[3] Cfr. La mistagogia. Una scelta pastorale, EDB, Bologna 2006, pp. 63-70.

[4] Lumen fidei, 37.

[5] Spe salvi, 31.

[6] Papa Francesco, Omelia nella Messa Crismale 2013.

[7] A Lazzarini, Polis in fabula, Sellerio, Palermo 2011, p. 73.

[8] M. Delbrêl, Comunità secondo il vangelo, Gribaudi, Milano 2006, p. 28.

[9] Sono alcuni versi della prima delle poesie di Karol Wojtyla del Ciclo Canto dello splendore dell’acqua.

[10] X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1990, p. 302.

[11] La narrazione evangelica mostrerà, nella conclusione del racconto, che proprio in tale situazione Gesù continua a suscitare la fede (“molti Samaritani credettero in lui”: Gv 4,39).

[12] Benedetto XVI, Omelia nella solennità di Pentecoste 2012.

[13] Messale Romano, Prefazio di Natale I.

[14] Papa Francesco, Udienza generale del 27 marzo 2013.

[15] C’è uno studio promosso dalla Caritas Italiana nel 2007 nel libro: M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie, Il Mulino, Bologna 2007.

[16] Sono sempre versi della prima delle poesie di Karol Wojtyla del Ciclo Canto dello splendore dell’acqua.

[17] Messale Romano (III ed.) Praenotanda n.46.

[18] Cfr. Cfr. Ufficio liturgico diocesano - centro pedagogico meridionale Bari (a cura di), L’anno liturgico come itinerario di fede, ed. La Scala, Noci4 2003, p. 24.

[19] T. Radcliffe, Testimoni del Vangelo, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2004, p. 132.

[20] E’ un’altra delle liriche del ciclo Canto dello splendore dell’acqua, di Karol Wojtyla.

[21] Il commento al mosaico lo troviamo nel sito del Centro Aletti: http://www.centroaletti.com/ita/opere/italia/37.htm

[22] Origene, Omelie sui Numeri, Omelia XII,1, Città Nuova, Roma 2001, p. 168.

[23] B. Pascal, Pensieri, Giunti, Firenze 2009, p. 65.

[24] Spe salvi, 2.

[25] È quanto ho richiamato nella Lettera Cerca e Troverai (EDB, Bolgna 2012, pp. 21-25), nell’auspicio di un’apertura “vocazionale” più decisa da parte delle nostre comunità.

[26] D. Bonhoeffer, La vita in comune, Queriniana, Brescia 2001, p. 75.

[27] Ibidem, p. 76.

[28] La Mistagogia, cit. p. 83.

[29] Cfr. L’anno liturgico come itinerario di fede, cit. pp. 34-37.

[30] Sono versi tratti da un’altra delle liriche del ciclo Canto dello splendore dell’acqua, di Karol Wojtyla.

[31] Comm. al Vangelo di Giovanni, 15,12.

[32] La Cappella della “Casa incontri cristiani” Capiago (CO), “è gestita dai Padri Dehoniani, la cui spiritualità è ispirata al Sacro Cuore, simbolo dell’amore del Padre alla ricerca dell’uomo. Il mosaico si realizza in cinque scene complessive, di cui quattro cingono la scena centrale che è quella della Crocifissione”, una scena in cui più che in altre Rupnik accentua il ‘fiume’ rosso che sgorga dal costato (cfr. sito del Centro Aletti: http://www.centroaletti.com/ita/opere/italia/37.htm).

[33] E. montale, Cigola la carrucola del pozzo: “Cigola la carrucola del pozzo, / l'acqua sale alla luce e vi si fonde. / Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un'immagine ride. / Accosto il volto a evanescenti labbri: / si deforma il passato, si fa vecchio, / appartiene ad un altro... / Ah che già stride / la ruota, ti ridona all'atro fondo, /visione, una distanza ci divide”, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1979.

[34] R. Schnackenburg, Commentario teologico del Nuovo Testamento. Il vangelo di Giovanni. Parte prima, Paideia, Brescia 1973, p.643.

[35] Gregorio di Nazianzo, PG 36, 398.

[36] B. Kolodiejchuk (a cura di), Madre Teresa. Sii la mia luce, Rizzoli, BUR Saggi, Milano 2010, p. 52.

[37] Messale Romano, Prefazio comune VIII.

[38] Spe salvi, 1.

[39] Sono altri versi tratti da un’altra delle liriche del ciclo Canto dello splendore dell’acqua, di Karol Wojtyla.

[40] X. Léon-Dufour, op. cit., p. 329.

[41] Messale Romano, Prefazio di Pentecoste.

[42] R. Guardini, Formazione liturgica, O.R., Milano 1988, p. 74.

[43] Commento al salmo 148.

[44] B. Kolodiejchuk (a cura di), op. cit., p. 204.

[45] Cfr. CEI. Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia, Direttorio di pastorale familiare, n. 215.

[46] Benedetto XVI, Omelia per la Santa Messa e Rito di Dedicazione della nuova Parrocchia romana di S. Corbiniano all’Infernetto, 20 marzo 2011.

[47] Cfr. L’Anno liturgico come itinerario di fede, cit., p. 70.

[48] Ibidem, pag. 66.

[49] Papa Francesco, Omelia nella Messa crismale 2013.

[50] Questa e le citazioni seguenti sono tratte dal commento al mosaico presente nel sito del Centro Aletti: http://www.centroaletti.com/ita/opere/italia/37.htm

[51] M. Làconi, Il racconto di Giovanni, Cittadella, Assisi 1989, p.96.

[52] Benedetto XVI, Discorso al termine del pranzo con i Padri sinodali, 22 ottobre 2005.

[53] Messale Romano, Colletta della XXI settimana del Tempo Ordinario.

[54] Z. Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, pag. XV.

[55] Conferenza Episcopale Pugliese, Cristiani nel mondo. Testimoni di speranza, Nota pastorale dopo il III Convegno Ecclesiale Pugliese, n. 23. La Nota, ora, corredata anche di tutto il materiale relativo al convegno sul laicato, è stata rieditata negli Atti del convegno stesso: AA. VV., a cura di S. Ramirez, I laici nella chiesa e nella società pugliese, oggi, Ed. Vivere In (Quaderni dell’Istituto Pastorale Pugliese, 5), Monopoli 2013.

[56] Spe salvi 48.

[57] Sono ancora versi di una poesia di Karol Wojtyla dal Ciclo Canto dello splendore dell’acqua.