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Ma il Natale non si riduce a “potlatch”

La società dei consumi ha reso il Natale un rito simile a quello del dono dei nativi nordamericani, che era una gara al rialzo con esiti sacrificali. Dobbiamo chiamare il Natale “festa del regalo”?

Se il Natale è attesa di qualcosa, di qualcuno, guardandoci intorno di che attesa possiamo parlare? Nessun moralismo, in questa domanda. Mi chiedo se abbia ancora senso chiamare il Natale col suo nome. Una festa di paese, anche la più popolare, celebra un patrono, un evento, una tradizione. Il Natale che cosa celebra oggi per molti di noi? Se dovessi dire sulla base di quello che vedo, celebra il regalo. Il dono. Se volessimo buttarla sull’erudito, il dono non è sempre stato, nella lunga storia dell’umanità, un gesto gratuito. Nelle antiche tribù il dono era una sfida per chi lo riceveva, perché imponeva una risposta retributiva: la restituzione di quanto ricevuto in misura ancora più grande. Nelle tribù dei nativi americani della costa nordoccidentale, il dono era il cuore di una cerimonia rituale chiamata “ potlatch”. Tutti attorno al tavolo per un convitto a base di carne di foca o di salmone, si iniziava la sfida donando beni di valore sempre maggiore. Erano doni che stabilivano in realtà il peso sociale della tribù o del singolo, dunque un modo di affermare o riconquistare il proprio posto nella scala gerarchica. Era, paradossalmente, un gioco economico quello che aveva luogo nel potlatch, che forse potrebbe calzare bene a quelli che si fanno portatori dei vantaggi della decrescita per riportare l’umanità a un livello di consumo più giusto. Il potlatch, infatti, è un gioco che tende alla dilapidazione della propria ricchezza. Più si dona più si ha speranza di vincere la sfida. Ma prima o poi uno perderà tutto ciò che possiede restando sul lastrico e privo del rango sociale sperato. Non si trattava di dare una festa per aver fatto un buon affare, o raggiunto un importante obiettivo. Era un gioco a suo modo pericoloso. Era anche una sorta di dieta che impediva le turbative in un sistema che non aveva nulla di quello attuale di mercato. Eppure, è anche la fine di certi gnomi di Wall Street. Il potlatch era una pratica pagana, messa fuori legge già nell’Ottocento dalle società democratiche ispirate dal cristianesimo, che vedevano nel lavoro ciò che nobilita l’uomo e ne conserva la dignità. Ma uno “schema potlatch”, per esempio, è oggi quello delle slot machine. Chi più dilapida più ha speranza di essere premiato dal dono del proprio antagonista. Le nostre società si fondano sul consumo, che è anch’esso una forma di potlatch: più consumo più sono presente sulla scena sociale, più stabilisco il mio rango su quella scala (più dilapido il mio denaro, anche quello che non ho, per avere tutto questo). La festa del regalo che si celebra nel Natale è anch’essa un potlatch: regalo e ricevo un regalo. Ai piedi degli abeti casalinghi (veri o similveri) il numero dei pacchi è andato via via aumentando (nonostante la crisi o proprio grazie a essa). Tanti regalini, come si dice spesso oggi, piccoli, diversi, inutili (come gli stessi doni dell’antico potlatch che spesso venivano distrutti), talvolta anche stupidi, che impongono all’altro di replicare il gesto in tanti, diversi, inutili, ugualmente stupidi. E poi la cerimonia di scartare i pacchi, di riempirsi di cose superflue (non sempre, talvolta desiderate e necessarie, e in tempo di crisi molti si trovano a donare cose che, in passato, avrebbero acquistato nei giorni ordinari), purché siano regalate, cioè ci diano l’impressione di colmare una qualche assenza (chi manca del necessario avrebbe più ragione di godere del superfluo, mentre chi ha tutto dovrebbe cercare soltanto cose utili). Il regalo è il sintomo di una mancanza. Ma ciò che ci manca lo cerchiamo nel posto sbagliato. Celebriamo una festa che parla di una nascita, ma siamo un Paese in denatalità; celebriamo una festa che attende un salvatore (questo è Gesù Cristo per chi ci crede), ma se ci chiedessero da che cosa dobbiamo essere salvati forse faremmo fatica a dire qualcosa di diverso da: guerre, dolori, violenza, malattie. La salvezza è un principio radicale, in realtà. Dice che questo mondo, così com’è, non va bene, non basta e, dopotutto, non è il migliore dei mondi possibili. Eppure, ci accontentiamo. Crediamo che un po’ di felicità, di epidermico piacere, dia senso a una festa che, alla sua radice, celebra l’insufficienza umana, il destino oscuro di un mondo che non riconosce la sua debolezza. Siamo ogni giorno bombardati da immagini violente, non siamo più capaci di capire che una guerra o le ingiustizie continue di cui siamo spettatori ci nascondono una verità più profonda e grave: la tragicità della morte precede ogni peccato perché, come avevano visto alcuni mistici, una croce era già piantata al centro del Paradiso terrestre. E il Natale è la festa che annuncia lo sradicamento di quella croce (un avvenimento, a pensarci, molto impressionante). Se del Natale abbiamo perduto questa consapevolezza, meglio allora chiamarlo «festa del regalo». Pensando però alle antiche implicazioni del potlatch.

Maurizio Cecchetti

© Avvenire, martedì 20 dicembre 2016
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