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II Domenica di Quaresima anno B. Ascoltate lui, il Figlio amato!

Nel mistero della trasfigurazione risuona l’invito decisivo per ogni discepolo di Gesù: occorre ascoltare lui, il Figlio, non le proprie paure, non i propri desideri, non le proprie immagini e proiezioni su Dio. Ormai anche per vedere e ascoltare Dio occorre vedere e ascoltare Gesù.

La seconda domenica di Quaresima è tradizionalmente la domenica della trasfigurazione di Gesù, ovvero il polo opposto alla prima, dedicata alle tentazioni di Gesù. Quest’anno leggiamo il racconto presente nel vangelo secondo Marco, e siccome abbiamo commentato ormai tantissime volte l’inesauribile mistero della trasfigurazione del Signore, ci prenderemo anche un po’ di libertà, per dire qualcosa su alcuni interventi critici riguardo al linguaggio e allo stile di papa Francesco.

Ma iniziamo con il contestualizzare l’evento: un evento storico, non un mito! Al centro del vangelo Gesù ha fatto per la prima volta alla sua comunità l’annuncio della sua passione, morte e resurrezione ormai prossime, suscitando l’incomprensione da parte di Pietro (cf. Mc 8,31-33), e ha anche detto con forza alla folla che la sequela deve passare attraverso la croce (cf. Mc 8,31-37). Il discepolo di Gesù non può pensare di essere esente dalla croce, non può rifiutarla come scandalo e vergogna, perché, se si vergognerà di Gesù crocifisso, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui alla sua venuta gloriosa (cf. Mc 8,38). Venuta gloriosa che chiuderà la storia, ma della quale – annuncia Gesù stesso – alcuni potranno vedere un’anticipazione (cf. Mc 9,1).

“Sei giorni dopo” queste parole, dunque nel settimo giorno, “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni”, i discepoli a lui più vicini e intimi (testimoni della resurrezione della figlia di Giairo: cf. Mc 5,37; testimoni dell’agonia di Gesù, della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani: cf. Mc 14,33), “e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”. Ed ecco il grande mistero: Matteo scrive che “il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2), Luca che “l’aspetto del suo volto divenne altro” (Lc 9,29). Marco invece è molto discreto, ci dice solo che Gesù “fu trasfigurato (metemorphóte) davanti a loro”, per un’azione divina (espressa al passivo), e così “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime, tanto che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”.

Ciò che è avvenuto è indicibile, chi può descriverlo adeguatamente? Qui Marco, affinché il lettore comprenda la straordinarietà dell’evento, si serve di un’immagine efficace, espressa in modo semplice, in vernacolo, facendo uso di uno stile che ci può anche sorprendere. L’evangelista più antico parla un greco semplice, non padroneggia questa lingua in modo tale da renderla elegante, come invece fa Luca, e per questo si serve del paragone, appena citato, con il lavoro del lavandaio. Certamente i tre evangelisti sinottici, pur con le loro differenze di stile, non sapevano narrare la trasfigurazione di Gesù con la profondità teologica dei padri della chiesa greca, quando leggeranno questo bianco splendente come “energie increate” presenti nel corpo di Gesù, il Figlio di Dio. Tuttavia il messaggio di Marco ha la stessa qualità teologica degli altri due, e la teofania da lui presentata non risulta più povera o mancante.

Evidenzio questo, pensando al modo di esprimersi di papa Francesco, criticato e spesso anche disprezzato perché a volte si esprime effettivamente in vernacolo, in modo da essere capito da tutti, servendosi di un linguaggio semplice, lontano dal dettato di una lezione teologica. Attenzione, dunque, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (Mc 4,9), come Gesù ha più volte ripetuto…

Il bianco è la luce, è il colore del mondo celeste (cf. Dn 7,9), del cielo aperto, e niente sulla terra gli si avvicina. Anche gli angeli della resurrezione (cf. Mc 16,5 e par.; Gv 20,12) e quelli dell’ascensione al cielo, secondo l’iconografia tradizionale, sono vestiti di bianco. Insomma, luminosità straordinaria! Gesù appare dunque trasfigurato, e dal suo corpo emana luce, come la emanava il volto di Mosè (cf. Es 34,29-35), come la emana il Figlio dell’uomo nelle visioni apocalittiche di Giovanni (cf. Ap 1,12-16). Accanto a Gesù “apparve Elia con Mosè, e conversavano con Gesù”: la Profezia e la Legge, delle quali Gesù è interprete e compimento.

Di fronte a tale “visione”, Pietro parla in modo inappropriato, balbetta, non sa cosa dire, se non che occorrerebbe fermare, arrestare quell’evento, renderlo definitivo. Così tutto sarebbe compiuto senza la passione e la croce… Ma questo “congelamento” dell’esperienza non è possibile, e infatti una nube luminosa copre tutti i presenti, mentre una voce proveniente da essa proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Dt 18,15). Se al battesimo la voce del Padre era risuonata solo per Gesù (cf. Mc 1,11), qui invece la rivelazione è anche per i tre discepoli. E l’invito è quello decisivo per ogni discepolo di Gesù, di ogni tempo: occorre ascoltare lui, il Figlio, che è il Kýrios, il Signore! Ascoltare lui, non le proprie paure, non i propri desideri, non le proprie immagini e proiezioni su Dio. Sì, anche per vedere e ascoltare Dio (“Shema‘…”: Dt 6,4) ormai occorre vedere e ascoltare Gesù.

E subito dopo nessuna luce, nessuna voce, nessuna presenza: solo Gesù con i tre discepoli, Gesù con loro come lo era stato sempre. Un uomo, un compagno che scende dal monte per compiere il suo cammino verso Gerusalemme, verso la morte che attende ogni giusto, ogni vero figlio di Dio.

Enzo Bianchi

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