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San Giuseppe, l’uomo di cui si fida il Cielo

La Lettera “Patris corde” di Francesco arricchisce il magistero dei Papi sulla figura di San Giuseppe. Tra fine Ottocento fino a oggi i Pontefici hanno regalato pagine belle e profonde che scavano nel mistero dell’“uomo nell’ombra”

La “sfida” viene rilanciata ogni giorno da 40 anni. La recita delle Lodi e poi, a seguire, quella di una vecchia preghiera trovata in un libro di devozioni francese dell’Ottocento. Il destinatario di quella “certa sfida” quotidiana è San Giuseppe perché, dopo avergli affidato tutto, “situazioni gravi e difficoltà”, quella vecchia orazione termina così: “Che non si dica che ti abbia invocato invano”. Il Papa rivela questa sua consuetudine in una breve nota a metà della Lettera Patris corde, un testo che riporta la memoria della Chiesa a ciò che Pio IX fece il giorno dell’Immacolata del 1870, proclamando San Giuseppe patrono della Chiesa universale.

Uno stretto legame

L’aneddoto conferma e arricchisce la predilezione di Francesco per la figura dello sposo di Maria. Una familiarità già nota per via dell’abitudine – raccontata durante il viaggio a Manila – di riporre sotto la statuetta del “Giuseppe dormiente”, tenuta nel suo studio a Santa Marta, un foglietto con su scritte le proprie preoccupazioni. “L’uomo inosservato”, che accoglie il mistero e vi si mette a servizio restando “decentrato”, è anche il risolutore delle cose impossibili e nella Patris corde il Papa sceglie di descrivere le molte qualità che rendono Giuseppe un padre e un marito vero, il promesso sposo che “accoglie Maria senza condizioni preventive” e l’uomo in cui “Gesù ha visto la tenerezza di Dio”.

Nomi per un Papa

Ma quella di Francesco è per così dire l’ultima tessera in ordine di tempo di un mosaico di ammirazione che la Chiesa ha costruito lungo i secoli per rendere evidenti i meriti di una grande anima scolpita nel e dal silenzio. A dare un contributo di pagine e di cuore a questa narrazione sono stati certamente i Papi, a cominciare da Sisto V che alla fine del XV secolo fissa la data della festa al 19 marzo. Da Pio IX in poi, e soprattutto durante i pontificati del Novecento, il magistero accende luci nuove sull’“uomo nell’ombra”, il cui nome non viene mai scelto da un Pontefice anche se negli ultimi decenni diventa una quasi costante nel nome di Battesimo di chi sale al Soglio, Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto), Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyla), Benedetto XVI (Joseph Ratzinger). Francesco non fa di nome Giuseppe ma celebra la Messa di inizio ministero il 19 marzo, diverso vincolo stessa prossimità.

Papi per un nome

Confermando la volontà di Benedetto XVI, il primo maggio 2013 Francesco decreta l’aggiunta del nome di San Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, nelle Preghiere eucaristiche II, III e IV. In precedenza, il 13 novembre ‘62, era stato Giovanni XXIII a stabilirne l’inserimento nell’antico Canone romano della Messa, accanto al nome di Maria e prima di quello degli Apostoli. Proprio Papa Roncalli, volendo affidare al “papà” terreno di Gesù il Concilio Vaticano II, scrive nel ’61 la Lettera apostolica Le Voci, nella quale fa una sorta di sommario della devozione per San Giuseppe nutrita da suoi predecessori. Non sono grigie operazioni di “burocrazia” liturgica. Dietro ogni nuovo decreto si coglie un sentimento e una consapevolezza ecclesiale sempre più radicati che per esempio, come accade con Pio XII, possono arrivare a incidere anche nella vita civile.

Il Santo di chi lavora

Il primo maggio 1955 è domenica e una folla di lavoratori riempie Piazza San Pietro. Sono iscritti alle Acli e tanti di loro ricordano l’incontro con Pio XII di dieci anni prima, avvenuto il 13 marzo del ’45, un mese e mezzo prima della fine di una guerra che ha lacerato profondamente l’Italia. Adesso c’è un Paese che cresce impetuosamente, il “boom” non è lontano, ma tra le fila dei cattolici italiani Papa Pacelli riconosce i “delusi”, quelli che lamentano una scarsa incisività della presenza cristiana “nella vita pubblica”, mentre l’ideologia socialista sembra farla da padrone. Pio XII imbastisce un discorso energico, richiama le Acli alla loro identità perché si impegnino per la “pace sociale” e alla fine, quasi come un colpo di scena, il “regalo” che sorprende ed entusiasma:

“Affinché vi sia presente questo significato (…) amiamo di annunziarvi la Nostra determinazione d'istituire — come di fatto istituiamo — la festa liturgica di S. Giuseppe artigiano, assegnando ad essa precisamente il giorno 1° maggio. Gradite, diletti lavoratori e lavoratrici, questo Nostro dono? Siamo certi che sì, perché l'umile artigiano di Nazareth non solo impersona presso Dio e la S. Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie”.

“Papa Giuseppe” non si può

Quattro anni più tardi la Chiesa è guidata da un uomo che avrebbe voluto chiamarsi “Papa Giuseppe”. Ci ha rinunciato perché, dice, “ciò non è d’uso tra i Papi”, ma la spiegazione tradisce la nostalgia e svela il forte attaccamento a San Giuseppe di Giovanni XXIII. L’occasione è l’incontro che il 19 marzo del ’59 Papa Roncalli fa con un gruppo di addetti alla Nettezza urbana. L’anno successivo, in un radiomessaggio del primo maggio 1960, il “Papa buono” conclude intonando una preghiera a S. Giuseppe lavoratore:

“Fa' che anche i tuoi protetti comprendano di non essere soli nel loro lavoro, ma sappiano scoprire Gesù accanto a sé, accoglierlo con la grazia, custodirlo fedelmente, come Tu hai fatto. E ottieni che in ogni famiglia, in ogni officina, in ogni laboratorio, ovunque un cristiano lavora, tutto sia santificato nella carità, nella pazienza, nella giustizia, nella ricerca del ben fare, affinché abbondanti discendano i doni della celeste predilezione”.

L’uomo dei rischi

Anche Paolo VI non fa di nome Giuseppe, ma dal ’63 al ’69 in particolare non c’è anno in cui non celebri una Messa nella solennità del 19 marzo. Ogni omelia diventa così tassello di un ritratto personale in cui Papa Montini si mostra affascinato dalla “completa, sommessa dedizione” di Giuseppe alla sua missione, dall’uomo “forse timido” ma dotato “di una grandezza sovrumana che incanta”. E che non lo fa arretrare nonostante accettare una sposa come Maria e un figlio come Gesù significhi essere un alieno tra gli uomini del suo tempo. Dice in una considerazione del 1969:

“Un uomo perciò, S. Giuseppe, ‘impegnato’, come ora si dice, per Maria, l’eletta fra tutte le donne della terra e della storia, sempre sua vergine sposa, non già fisicamente sua moglie, e per Gesù, in virtù di discendenza legale, non naturale, sua prole. A lui i pesi, le responsabilità, i rischi, gli affanni della piccola e singolare sacra famiglia. A lui il servizio, a lui il lavoro, a lui il sacrificio, nella penombra del quadro evangelico, nel quale ci piace contemplarlo, e certo, non a torto, ora che noi tutto conosciamo, chiamarlo felice, beato. È Vangelo questo. In esso i valori dell’umana esistenza assumono diversa misura da quella con cui siamo soliti apprezzarli: qui ciò ch’è piccolo diventa grande”.

Lo sposo sublime

In 26 anni di Pontificato Giovanni Paolo ha una infinità di occasioni di parlare di San Giuseppe che, racconterà, prega intensamente ogni giorno. Questa devozione si riassume nel documento che gli dedica il 15 agosto 1989, giorno di pubblicazione dell’Esortazione apostolica Redemptoris Custos, scritta 100 anni dopo la Quamquam Pluries di Leone XIII. Nel documento Papa Wojtyla scandaglia la vita di Giuseppe in ogni suo atto e sensibile com’è agli aspetti del matrimonio cristiano offre una profonda lettura del rapporto tra i due sposi di Nazareth. Ovvero della “grazia di vivere insieme il carisma della verginità e il dono del matrimonio”, che riprende in un’udienza generale del ’96 rovesciando peraltro un falso mito:

“La difficoltà di accostarsi al mistero sublime della loro comunione sponsale ha indotto alcuni, sin dal II secolo, ad attribuire a Giuseppe un’età avanzata e a considerarlo il custode, più che lo sposo di Maria. È il caso di supporre, invece, che egli non fosse allora un uomo anziano, ma che la sua perfezione interiore, frutto della grazia, lo portasse a vivere con affetto verginale la relazione sponsale con Maria”.

“Robusta interiorità”

Dell’uomo che Matteo nel Vangelo chiama “giusto”, il Patrono della Chiesa universale, dei lavoratori e di un’infinità di città e luoghi non si conoscono parole ma solo silenzi. Che dunque vanno compresi come fossero parole e pensieri. In questa apparente assenza si addentra anche Benedetto XVI e ne estrae la ricchezza di una vita completa, di un uomo-sfondo che, sostiene in un Angelus del 2005, con il suo esempio senza proclami inciderà sulla crescita di Gesù l’uomo-Dio:

“Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all'unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio (…) un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza. Non si esagera se si pensa che proprio dal "padre" Giuseppe Gesù abbia appreso – sul piano umano - quella robusta interiorità che è presupposto dell'autentica giustizia, la "giustizia superiore", che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli”.

Alessandro De Carolis – Città del Vaticano

© www.vaticannews.va, martedì 8 dicembre 2020

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