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Chiesa. Non solo Tibhirine: le storie dei diciannove martiri d'Algeria

Verranno beatificati l’8 dicembre. Rappresentano il dono dei cristiani che fra 1994 e 1996 non vollero lasciare il Paese, travolto dal terrorismo. Un libro li racconta a partire dai testimoni

«Non hanno ucciso lui, hanno ucciso noi». Per gli adolescenti che frequentavano la biblioteca di via Ben Cheneb, nella casbah di Algeri, l’assassinio di fratel Henri Vergès, freddato insieme a suor Paul-Hélène Saint-Raymond proprio nei corridoi di quell’edificio colmo di libri, in cui per anni i due religiosi erano stati a fianco degli studenti del quartiere, fu uno shock indicibile. Ma ormai, era l’8 maggio 1994, era chiaro che la spirale di violenza in cui era sprofondato il Paese, lacerato dal conflitto tra il governo e i fanatici islamisti, si preparava a inghiottire anche la piccola Chiesa algerina.

Solo pochi mesi prima, il primo dicembre 1993, era scaduto l’ultimatum lanciato dal Gia, Gruppo islamico armato, che aveva promesso di mettere nel mirino qualunque straniero che si fosse ostinato a rimanere in Algeria. Molti religiosi, pressati dalle ambasciate, con la morte nel cuore avevano accettato di andarsene. Qualcuno, tuttavia, in seguito a un lacerante discernimento destinato a ripetersi periodicamente, aveva deciso di restare al fianco dell’amato popolo algerino, la prima vittima della violenza furiosa: in quegli anni perirono in centocinquantamila tra cui intellettuali, imam, donne, bambini. Per tenere viva una flebile fiammella di speranza e di umanità. Per testimoniare fino alla fine, se necessario, la loro amicizia con Gesù e quindi con la gente.

Fanno parte di questi uomini e donne di Dio i diciannove martiri d’Algeria che saranno dichiarati beati l’8 dicembre a Orano. Le loro vite, prima ancora che le loro morti, sono raccontate dal monaco trappista Thomas Georgeon, postulatore della causa di beatificazione, e dal giornalista Christophe Henning nel libro «La nostra morte non ci appartiene». La storia dei 19 martiri d’Algeria, in uscita per i tipi di Emi, con la prefazione di Enzo Bianchi. (GLI INCONTRI CON IL POSTULATORE: VAI AL LINK).

Suor Caridad Álvarez Martín e suor Esther Paniagua, spagnole, agostiniane missionarie, uccise a colpi di pistola mentre andavano a messa il 23 ottobre 1994, erano un punto di riferimento per il quartiere di Bab el-Oued: si prendevano cura dei bimbi disabili e di tutti i bisogni delle famiglie. Un impegno testimoniato pubblicamente dal responsabile del vicino mausoleo musulmano e da un commerciante, che per questo pagarono a loro volta con la morte.

La stessa solidarietà mostrata dalle migliaia di persone accorse solo due mesi dopo, era il 27 dicembre, ad accompagnare al cimitero di Tizi Ouzou i quattro padri bianchi (i francesi Jean Chevillard, Alain Dieulangard e Christian Chessel e il belga Charles Deckers) assassinati nel cuore della Cabilia, dove sorgeva da tempo la loro minuscola comunità. Con i suoi 75 anni, padre Alain ne era il decano. «Vedevo in lui l’immagine di Gesù – racconta una vicina musulmana –. Dava l’esempio perfetto della rinuncia a sé stesso. Era il Vangelo vivo». Monsignor Pierre Claverie, il vescovo di Orano, presente alle esequie, non si capacita: «Dev’essere la prima volta che quattromila musulmani partecipano al funerale di quattro preti cattolici…».

La scia di sangue non si ferma. Il 3 settembre 1995, ad Algeri, la furia estremista si abbatteva su suor Bibiane Leclercq e suor Angèle-Marie Littlejohn, colpite a morte per strada, al ritorno dalla messa. Le due religiose francesi, missionarie di Nostra Signora degli Apostoli, erano in Algeria da 35 anni. Insegnavano le tecniche tradizionali di ricamo alle ragazze sfavorite di una zona povera della capitale. «Percorrevano spesso il nostro quartiere per andare al mercato, e quando ci passavano vicino dicevamo loro: "Buongiorno, mamme"», racconta un testimone.

La frequentazione con le famiglie locali, tuttavia, non celava ai religiosi cristiani le gravi contraddizioni della realtà in cui erano immersi. Suor Odette Prévost, piccola sorella del Sacro Cuore, francese, massacrata il 10 novembre, viveva a Kouba da quasi trent’anni: l’adesione di quel quartiere della capitale al Fronte islamico era evidente, ma «quei giovani pronti a tutto li ha visti crescere, ha reso tante volte visita ai loro genitori…». Non è incoscienza. È consapevolezza di una scelta, pur difficilissima. Già compiuta. Suor Paul-Hélène, la prima dei diciannove martiri, al vescovo monsignor Teissier che esortava le comunità a riflettere sulla minaccia, rispose: «Padre, le nostre vite sono comunque già donate».

Come scriveva poche settimane prima del suo rapimento Christian de Chergé, il priore di Tibhirine: «La nostra morte è inclusa nel dono, non ci appartiene». Proprio i sette monaci trappisti dell’Atlas, portati via con la forza la notte del 26 marzo 1996 dal monastero arrampicato sul monte che era diventato luogo spirituale per eccellenza, non solo per i cristiani (qui si tenevano gli incontri del Ribât es-Salâm, fondamentale esperienza di dialogo e amicizia con i musulmani), rappresentano l’emblema di quel martirio d’Algeria che ora si avvia agli Altari. Perché a Tibhirine «è una testimonianza collettiva a vocazione universale che gli assassini hanno voluto mettere a tacere».

Per questo, dopo il ritrovamento dei resti dei monaci sul ciglio della strada verso Notre Dame de l’Atlas (il 21 maggio), quando il testamento di fratel Christian si trasforma in una delle pagine spirituali più note del XX secolo, il priore di Tibhirine diventa il portavoce non solo dei compagni massacrati con lui, i fratelli Christophe Lebreton, Luc (Paul Dochier, l’anziano medico), Michel Fleury, Bruno (Christian Lemarchand), Célestin Ringeard e Paul Favre-Miville, ma anche di tutti gli altri martiri d’Algeria. Tra cui anche monsignor Claverie, ultimo sacrificato (il primo agosto) di quella Chiesa donata, il cui sangue, sulla soglia di casa sua, si mescola con quello del carissimo amico musulmano Mohamed Bouchikhi.

«Non sono mancati, anche all’interno della Chiesa d’Algeria - scrive Enzo Bianchi nella prefazione -, quanti esitavano nel propugnare questa beatificazione, temendo che potesse essere fraintesa come un sigillo a una "eccezionalità" cristiana. È prevalsa invece la comprensione più profonda e autentica: le loro storie e la loro morte parlano anche a nome delle decine di migliaia di algerini, quasi esclusivamente musulmani, vittime sacrificali dell’odio».

Scriveva fratel Christian nel suo testamento: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo Paese. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato». Questa beatificazione è un segno per tutti.

Chiara Zappa

© Avvenire, mercoledì 7 novembre 2018

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