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La Cei sul fine vita: «No a polarizzazioni o giochi al ribasso»

Netta presa di posizione della Presidenza dei vescovi italiani sulla norma appena approvata in tema di suicidio assistito: «Non smarrire l'umanità». Il richiamo sulle cure palliative

«Preoccupazione» per le recenti iniziative regionali sul tema del fine vita. Perché «sulla vita non ci possono essere polarizzazioni o giochi al ribasso. La dignità non finisce con la malattia o quando viene meno l’efficienza. Non si tratta di accanimento, ma di non smarrire l’umanità». È netta la posizione che la Conferenza episcopale italiana esprime nella Nota pubblicata alla fine della riunione di Presidenza che s'è svolta stamane presso la sede di Circonvallazione Aurelia 50. Al centro dell'attenzione ci sono «recenti iniziative regionali sul tema del fine vita. Da ultimo, l’approvazione nei giorni scorsi della legge sul suicidio medicalmente assistito da parte del Consiglio Regionale della Toscana».

 

«Ricordiamo - proseguono i vescovi - “che primo compito della comunità civile e del sistema sanitario è assistere e curare, non anticipare la morte” (Conferenza Episcopale del Triveneto, 2023). Anche perché “procurare la morte, in forma diretta o tramite il suicidio medicalmente assistito, contrasta radicalmente con il valore della persona, con le finalità dello Stato e con la stessa professione medica” (Conferenza Episcopale dell’Emilia- Romagna, 2024). Invitiamo dunque a non fare “di questo tema una questione di schieramento, ma un’occasione per una riflessione profonda sulle basi della propria concezione del progresso e della dignità della persona umana” (Conferenza Episcopale della Toscana, 2025), avviando “un ampio confronto parlamentare che rappresenti il Paese e le reali necessità dei suoi cittadini, scevro da logiche di parte e possibili strumentalizzazioni” (Conferenza Episcopale della Puglia, 2022)».

L'auspicio della Cei è che nell’attuale assetto giuridico-normativo «si giunga, a livello nazionale, a interventi che tutelino nel miglior modo possibile la vita, favoriscano l’accompagnamento e la cura nella malattia, sostengano le famiglie nelle situazioni di sofferenza». Con un punto fermo: «Che la legge sulle cure palliative non ha trovato ancora completa attuazione: queste devono essere garantite a tutti, in modo efficace e uniforme in ogni Regione, perché rappresentano un modo concreto per alleviare la sofferenza e per assicurare dignità fino alla fine, oltre che un’espressione alta di amore per il prossimo».

© Avvenire, mercoledì 19 febbraio 2025

Analisi. La morte come alternativa ordinaria alla cura:

ma che sanità è?

Uno dei punti cruciali in cui la legge toscana ha invaso le prerogative del Parlamento riguarda la fase della prestazione assistenziale al suicidio assistito. Su questo punto, occorre chiarire subito che la Corte costituzionale nella sentenza 242/2019 non ha dato alcuna indicazione, anzi ha affermato con chiarezza che non esistono obblighi per i medici e, come ovvia conseguenza, non esistono obblighi per il servizio sanitario di cui i medici rappresentano l’architrave. La Corte si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, rimanendo «affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (sono parole della Corte).

La legge toscana disattende totalmente tale indicazione e richiede – con fredda nomenclatura burocratica – che l’erogazione del trattamento di suicidio medicalmente assistito “deve” essere supportato dal medico, salvo poi a precisare che tale assistenza è su base volontaria. Si ha dunque ben chiaro cosa dice la Corte ma allo stesso tempo se ne forza il contenuto finendo con l’apprestare un vero e proprio protocollo “sanitario” del suicidio assistito. In particolare, il testo regionale assegna all’azienda sanitaria locale il compito di assicurare supporto tecnico, farmacologico e assistenza sanitaria necessari per la preparazione all’autosomministrazione del farmaco letale.

Tale dettato normativo del Consiglio regionale toscano esorbita dalle proprie competenze territoriali e interpola il dettato della Corte, la quale – anche qui occorre ricordarlo – non ha generato un nuovo diritto e cioè un diritto all’assistenza sanitaria in caso di suicidio per motivi di malattia ma, come detto, ha escluso in taluni casi la punibilità.

Si tratta di situazioni del tutto particolari, se non eccezionali, e tali devono restare onde evitare che si dia luogo a una sorta di secondo binario parallelo, rispetto a quello terapeutico e palliativo, verso gli stati di malattia grave o, comunque, alla fase della vita che si avvicina al momento della morte. Il tema è fondamentale e proprio su questo il Parlamento sta discutendo in Senato. Il ruolo del Servizio sanitario in materia di assistenza al suicidio del paziente non può dunque travalicare i confini segnati dalla Corte Costituzionale.

La normativa regionale toscana finisce invece col disegnare – indebitamente – un nuovo modello di Servizio sanitario presso il quale, parallelamente, alcuni malati sono assistiti sul piano terapeutico e palliativo mentre altri, nelle medesime condizioni, sono aiutati a porre termine alla loro vita: come se si trattasse di percorsi ordinari fra loro alternativi. Con l’effetto che le strutture ospedaliere toscane rischino di smarrire la plurimillenaria percezione sociale di luoghi di contrasto delle patologie e delle sofferenze, vale a dire di tutela della salute.

Se all’interno dei presìdi ospedalieri si aprisse a protocolli sanitari come quello tracciato dalla legge toscana, con quale spirito i pazienti potranno affrontare una degenza, magari difficile e sofferta, avendo nella stanza accanto medici che procedono ad attuare un protocollo di assistenza ad un malato che si sta suicidando? In tutti i Paesi che hanno configurato protocolli di eutanasia, i numeri dei pazienti che vi hanno avuto accesso sono progressivamente cresciuti generando la convinzione sociale che a un certo punto è meglio per tutti non vivere più.

L’enfasi sul “diritto di morire” può facilmente trasformarsi in una sorta di “dovere morale di morire”: la prospettazione di un’alternativa ordinaria, per la persona seriamente malata, tra il porre immediatamente termine alla propria vita tramite un intervento farmacologico e il continuare a beneficiare di risorse medico-assistenziali rischia di far sì che questa seconda opzione si trasformi in una sorta di (costosa) pretesa soggettiva nei confronti delle pubbliche istituzioni, comportando un’implicita “colpevolizzazione” di chi la compie e dei suoi congiunti. Il Parlamento forse troverà altre soluzioni seguendo sempre i dettami della Corte – gratuità, garanzie e un medico volontario – ma lo faccia senza coinvolgere l’amministrazione sanitaria italiana vocata a curare e a somministrare terapie benefiche per il paziente.

La forma propria dell’intervento pubblico verso le condizioni di debolezza e di precarietà che sono parte dell’esistenza umana non può che rimanere l’investimento di risorse economiche e umane a beneficio di chi si trova in difficoltà, a cominciare da cure palliative e terapie del dolore, mai tanto indietro nel loro finanziamento. Non vorremmo che in nome della libertà e dell’autodeterminazione si finisse per distogliere l’attenzione, anche politica, alla centralità dei “diritti sociali” dei pazienti più fragili e vulnerabili. È dalla garanzia dei diritti degli “ultimi” che dipende il contrasto effettivo della sofferenza, fisica e morale, delle persone deboli e, per ampia parte, lo stesso non insorgere, nel malato, dell’intento di abbreviare attivamente il corso della sua vita.

Alberto Gambino

© Avvenire, venerdì 14 febbraio 2025

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