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La Parola di Dio, che opera la salvezza in chi l’ascolta, la crede e l’accoglie in sé

Gli esseri umani fin dal giardino dell’Eden sono chiamati ad entrare in relazione con Dio e rimanere in comunione con Lui tramite l’ascolto (Gen 2,16-17; 3,8.10); e se tale relazione si guastò è perché si preferì dare ascolto a qualcun altro (Gen 3,1-7.17). È tramite l’ascolto di Dio da parte di Abramo che si mette poi in moto la storia della salvezza e la Rivelazione. Essa fu poi messa per iscritto per essere continuamente letta e ascoltata in celebrazioni comunitarie. Ma le Sacre Scritture non andrebbero trattate semplicemente come fossero un codice legislativo, piovuto dal cielo, che ogni tanto consulto per sapere cosa devo o non devo fare per andare in Paradiso

In occasione della “Domenica della Parola”, che quest’anno cade il 22 gennaio, presento alcune riflessioni su due modi con cui il credente può (e deve) entrare in contatto, direi in relazione, con le Sacre Scritture.

  1.  L’ascolto comunitario/celebrativo della Parola.

La Parola di Dio va innanzitutto ascoltata. Uno dei verbi maggiormente presenti nella Bibbia è “ascoltare”; e il suo oggetto più frequente è di gran lunga Dio. Dio è una “persona” che parla. La frase più frequente che appare nelle Sacre Scritture è “Così dice il Signore”. E se Dio parla, lo fa perché sia ascoltato. Gli esseri umani fin dal giardino dell’Eden sono chiamati ad entrare in relazione con Dio e rimanere in comunione con Lui tramite l’ascolto (Gen 2,16-17; 3,8.10); e se tale relazione si guastò è perché si preferì dare ascolto a qualcun altro (Gen 3,1-7.17). È tramite l’ascolto di Dio da parte di Abramo che si mette poi in moto la storia della salvezza e la Rivelazione. Essa fu poi messa per iscritto per essere continuamente letta e ascoltata in celebrazioni comunitarie. Era chiaro un principio: “La Parola di Dio rimane in eterno” (Is 40,8; 1Pt 1,25). La Parola di Dio vale sempre, per ogni persona di ogni luogo e tempo. Con essa Israele sapeva di entrare continuamente in contatto con il suo Creatore e Salvatore e di poter mantenersi nella via della vita. D’altro lato, Israele ha dovuto imparare a sue spese che quando ciò non avveniva, quando tale ascolto non si realizzava, cadeva in balia dei suoi nemici. Così dopo l’esperienza tragica dell’esilio, la comunità mette al centro della sua nuova esistenza nella terra dei padri la lettura e l’ascolto celebrativo della Parola di Dio (Ne 8,1-12).

Le Sacre Scritture non andrebbero trattate semplicemente come fossero un codice legislativo, piovuto dal cielo, che ogni tanto consulto per sapere cosa devo o non devo fare per andare in Paradiso. Esse riportano innanzitutto una storia, la storia che Dio ha fatto con gli uomini e per gli uomini; la storia della loro – della nostra – salvezza, e “scritta per nostra istruzione” (1Cor 10,11). Ascoltare e accogliere quella Parola significa entrare a far parte di quella storia, significa ricevere la stessa salvezza. Così, dopo la predicazione di Pietro ad una folla in Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, coloro che “accolsero la sua parola” (At 2,41) “furono salvati” (At 2,47). La parola di Dio opera la salvezza in chi l’ascolta, la crede e l’accoglie in sé. E questo avviene innanzitutto e soprattutto in un contesto comunitario. Così fin da subito la comunità cristiana, fra le altre cose – e prima delle altre cose – “era dedita all’ascolto dell’insegnamento degli apostoli”, seguito poi dalla “frazione del pane” (At 2,42; 5,42).

Che la Parola di Dio abbia un’efficacia particolare soprattutto nel contesto comunitario-celebrativo lo dichiara esplicitamente la Costituzione Sacrosanctum Concilium: “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche […] È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (n. 7). Nella Santa Messa, sia domenicale che feriale, vi è una parte che si chiama “liturgia della Parola”. È il momento in cui, tramite la lettura dei testi biblici, Cristo si fa presente e ci parla. All’interno dell’assemblea ecclesiale è Cristo stesso, come nella sinagoga di Nazaret, che apre il libro, lo proclama e dice a ciascuno dei presenti: “Oggi si compie questa Scrittura nei vostri orecchi” (Lc 4,21). Ma ciò non ha un effetto automatico o magico. Il seme della Parola per portare frutto necessita di un terreno che la accolga (Mt 13,8.23). L’ascolto contiene un aspetto oggettivo e uno soggettivo. Da un lato occorre oggettivamente ascoltare la Parola. Se uno non è presente nel momento in cui “Cristo parla” (tramite un ministro) il discorso è chiuso. D’altro lato, soggettivamente occorre porsi veramente in un atteggiamento di ascolto, senza pensare ad altre cose, senza mettere filtri, senza supporre che si tratta di cose che già si sanno e non c’è niente di nuovo che posso acquisire. Occorre lasciare entrare in sé la Parola seminata.

Non tutti e non sempre, siamo consapevoli che mentre si leggono le Sacre Scritture nella Santa Messa, lì c’è Cristo stesso che parla. E non tutti e non sempre siamo consapevoli che la parola di Cristo ha un’efficacia salvifica. Abbiamo mai provato ad ascoltare la Parola di Dio nella Santa Messa come il centurione ascoltò Gesù e grazie a ciò il suo servo fu guarito? (Mt 8,5-13). Oppure come lo ascoltò il cieco che dopo aver fatto quanto Gesù gli chiese tornò che ci vedeva? (Gv 9,1-7). Certo, tanti hanno ascoltato Gesù parlare, ma la loro vita non è cambiata, non hanno ricevuto alcuna salvezza, perché non lo hanno preso seriamente. Ma quanti lo prendono seriamente, quanti ascoltano la sua parola come è veramente, cioè Parola di Dio che realizza quello che dice (“la Parola di Dio è viva ed efficace”: Eb 4,12), ricevono la salvezza, che si manifesta a volte in un cambio di vita (“va e d’ora in poi non peccare più”: Gv 8,11) e sempre in una pace interiore che il mondo non può dare. La parola di Dio trasmette la vita, ci rigenera (1Pt 1,23) ogni volta di più, e non smette di produrre i suoi frutti in chi la accoglie e la custodisce (1Ts 2,13).

Per questo il Concilio parla delle Sacre Scritture come di un cibo (quasi) alla pari di quello eucaristico: “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli” (Dei Verbum 21). Non c’è soltanto la mensa dell’altare dove la Chiesa offre ai suoi figli il cibo eucaristico; c’è anche la mensa – diciamo così – dell’ambone da dove si fornisce il pane della Parola. Un pane che permette di alimentare la vita di Cristo che si è ricevuta nel battesimo: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Come dice Gesù anche da un’altra parte: “Le parole che dico a voi sono Spirito e vita” (Gv 6,63). Questo si può capire nella misura in cui siamo consapevoli che esiste in noi uno spirito che necessita di nutrimento tanto quanto il nostro fisico. Come Gesù, anche noi abbiamo bisogno di “crescere in età, sapienza e grazia” (Lc 2,52), alimentando costantemente il nostro spirito con la grazia della Parola di Dio.

La qualità “nutritiva” della Parola si manifesta anche quando la frequentiamo privatamente, personalmente. Ma nel contesto ecclesiale-liturgico ha un carattere speciale. Quella Parola è il pane che Cristo stesso, presente nella sua chiesa e nei suoi ministri, ha preparato proprio quel giorno per i suoi discepoli. Una parola che è proclamata e interpretata, con un “carattere quasi sacramentale” (Aperuit Illis, 5). La Sua Parola è, in qualche modo, Lui stesso, perché Cristo è il Logos (Gv 1,1), l’eterna parola divina. Quel Logos uscito dalla bocca di Dio non torna a Lui senza frutto, senza aver prodotto ciò che Dio desidera (Is 55,11), cioè la nostra salvezza. Non dobbiamo pensare soltanto alla “salvezza eterna”. Esiste una salvezza di cui abbiamo bisogno qui e ora. È la salvezza dal tedio, dal non senso della vita che spesso ci afferra. È la salvezza da quel male che si chiama peccato e che si manifesta in tante nostre situazioni quotidiane di non amore. Da questo situazione Cristo ha il potere di salvarci, qui e ora; e lo fa tramite la sua Parola – presente nella chiesa, nella comunità cristiana – ascoltata, creduta e accolta.

  1. L’ascolto della Parola tramite la lettura e la meditazione personale.

L’ascolto della Parola di Dio è auspicabile anche tramite la lettura privata, personale, delle Sacre Scritture. Si tratta (innanzitutto) di una modalità di preghiera; non l’unica, fra le tante che ci offre la tradizione cristiana, ma senz’altro una delle più importanti. Parlo di “ascolto”, anche se si tratta di “lettura”, perché la preghiera (forse non sempre ce lo ricordiamo) è in primo luogo un ascolto, l’ascolto di Dio. Siamo noi che dobbiamo metterci ad ascoltare Dio, più che Lui ad ascoltare noi. Nella preghiera e nella lettura delle Scritture ci poniamo in ascolto di ciò che Dio ha da dirci. Un ascolto che va fatto “nello Spirito Santo”, sapendo cioè che occorre lasciarsi guidare da Lui nell’ascolto di Dio tramite la sua Parola. Pregare con le Scritture, nello Spirito Santo, significa porsi in quel semplice e umile atteggiamento di sincera ricerca della volontà di Dio; significa mettersi davanti a Dio con la domanda di san Francesco: Signore, cosa vuoi che io faccia?. E se è vero che le Scritture potrebbero essere male interpretate, figuriamoci quanto più lo possono essere i nostri sentimenti che non di rado ci fanno scambiare la volontà di Dio con la nostra. Nell’ascoltare Dio possiamo certamente anche interagire con Lui e dire la nostra … ci mancherebbe. Ma spesso basterebbe semplicemente ascoltarLo e tanti nostri dubbi, turbamenti, preoccupazioni, svanirebbero. Abbiamo bisogno che Dio ci parli molto più di quanto spesso ne siamo consapevoli.

Vi sono testi biblici che testimoniano come già nell’antichità si raccomandava di leggere e meditare la Parola di Dio (Dt 17,18; Gs 1,8; Sal 1,2). Dalla mia esperienza personale e dalla mia attività pastorale sono pervenuto alla convinzione profonda che nessun minuto speso per stare in intimo colloquio con Dio tramite le Scritture è senza effetto. Ho visto che se si ha il coraggio di prendere in mano una Bibbia per un tempo di lettura e di meditazione in silenzio, e anche aiutare dei ragazzi – magari irrequieti, refrattari a cose religiose – a fare altrettanto, porta a dei risultati sorprendenti. Dalle pagine delle Scritture emerge poco a poco, se abbiamo la pazienza di rimanervici sopra, il volto di Dio. Un volto che diventa sempre più chiaro alla luce di Cristo, perché chi vede lui vede il Padre (Gv 14,9). E la vita (qualitativamente e quantitativamente) eterna è proprio conoscere il Padre e colui che Egli ha mandato, Gesù Cristo (Gv 17,3). Quel Dio che emerge dalle Scritture è il Dio che mi ha amato prima ancora che io fossi concepito nel grembo materno, che mi ha creato, che mi ha redento. È il Dio che con la sua Parola illumina i miei passi e mi mostra per dove camminare. È il Dio che mi fa conoscere – se lo voglio – il progetto che ha pensato per me fin dal grembo di mia madre (Sal 139,16). Leggendo e meditando le Scritture si impara a conoscere Dio e, in qualche modo, come Egli ragiona. Come insegna ancora il Concilio, in questi libri s’impara la vera pedagogia di Dio (Dei Verbum 15), cioè la maniera in cui Egli ha educato il suo popolo e che è, in qualche modo, la stessa pedagogia che usa con ciascuno di noi. Impariamo perciò a riconoscere come Dio sia presente (e attivo) nella nostra vita.

Se prendiamo seriamente il detto di San Girolamo, “chi non conosce le Scritture non conosce Cristo”, dovremmo chiederci altrettanto seriamente a che stadio è la nostra conoscenza di colui che diciamo di credere come nostro Salvatore. Non ho potuto fare a meno di constatare che non di rado la conoscenza riguardo a Gesù che ha un certo numero di cristiani praticanti deriva non dalle Scritture, ma da qualche film, qualche romanzo, qualche lettura spirituale o dall’ascolto di qualche personaggio televisivo, sedicente esperto in materia. In realtà tale Gesù in genere ha poco o niente a che fare con il Gesù dei Vangeli. Ma, mi chiedo: se il Gesù che conosciamo non è quello dei Vangeli, che Gesù è? Si può forse conoscere Gesù da qualche altra fonte che non sia il Nuovo Testamento? Sono le Scritture che parlano di Gesù (Gv 8,39).

La lettura e la comprensione delle Scritture è meno difficile di quanto possiamo pensare. Ma mettiamo pure che a volte tante cose presenti in esse ci sembrano incomprensibili. Supponiamo allora che una persona a noi carissima volesse stare con noi, in confidenza, parlandoci di cose meravigliose, ma lo facesse con una lingua a noi estranea; cosa faremmo? Supponiamo che si tratti di un medico che conosce il modo di guarirci da una malattia grave e abbiamo bisogno di capire quanto ci dice. Se abbiamo pazienza – e l’avremmo se appunto siamo convinti che quella comprensione è decisiva per la nostra vita – rimarremmo in ascolto finché, prima o poi, riusciamo a capire (magari anche con l’aiuto di un traduttore). Così dev’essere con le Scritture. Esse sono (ripeto) meno incomprensibili di quanto crediamo. Alla fin fine è una questione di “cuore”. E non dimentichiamo che, in genere, nella Chiesa, Mater et Magistra, i mezzi e le persone che possono aiutarci a conoscere più a fondo la Bibbia non mancano.

Quando si parla di conoscenza delle Scritture e di Cristo l’episodio che viene sempre menzionato è quello dell’incontro fra i discepoli di Emmaus e il Gesù risorto (Lc 24,13-35). Conosciamo la storia. I due discepoli camminano tristi allontanandosi da Gerusalemme dove hanno assistito alla morte atroce di coloro che essi speravano fosse il redentore d’Israele. Gesù parla con loro, interpretando ciò che hanno visto sotto una luce diversa – la luce delle Scritture – si ferma e cena con loro, e poi scompare dalla loro vista. A quel punto i discepoli non sono più quelli di prima. Essi testimoniano che mentre Gesù parlava loro di quanto era successo, spiegando loro le Scritture, il loro cuore ardeva. Il punto è chiaro. Noi possiamo pensare che a causa di fatti dolorosi, spiacevoli, presenti nella nostra vita, non possiamo fare a meno di essere tristi. Ma forse non riflettiamo abbastanza che non sono i fatti in sé a causare tristezza, ma la loro interpretazione. Infatti gli stessi eventi possono essere interpretati in modi diversi. In genere interpretiamo – ne siamo consapevoli o meno – i fatti sgraditi della nostra vita come negativi. E possiamo magari ritenere, soprattutto se siamo credenti, che Dio è in qualche modo responsabile di quei fatti e quindi della nostra tristezza. Ma forse quella nostra interpretazione dei fatti è sbagliata. Forse il nostro modo di leggere certe situazioni non corrisponde al modo di Dio. Le Sacre Scritture ci aiutano a fare luce sui fatti e a comprenderli secondo il pensiero e il disegno di Dio. Perché “le vie e i pensieri di Dio sono distanti dai nostri come il cielo dalla terra” (Is 55,9). La possibilità che ci danno le Scritture di comprendere il senso giusto dei fatti della nostra vita è ciò che fa tutta la differenza fra la tristezza e la gioia.

 

 Marco Ceccarelli, Pontificia Università Lateranense

© www.agensir.it, sabato 21 gennaio 2023