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E risuonò l'allarme nella casa del giudice

I racconti del buonumore 24

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Andato in pensione, il presidente di tribunale Inigo Metallici si trasferì dalla casa di città a quella di campagna. Voleva tagliare col passato e iniziare una nuova vita. Aveva trascorso anni nelle grigie aule delle condanne e delle assoluzioni, di fronte a delinquenti di varia estrazione e i loro avvocati. La villa si trovava immersa nel verde, assai lontana dalle abitazioni del circondario. Sia lui sia la moglie  temevano i ladri, o meglio i rapinatori, e dotarono villa e giardino di un impianto di allarme, collegato a un istituto di polizia privata.

La loro figlia non aveva di questi timori, e andava e veniva a ogni ora della notte. Inigo la sospettava di essere cleptomane. Sovente portava a casa deodoranti da bagno con boccette iniziate, profumi e creme, libri dei mercatini dell’usato e cianfrusaglie varie. Dalle conversazioni al telefono con le amiche gli era sembrato di intendere che si trattava di merce rubata per diletto, e la frase ricorrente era: «Non sai quanto mi sono divertita!». Inigo temeva che, prima o poi, qualche addetto alla sorveglianza la cogliesse in flagrante. Doveva farle capire di smetterla. Ma la moglie ne avrebbe preso le difese, gridando con voce stridula e sussulti in tutto il corpo. Lui allora, gambe corte e tronco lungo, si sarebbe mosso per la casa, le mani dietro la schiena e lo sguardo rivolto al soffitto. Tratteneva l’ira. Era pur sempre un uomo delle istituzioni, e non doveva scomporsi. Il medesimo che, in piedi dietro la cattedra nell’aula di giustizia, emetteva  condanne di fronte agli sguardi bassi degli imputati, e quelli sprezzanti di difensori e testimoni. I quali, più che ascoltare le sue sentenze, gli pareva volessero scoprire perché, seduto, era normale, e in piedi così piccolo. In campagna avrebbe visto e incontrato meno gente, e non sarebbe stato deriso della sua statura né di avere una moglie obesa al punto che, quando rideva, sembrava piangesse. La figlia era invece alta, magra, i capelli scuri e ricci, lo sguardo acceso, non si capiva, se di curiosità o di rivalsa contro il mondo. Superato l’esame di maturità, intendeva iscriversi a lettere. Le loro conversazioni finivano, sovente, in lite. La ragazza gli rimproverava di fare il giudice anche in famiglia.

In quei giorni, di un’estate assai torrida, la vita sarebbe andata avanti come al solito, non avesse cominciato a scattare l’allarme collegato all’istituto di polizia. Giorno e notte la sirena entrava in funzione, riversando nelle stanze un suono acuto e tagliente. Inigo, preoccupato, correva a sprangare le finestre a piano terra e metteva il chiavaccio alla porta d’ingresso. Temeva che qualche ladro stesse facendo prove allo scopo di valutare la sua reazione. Intanto giungeva la pattuglia; aria annoiata, se non scortese, a piedi, le guardie facevano il giro attorno casa, per dire poi che era tutto a posto.

Lui, dall’abbaino sul tetto, una sorta di torretta da cui poteva vedere i dintorni, ne seguiva i movimenti. Di lassù salutava e ringraziava, senza mai mostrarsi. Cosa che impose anche a moglie e figlia. Le guardie non dovevano prendere dimestichezza con l’utente, ma svolgere il proprio compito. Gli scatti dell’allarme, specie di notte, cominciarono a essere frequenti. Una di queste, dalla centrale operativa dell’istituto, telefonò una voce eccitata e autoritaria, chiedendogli se fosse tutto regolare.

Tono duro e stentoreo di quando emetteva condanne, replicò che dovevano accertarlo loro, con la verifica. La voce arretrò, divenendo mite e adulatoria. Giunti i vigili, Inigo avrebbe voluto che la moglie li sorvegliasse insieme a lui mentre perlustravano, al buio, il giardino e il perimetro della casa con le torce. Ma lei non se la sentiva di salire fino all’abbaino, infilandosi lungo le strette scale; lui non insistette. Un paio di volte, in casa e nel verziere, era rotolata a terra; e alzarla non era stato affatto agevole. Meglio continuasse a dormire e ronfare. Al mattino avrebbe raccontato i suoi sogni. Incubi di gravidanze interrotte e aggressioni di ladri. Una veggenza. Infatti, nei giorni  seguenti i proprietari di una villa vicina furono assaliti e percossi da una banda, poi derubati dei beni in cassaforte e la loro figlia abortì per lo spavento. Inigo non ebbe più dubbi: l’allarme era fatto scattare a bella posta dai criminali affinché lo disinserisse per  poter così entrare in azione. Ma lui non avrebbe ceduto, restando più che mai accorto. Per meglio sincerarsi che l’impianto non avesse deficienze, convocò il tecnico. Il quale lo rassicurò: il funzionamento era perfetto, e gli scatti dovuti a fattori di intrusione, forse bestie.

Di giorno, la sirena suonava nei momenti più assolati e solitari. Di notte, cominciava di prima sera per proseguire, con intervalli, fino all’alba. Gli abitanti del circondario, disturbati, non avevano mancato di inoltrare le loro proteste ai vigili urbani e ai carabinieri. Le guardie facevano giri sempre più veloci e distratti: quello del giudice era stato catalogato falso allarme. Una notte, verso le quattro, la pattuglia non svolse il controllo in coppia. Uno rimase in macchina.
Dall’abbaino, il giudice ne chiese il motivo all’altro. Questi rispose che il collega si era trattenuto a compilare la relazione. Sennonché, d’improvviso, sceso come chi si desta di soprassalto, barcollante e sbracato, chiese cosa stesse accadendo.

Comportamento che indignò il giudice. Ma la sirena dell’allarme tornò a sibilare, stavolta non sollecitata dalle barriere del giardino, ma dall’interno della casa. In slip e canottiera, Inigo prese a perlustrare le stanze. Arrivato alla porta della taverna, al pianterreno, dove d’estate mangiavano, si fermò a guardare dalla finestrella. Nella penombra scorse qualcosa di irsuto muoversi sulla tavola. Una volpe, dalla lunga coda, il muso a punta fiutava le rimanenze del cibo. Inigo non fu capace di muovere ciglio. La volpe, divorata la pasta della figlia, passò all’osso di bistecca della moglie, che spolpò con delicatezza, reggendolo con la punta delle zampe anteriori. Ultimo mangiò il dolce di mele, lasciato da lui. Il tutto senza spostare niente, né rovesciare a terra le stoviglie come avrebbe fatto un cane. Mentre mangiava il dolce, aveva aperto e chiuso gli occhi, come per chiedergli intesa e complicità. Poi, con un balzo leggero, scesa sul pavimento disparve. Cercatala tutto il giorno, non fu capace di trovarla. In qualche angolo avvertiva, appena, un odore selvatico. Finché, verso sera, spalancate le porte per cambiare aria, scattò l’allarme in giardino, lato bosco. Sua figlia, al telefono con un’amica, gli disse d’aver veduto un’ombra, raso terra, traversare il prato.
 

Vincenzo Pardini
 

© Avvenire, 29 agosto 2012

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