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Dossier. Puglisi, col Vangelo contro la mafia

Oggi diventa beato il sacerdote ucciso da Cosa Nostra il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. La vita. La testimonianza. L'attualità.

1. La lezione indimenticabile di un sacerdote autentico

 

Rideva, don Pino Puglisi, se lo chiamavano prete antimafia. Il parroco di Brancaccio, una delle borgate di Palermo a più alta densità mafiosa, non amava i proclami, si sforzava semplicemente di essere un sacerdote coerente con il Vangelo. Quella coerenza che non cede di fronte ai compromessi su cui spesso si basa la potenza prevaricatrice degli "uomini d’onore".

«Quel prete rompeva le scatole», dirà di lui uno dei componenti del commando di fuoco che lo uccise come un agnello, una sera di settembre, la sera del suo compleanno, di fronte alla porta di casa, mentre dalle finestre aperte entrava l’aria avvolgente dello scirocco.

La sua pastorale dentro la borgata, come ha scritto don Luigi Ciotti nella prefazione della biografia di Mario Lancisi del sacerdote che viene proclamato beato, era considerata "un’interferenza".
Per svolgere appieno la sua missione la Chiesa spesso "interferisce", si frappone tra vittime e carnefici, si inserisce nei disegni dei mafiosi, nei soprusi della politica complice, getta luce nei verminai nascosti nelle zone d’ombra. Don Puglisi, martire in odium fidei, è stato la dimostrazione vivente di quanta paura a Cosa nostra possa fare un’azione sacerdotale svolta fino in fondo: l’educazione, la catechesi dei ragazzi, l’apostolato in parrocchia, l’esempio e il richiamo all’autenticità dei valori del Vangelo.

Il parroco di Brancaccio, costretto a celebrare Messa in un garage perché la chiesa di San Gaetano era rimasta danneggiata dal terremoto, strappava centinaia di bambini alla strada, tradizionale vivaio mafioso.
Promuoveva comitati civici per rendere più vivibile una borgata che non aveva nemmeno un albero e una scuola media. Ricordava ai politici locali il senso autentico del loro mandato. Smontava e irrideva la cultura dell’indifferenza e dell’omertà (con Agostina Ajello aveva creato un "Padre nostro dei mafiosi" per tenere lontano bambini e ragazzi dalla mentalità criminale).

Portava a fare volontariato in un quartiere periferico i ragazzi della buona borghesia del liceo classico Vittorio Emanuele che, come avviene spesso nelle metropoli del Sud, in certe zone non ci avevano mai messo piede. Aveva fondato un centro, intitolato alla preghiera che tanto amava, per fare ripetizione ai bambini poveri, destinati a un futuro di disagio o di asservimento alla potenza dei boss.

Non a caso il suo assassino, che era della sua stessa borgata, aveva la quinta elementare. E quando gli arrivavano minacce, intimidazioni, avvertimenti, invitava i mafiosi dal pulpito a redimersi.

Non è possibile comprendere fino in fondo la sua santità se non si comprende il suo modello autentico di sacerdozio. La sua luce di santità ora splende su una città difficile come Palermo, e ci ricorda che anche nei momenti più cupi, come è stata l’epoca delle stragi, cui il martirio di Puglisi appartiene storicamente,la luce del Vangelo e l’esempio di un modo di vivere autentico non ci abbandonano mai.

 

2. Il postulatore, monsignor Bertolone: «Fu un vero profeta, morì martire per la fede»

 

La gioia di oggi ripaga gli anni, tanti, di attesa, ricerche, prove, testimonianze. Palermo e la Sicilia attendono con trepidazione il 25 maggio, giorno in cui don Pino Puglisi sarà proclamato beato. Monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo della diocesi di Catanzaro-Squillace, è il postulatore.

– Cosa ha sbloccato la causa? Cosa s’intende con la definizione martire in odium fidei?

«Ho assunto l’incarico nell’agosto 2010, con l’obiettivo di rispondere ad alcuni quesiti sollevati dalla Congregazione delle cause dei santi il 12 dicembre 2006. In particolare si chiedeva se don Puglisi fosse stato ucciso per l’esercizio del ministero sacerdotale o per altre ragioni. Nuove testimonianze, l’accesso a documenti inediti e il contributo di molti studiosi hanno consentito di far luce sui dubbi esternati: Puglisi fu ucciso perché, col suo essere prete, semplicemente prete, proponeva non una sfida, ma la costruzione di un’alternativa civile e cristiana, che svuotava dall’interno il potere mafioso. Il suo omicidio, fu acclarato, era stato un atto contro la fede che egli professava e i mandanti erano perfettamente consapevoli di colpire un sacerdote che esercitava il ministero sacerdotale “predicando…tutta a iurnata”».

– Pensa che il delitto Puglisi faccia giustizia, una volta per tutte, dei giudizi benevoli sulla mafia, circolati troppo a lungo in Sicilia, anche all’interno della Chiesa?

«Quella morte, così tragica e dolorosa, è un seme insuperabile di vitalità. È la sfida del futuro della Chiesa siciliana e non solo: la morte di don Puglisi si pone come luminoso esempio di vita sacerdotale. Il suo sangue innocente è stato e dev’essere come una trasfusione nelle coscienze indifferenti, richiamando tutti a un nuovo approccio con il fenomeno mafioso e, quindi, a una decisa ricerca degli strumenti ecclesiali e pastorali più idonei a formare coscienze veramente cristiane (confraternite, comitati per le feste, consigli pastorali e affari economici) che operino evangelicamente: dopo Puglisi nulla può essere più come prima nella valutazione storica e sociologica del fenomeno mafioso dentro e fuori la Chiesa».

– Cosa cambia nella pastorale delle comunità ecclesiali con la testimonianza di don Pino?

«Già in precedenza non erano mancati pronunciamenti della Chiesa siciliana. Ricordo ad esempio, nel 1981, le parole di monsignor Bommarito, vescovo di Agrigento, zona ad alta densità mafiosa: “Il Vangelo è l’unico antidoto alla mafia. La polizia, il confino, il soggiorno obbligato sono misure che danno dei colpetti a questa organizzazione, ma l’unico antidoto è la convinzione profonda che l’amore salva l’uomo”. Poi l’azione pastorale del cardinale Pappalardo che con ammirevole e solenne fermezza aveva richiamato ripetutamente le coscienze al pentimento, alla conversione, al ritorno a Dio e al vivere da onesti cittadini».

– Con il riconoscimento del martirio di don Pino Puglisi la svolta è irreversibile...

«È la chiave di volta. La verità squarcia il velo dell’ipocrisia: non esistono mafiosi buoni e mafiosi cattivi, ma un cancro da combattere civilmente ed ecclesialmente con la Parola, l’esempio, la testimonianza. Preti che umilmente, ma con fede certa si facciano compagni di viaggio degli uomini, col Vangelo in mano e nel cuore. Proprio come don Puglisi, che è annoverabile tra i profeti. La sua testimonianza, infatti, non dà quiete ed è coraggiosa, ferma, intransigente. Non accetta baratti né compromessi. Puglisi ha detto e fatto contro la mafia parole e azioni pesanti da imitare, proponendosi quale esempio di una vita più degna d’essere vissuta. La sua morte ci sprona a essere cristiani con la testa alta e la schiena dritta».

Fernanda Di Monte

 

3. Esclusivo: parla Giuseppe Carini, il teste chiave contro gli assassini

 

Ritorna a parlare uno dei suoi ragazzi. Uno di quelli che lo ha seguito fino alla fine. E che ha testimoniato contro i mandanti mafiosi, pagando il prezzo di una vita  da fantasma.    
Quando don Pino Puglisi, nel 1991 arrivò nel quartiere di Brancaccio, come nuovo parroco, Giuseppe Carini, era un giovanotto ventenne, studente di Medicina, che al mattino frequentava la facoltà di Palermo e al pomeriggio giocava al pallone coi coetanei del quartiere dov’era nato e vissuto. Le amicizie provenivano dalle "famigghie" affiliate a cosa nostra. Brancaccio era il feudo di Michele Greco, il papa a capo della cupola di cosa nostra, un quartiere-ghetto ad altissima densità mafiosa. E come tutti i ragazzi, anche Giuseppe, era cresciuto col mito dell’uomo d’onore.

«Volevo diventare come il cugino di mia madre, un uomo considerato da tutti», spiega. Poi l’incontro con questo piccolo prete dalle grandi orecchie e un sorriso disarmante, che va incontro ai bambini di strada e parla di legalità. Un incontro che gli cambia la vita, per sempre. Il 15 settembre del 1993, il giorno del suo 56° compleanno, don Puglisi viene barbaramente assassinato sotto casa sua, da due killer mandati dai fratelli Graviano, boss dinamitardi di Brancaccio. Cosa nostra non poteva più tollerare l’operato di un testardo prete-coraggio che stava strappando, uno a uno, i bambini alla manovalanza mafiosa sotto gli occhi dei picciotti, dimostrando che un’alternativa al sistema e alla cultura malavitosa era possibile.

Dopo vent’anni dalla sua uccisione, la Chiesa lo ha riconosciuto martire e il 25 maggio a Palermo si celebrerà la sua beatificazione.  Teste chiave al processo contro i Graviano, che furono condannati all’ergastolo, fu proprio lui, Giuseppe Carini, uno dei "ragazzi" di “3P” come amavano sintetizzare il trinome "Padre Pino Puglisi", uno dei primi giovani animatori della parrocchia, che non avrebbe abbandonato il suo "parrino" neanche dopo morto.  Dal 1995, infatti, Giuseppe è "testimone di giustizia"; è stato inserito nel programma speciale di protezione.  Da allora è un fantasma, che già all’età di 25 anni, ha dovuto rinunciare a identità, nome, terra d’origine, studi universitari e famiglia che lo ha rinnegato. In 18 anni, come fosse un latitante, ha cambiato dieci volte abitazione, in otto città diverse di cinque regioni italiane. Di rado può calare la "maschera" e, tornando a parlare come Giuseppe Carini, raccontare quell’uomo giusto che lo ha portato a "conversione". E lo fa con noi, a poche ore dalla beatificazione del suo "parrino".

- Come ha conosciuto don Puglisi?

«Me ne parlò un amico. "Vieni a conoscere il nuovo parroco di San Gaetano. È  davvero in gamba", mi disse. Al primo incontro mi propose di dedicare un’ora alla settimana ai bambini di strada del quartiere. Mi diede in mano un pallone di cuoio e andai da loro. Cominciò così». 

- Cosa la colpiva di questo sacerdote?

«Mi spiazzava. Mi sfuggiva la sua logica. Ma mi affascinava, e il mio impegno in parrocchia crebbe presto. Era bello vedere che questi bambini cresciuti troppo in fretta si affezionavano a te e al prete che si prendeva cura di loro. Padre Pino, uomo di vasta cultura, era consapevole che bisognava mettersi in gioco totalmente con queste persone. Quello che era suo era nostro. Per ogni iniziativa in parrocchia metteva denari di tasca sua. Viveva la povertà in concreto: saltava i pasti caldi e si accontentava di  mangiare scatolette  per correre a trovare le  persone che avevano bisogno».

- Che rapporto aveva con lei?


«Si parlava tantissimo. Lo spazio era sempre quello della sera tardi, in sacrestia o in auto sotto casa mia. Sapeva parlarmi senza proferire parola e il suo silenzio non era cupo, né pesante. Conosceva bene la mia situazione e anche il fatto che frequentavo amici in odore di mafia, tuttavia non mi fece mai pesare nulla; non mi ha mai rimproverato».

- Un episodio, un aneddoto?


«Un momento importante della mia vita fu quando mi accostai al sacramento della Cresima. Fino a un’ora prima della celebrazione non dissi nulla ai miei genitori perché avevo deciso di non avere alcun padrino e la cosa avrebbe fatto scalpore, non solo a casa mia. Ero l’unico infatti ad aver fatto quella scelta. Quando padre Puglisi lo seppe, m’appoggiò e m’incoraggiò: "Non ti basta Lui come padrino?", mi disse sereno, indicandomi il cielo. Conservo ancora tra le poche cose che sono riuscito a portare via da casa la foto del rito. Quel momento fu dirompente col mio passato e fondamentale per la mia conversione».

- E i suoi genitori?


«Non  so se abbiano capito, né ho avuto poi l’opportunità di chiederglielo. So che non hanno mai condiviso né la cultura, né la mentalità mafiosa. Avevamo sì parenti mafiosi, ma con loro mio padre teneva ben pochi rapporti. All’inizio non vedevano male che andassi in parrocchia. Quando iniziarono a ricevere pressioni, mi chiesero di andarmene via da lì».

- Quand’è che capiste che Cosa Nostra non avrebbe tollerato oltre l’operato di padre Pino?

«È stata una veloce escalation di messaggi e minacce. Dalle gomme tagliate dell’auto del sacerdote, alle percosse. Io sono stato perquisito e minacciato più volte».

- Ma quand’è che venne alzato il tiro?


«Capimmo del pericolo quando incendiarono le porte di casa a tre membri del Comitato intercondominale di via Hazon, che operava a fianco di don Pino. La parrocchia, poi, col suo centro d’accoglienza "Padre Nostro" era diventato il punto di riferimento alternativo per tutto il quartiere e questo, cosa nostra non se lo poteva permettere». 

- E don Puglisi?


«La prima domenica dopo l’incendio, alla messa delle 11 pronunciò un’omelia durissima: "chi usa violenza è paragonabile a una bestia", affermò rosso in faccia, visibilmente scosso. E aggiunse che se c’era qualcosa da dire dovevano rivolgersi a lui e non ad altri. Mentre parlava, m’accorsi che seduti su una panca stavano alcune persone che non avevo mai visto prima in parrocchia. Capii che la situazione era grave. Poi si andò a pranzare in un luogo appartato in campagna e si parlò a lungo: decidemmo di andare avanti». 

- Anche contro le sue disposizioni?


«Sì, voleva che non lo accompagnassimo più alla sera tardi. Ma chi di noi poteva abbandonarlo?».  

- A lei disse qualcosa in particolare?


«Sì, un giorno, quando ormai era chiaro che la mafia gli aveva dichiarato guerra, mi prese in disparte e mi chiese calmo: "Se dovesse succedermi qualcosa, ti prego di non lasciarmi solo e di trattarmi bene". Si riferiva al suo corpo una volta ammazzato, visto che io avevo l’accesso all’istituto di Medicina legale e alle autopsie giudiziarie».  

- E poi venne il 15 settembre 1993.

«Seppi dell’assassinio la mattina dopo, da mio fratello. Rimasì lì attonito ripetendo "troppo presto, troppo presto". Mi precipitai all’istituto di Medicina legale, nonostante tutti me lo sconsigliassero. Lì avevano assassinato nel 1982 il luminare della medicina legale Paolo Giaccone, che aveva rifiutato di aggiustare una perizia che incastrava un killer mafioso, poi condannato. Volevo assolutamente raggiungere la sala autoptica». Qui si rompe la voce per la commozione.  

- Che ricorda?


«Il corridoio antistante e la cella frigorifera. C’era la bara di legno aperta con dentro il corpo nudo del sacerdote. Scoppiai a piangere non so per quanto tempo. Fu uno dei momenti più difficili della mia esistenza. Ma non volevo farmi vedere così, per non deprimere i suoi ragazzi. Assistetti all’autopsia giudiziaria, come avevo promesso a padre Pino. Ma ricordo poco o nulla perché è come  avessi chiuso tutto dentro il cuore. So solo che lo ripulii pietosamente dopo l’autopsia».

- All’inizio dell’estate del 1995 lei entrava nel programma di protezione a seguito delle sue testimonianze contro mandanti ed esecutori dell’omicidio. Aveva solo 25 anni. Che cos’è cambiato per lei?


«Tutto. Mi hanno fatto scomparire. Dopo due mesi e mezzo ero già fuori dalla mia regione ed è iniziata una vita oscura, fatta di disagi, trasferimenti, cambio d’identità, impossibilità di esercitare i miei diritti civili, come quello del voto, e di usufruire dei servizi essenziali, come quello sanitario. Una non-vita, insomma».

- Tornando indietro sceglierebbe di nuovo di fare il testimone di giustizia?


«Sì. So bene quanto ciò mi sia costato e quanto mi costerà. Ma ho fatto una scelta libera, di coerenza. E le ragioni che trovo per confermarla ogni giorno sono il volto e le parole di padre Puglisi».

- Ma lei non può raccontare alle persone che frequenta quotidianamente della sua esperienza trascorsa accanto a questo straordinario prete…


«Vero. Sono condannato ad essere l’uomo qualunque. Ma posso fare in modo che nel mio lavoro, quanto insegnatomi da padre Pino trovi braccia e gambe. E poi, ogni tanto posso parlare, tornando ad  essere Giuseppe Carini: per esempio, quando incontro un amico testimone di giustizia».   

- Il più grande insegnamento di padre Pino?


«Ricordo una sua frase: "Cristo è morto per noi quando noi eravamo suoi nemici. E’ l’amore oltre ogni limite. È il motivo della nostra gioia. Posso toccare la sua fede con queste parole. E ciò mi basta"». 

Alberto Laggia

 

4. Uno dei due killer, Salvatore Grigoli: «Gli sparai, lui sorrise»

 

Nel settembre 1999 l'assassino di don Puglisi, Salvatore Grigoli, allora detenuto nel carcere di massima sicurezza di Alessandria, parlò per la prima e ultima volta di quell'omicidio. Ne riproponiamo il testo.

Spunta all’improvviso nella penombra del parlatorio. È vestito di nero:  nero il suo pullover, i suoi jeans, le sue scarpette di vernice. In una stanza di un carcere di massima sicurezza Salvatore Grigoli soppesa le parole e le pronuncia con sofferenza. È stato uno dei killer più spietati di Cosa nostra: ha confessato 46 omicidi, è implicato nelle stragi di Firenze, negli attentati di Roma, in quello ai Parioli ai danni di Maurizio Costanzo. Ed è l’autore dell’assassinio che gli ha cambiato la vita, quello di don Pino Puglisi, il parroco di Palermo ucciso il 15 settembre di sei anni fa davanti alla porta di casa. Un assassinio che, racconta, «ci sembrò subito come una maledizione, perché da allora cominciò ad andarci tutto storto». Quella che segue è la cruda testimonianza di un uomo di 36 anni che ha deciso di collaborare con la giustizia dopo l’arresto di due anni fa. E che dichiara il suo pentimento.

-Quando sentì per la prima volta il nome Puglisi?
«Quando mi hanno comunicato che doveva morire, un paio di giorni prima di ucciderlo».

-Perché era stato dato quell’ordine?
«C’era la convinzione che il Centro Padre nostro, da lui creato, fosse un covo di infiltrati della polizia. Poi si scoprì che non era vero. Ma innanzitutto perché nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva questo suo fascino, soprattutto i giovani».

-C’era qualche frase in particolare?
«Non so se c’era una frase particolare, anche perché a noi le cose ce le riferivano. I Graviano (i fratelli Filippo e Giuseppe, boss di Brancaccio, accusati di essere i mandanti, ndr) non andavano alle sue messe. Erano cose che gli venivano raccontate. Ma Cosa nostra sapeva tutto, pure che continuava ad andare in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e il recupero degli scantinati di via Hazon, che voleva fare requisire, il Comitato intercondominiale, le prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare».

-Prima dell’omicidio ci furono le vostre intimidazioni: l’incendio alle porte di casa dei membri del Comitato, le minacce, il pestaggio di un ragazzo. Puglisi era cosciente dei rischi?
«Lui aveva capito certamente da dove arrivava il messaggio. Noi facevamo questi attentati per allontanare da Brancaccio don Pino e la gente che lo appoggiava. Infatti un paio se ne andarono. Ma Puglisi continuava a fare quello che aveva sempre fatto, parlare contro la mafia...».

-Un delitto annunciato.
«Sì, anche perché lui rimase solo. Secondo me, si poteva salvare. Se lo Stato lo avesse protetto, ad esempio. E così successe quello che è successo».

-E arrivaste a quella sera.
«Lo avvistammo in una cabina telefonica mentre eravamo in macchina. Andammo a prendere l’arma. Toccava a me. Ero io quello che sparava».

-Era nervoso, guardingo?
«No. Era tranquillo. Che era il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza (un componente del commando che lo uccise, ndr) gli tolse il borsello e gli disse: padre, questa è una rapina. Lui rispose: me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso».

-Il sorriso di un santo?
«Non ho esperienza di santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».

-È vero che si vantò di essere l’omicida di Puglisi?
«È assolutamente falso. Io non avevo assolutamente nulla di cui vantarmi: se in Cosa nostra fosse stato consentito giudicare un omicidio, io l’avrei criticato».

-Quell’omicidio fece molto clamore, fin dal giorno dopo. Che effetto vi fece i giorni seguenti?
«Nessun effetto».

-E le manifestazioni antimafia per le vie di Brancaccio, un mese dopo?
«Cominciammo a capire che non era stata una cosa utile per noi. Anzi, aveva peggiorato la situazione. Una specie di autogol. A quel punto abbiamo scelto il silenzio. E poi cominciarono i problemi, e tra di noi, lo commentavamo come una maledizione».

-Cosa nostra rispettava i preti, quello era il primo omicidio del dopoguerra.
«Per Cosa nostra la Chiesa era quella che, se c’era un latitante, lo nascondeva. Non perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno. Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni».

-Lei è a conoscenza di qualche latitante nascosto da sacerdoti?
«No, però si sapeva nell’ambiente, che in passato era avvenuto».

-E la Chiesa di Puglisi?
«La Chiesa di Puglisi era una Chiesa diversa».

-Ricorda le parole del Papa ad Agrigento contro i mafiosi, nel 1993?
«Vagamente, io allora ero un mafioso. Mi toccò molto di più una lettera pubblicata sul Giornale di Sicilia da alcuni giovani che mi invitavano al pentimento».

-Ma nell’ambiente di Cosa nostra che effetto fecero le parole del Papa?
«Si vociferava che la Chiesa cominciava ad essere diversa».

-Le bombe in Laterano furono messe per questo?
«No. Era tutta un’altra storia. Rientra in una strategia stragista di Cosa nostra contro le istituzioni».

-Lei è accusato di un delitto orribile e odioso: il rapimento del figlio del pentito Di Matteo, sequestrato per lungo tempo, ucciso e poi sciolto nell’acido per ritorsione contro il padre.
«L’ho conosciuto bene quel bambino. Madonna mia, era un ragazzo pieno di vita... Cosa nostra mi ha tradito: mi avevano detto che lo dovevamo tenere per un paio di giorni e basta, fino a quando il padre ritrattava. E invece... Ho fatto cose che non si possono giustificare, ma questa... questa è stato il motivo del mio pentimento. Non gliel’ho potuta perdonare».

-Ci sono mafiosi religiosi in Cosa nostra?
«Il novanta per cento dice di credere in Dio. Uno dei miei coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad ammazzare qualcuno. A me questa cosa mi dava fastidio: ma che aiuto ti può dare Dio, che andiamo ad ammazzare?, gli dicevo io. Ho sentito dire che Giuseppe Graviano qualche volta andava a messa. È gente che legge la Bibbia. La Bibbia la leggevo anch’io, da latitante. Mi piaceva leggerla. La leggevo allora e la leggo adesso da credente. Perché è quando sei solo che cominci a riflettere. Perché loro ti inculcano questa cultura: che tutto quello che fa Cosa nostra è giusto».

-Che passi della Bibbia ama leggere?
«La vita di Cristo sulla terra».

-Lei dice di essersi convertito.
«Vede, io c’ho questa convinzione: che a me non mi crederà nessuno. Io sto cambiando, devo cambiare, ma voglio che siano i fatti a far parlare me. Mi piacerebbe essere a Palermo il 15 settembre per l’anniversario della morte di Puglisi. Ma a me queste cose non piace dirle, perché penseranno che sono un ipocrita. Lo Stato poi dovrebbe aiutare chi può cambiare. In questo carcere, ad esempio, mi hanno negato persino un prete. Come si fa a cambiare? Per cambiare bisogna essere aiutati. Per questo sono molto grato a padre Mario, una persona squisita».

-Padre Mario Golesano, il parroco di Brancaccio che ha sostituito Puglisi.
«Sì, io gli devo moltissimo, non mi ha mai abbandonato. Lui mi ha scritto per primo. Ho provato un’emozione intensa nel ricevere quella lettera. Mi scriveva di quanto era bello sentire il pane profumato, faticato, sudato, guadagnato con i sacrifici. Di sentire la gioia dei miei bambini. La gioia che io ho tolto a tanti bambini. Il mio rammarico è quello di aver tolto tanti padri ai loro figli».

-Un profumo che a Brancaccio non sentì.
«Lì fin da bambini si comincia a sentire il fascino degli uomini di rispetto».

-Lei ha scritto anche una lettera aperta al sindaco di Palermo, Orlando.
«Come rappresentante della cittadinanza. Ho invitato chi è in Cosa nostra a cambiare, a seguire lo stesso cammino che sto facendo io. Conosco i miei coimputati e sono convinto che alcuni di loro potrebbero cambiare. Anche se è difficile, perché Cosa nostra ti inculca che tutto è giusto, che lo Stato è il nemico numero uno, che i magistrati sono dei mostri, che Falcone e Borsellino sono i nemici numero uno di Cosa nostra».

-Cosa nostra a Palermo è ancora potente?

«Non vorrei che si finisse come a Napoli, in un gruppo di clan in cui il primo che si sveglia spara. Almeno Cosa nostra manteneva l’ordine. Cosa nostra in questo momento è in ginocchio. E l’arma è quella dei collaboratori di giustizia. Chi lascia che vengano denigrati fa un grosso sbaglio».

Francesco Anfossi
(Famiglia Cristiana
numero 36, 12-9-1999)

 

5. Biografia e pensieri, è boom in libreria

 

A venti anni dalla morte, la letteratura su don Pino Puglisi conta ormai decine di volumi (più centinaia fra articoli, siti web, documentari televisivi e film).  Famiglia Cristiana celebra l’uomo che ha sfidato la mafia con due importanti opere. La biografia ufficiale scritta da monsignor  Vincenzo Bertolone, postulatore della sua causa di beatificazione e il dvd del film Brancaccio, liberamente ispirato alla vicenda del parroco palermitano. Due opere di valore per mantenere vivi gli ideali di don Pino Puglisi. Il tutto a 12,90 euro in più rispetto al prezzo della rivista. Le due opere sono acquistabili anche online.

Ma vale la pena di ricordare anche altri due saggio usciti in occasione della beatificazione del sacerdote. Il primo , a cura di Augusto Cavadi, Francesco Palazzo, Rosaria Cascio ha un titolo un po’ provocatorio (“Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia”, edizioni  Di Girolamo) Francesco Palazzo, che ebbe modo di conoscere don Puglisi da giovane parrocchiano di San Gaetano a Brancaccio, racconta che cosa è stato quel difficile quartiere nei decenni precedenti al suo insediamento: in quale tessuto sociale, in quale contesto economico, in quale clima culturale don Pino si sia inserito e quali scelte abbia operato nei pochi anni del suo apostolato.

Nella seconda parte Augusto Cavadi, docente, giornalista e teologo, che incontrò don Puglisi in varie occasioni e che negli stessi anni era impegnato nel Centro sociale “San Francesco Saverio” all’Albergheria, operante in un altro difficile quartiere della città, avanza alcune riflessioni teologiche sul significato del suo martirio per la comunità cattolica e, più ampiamente, per la comunità civile. Infine Rosaria Cascio, che è stata alunna di don Puglisi, si è formata sotto la guida di Treppì e ha fondato l’Associazione “Si, ma verso dove?”, delinea i tratti essenziali del “Metodo Puglisi” rintracciabile, come un unico filo rosso, nelle diverse tappe della sua vita di presbitero. Una biografia molto utile a comprendere l’uomo e il sacerdote Puglisi è senza dubbio quella di Mario Lancisi (Don Puglisi. Il Vangelo contro la mafia, Piemme). Tra l’altro contiene una ricostruzione molto accurata dei suoi ultimi giorni a Brancaccio, alla vigilia dell’assassinio e una prefazione di don Ciotti, che ci illumina sul ruolo storico della Chiesa contro la mafia. 

Francesco Anfossi

Dossier a cura di Alberto Chiara e Antonio Sanfrancesco

© Famiglia Cristiana, 25 maggio 2013

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