Il tempo delle parole è scaduto: agire subito per i bambini del Sahel
2005, 2009, 2010. Anni che le popolazioni del Sahel, la grande fascia semi-desertica che corre, in Africa, dal Senegal all’Eritrea e quindi dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, non possono dimenticare, perché segnati da alcune delle più spaventose carestie che la storia moderna ricordi.
Date che rammentano loro un altro dato terrificante: a dispetto delle analisi più raffinate e degli allarmi più precoci, le crisi agricole e alimentari si fanno ancora più frequenti e l’intervallo tra l’una e l’altra sempre meno ampio. Non c’è molto da imparare, ormai, sulla meccanica di queste emergenze. A innescarle, in queste regioni dell’Africa, è sempre la stessa combinazione di fattori: piogge ridotte, esaurimento delle scorte d’acqua, malattie del bestiame.
E quindi devastazione della poca vegetazione, dispersione della pastorizia, immiserimento dell’agricoltura. Così, nel Sahel, il raccolto di cereali è calato bruscamente del 25% tra 2010 e 2011 e la gente ormai sopravvive consumando le ultime scorte. Se a questo si aggiunge il ritorno in patria di migliaia di lavoratori che da Paesi come Niger e Senegal erano emigrati in Libia, e quindi la fine di preziose rimesse in contanti, diventa facile capire le previsioni che parlano di milioni di persone (da 5 a 7, secondo le fonti, e tra loro almeno un milione di bambini) a rischio di morte per fame nei prossimi mesi.
Il tempo dei pronostici, però, è già finito. Ora conta solo muoversi e attrezzarsi: creare scorte di cereali e acqua, preparare ambulatori mobili. E organizzarsi per ridurre gli effetti di una crisi umanitaria che, per le condizioni in cui rischia di esplodere, potrebbe anche trasformarsi in qualcosa di assai più drammatico e complicato. A Est, laddove il Sahel comprende vaste aree di Sudan ed Eritrea, si potrebbe creare una saldatura con l’analoga crisi in corso già da molti mesi nel Corno d’Africa. Qui è già difficile intervenire ora, a causa delle violenze in Somalia e altrove. Domani potrebbe essere impossibile, considerata la natura del regime eritreo.
Procedendo verso Ovest, in Paesi come Ciad, Niger, Mali e Mauritania, i convogli dei soccorsi potrebbero diventare un ghiotto obiettivo per le incursioni dei predoni che, negli ultimi anni, hanno messo a segno decine di rapimenti e scorrerie a scopo di riscatto. Attività criminali che hanno spesso rivelato la firma dell’Aqmi (al-Qaeda nel Maghreb Islamico), gli epigoni di Osama Benladen che hanno messo a segno molti colpi feroci nell’Africa del Nord.
Nel 2011, l’Aqmi è stato molto ridimensionato dalle forse dell’ordine locali e dalla preziosa attività di intelligence di alcune polizie occidentali. I terroristi superstiti, però, hanno cominciato a migrare verso Sud, attraversando proprio il Sahel per approfittare della rete di basi e appoggi di cui godono appunto i predoni e altri gruppi dell’islamismo armato come Boko Haram in Nigeria. Stazionano, insomma, proprio nelle aree che saranno più colpite dalla crisi alimentare, si nascondono nelle città dove più massiccio sarà l’afflusso dei profughi scampati al disastro delle campagne.
Il potenziale distruttivo di una simile situazione è più che evidente. Non resta che agire e, fin dove lo permetterà la difficile situazione economica che investe anche i nostri Paesi, intervenire per aiutare le organizzazioni umanitarie che già si stanno muovendo. Un buon esempio, quanto a prontezza, lo ha dato una volta tanto l’Unione Europea, che ha versato 10 milioni all’Unicef che, a sua volta, ne chiede 51 per provare a salvare un milione di bambini. Il tempo, almeno quello delle parole, è già scaduto.