"Nelle mie canzoni c'è Gesù"
«Alla fine non sono neanche tanto dispiaciuto, perché quando rimescoli una pentola viene fuori l’odore.Non mi va giù che mi abbiano fatto fare la figura del cinico. Hanno scritto che andavo al Festival dell’Unità perché mi pagavano, e invece mi avranno pagato due volte su venti...». Alla vigilia dell’uscita del nuovo doppio cd che consacra il successo del suo ultimo tour, Lucio Dalla continua a pensare a quell’intervista a Petrus che, ripresa da alcuni quotidiani, ha scatenato un piccolo “caso” prenatalizio. Dalla cattolico praticante. Non una grossa novità. Dalla che abiura il marxismo. Qualcosa di più. Dalla legato all’Opus Dei. Una esagerazione.
Il cantante bolognese, in genere piuttosto schivo su questi temi, ha accettato di parlarne con Famiglia Cristiana nella sua casa nel cuore del centro storico di Bologna.
– Le tue dichiarazioni hanno fatto notizia, eppure non hai mai fatto mistero di essere cattolico...
«Cattolico praticante, certo, non è mica una vergogna. Come non è una novità il fatto che ho sempre votato a sinistra. L’equivoco è nato quando ho detto che il lavoro santifica. L’ho detto perché ne sono convinto: il lavoro, qualunque lavoro, se è fatto bene, l’artista come l’insegnante o l’elettrauto, è un modo per rendersi utile alla società».
– A questo punto sei stato “arruolato” nell’Opus Dei...
«Io non conosco Escrivá, non sapevo nemmeno che fosse santo. Non è mica san Francesco. Però, se dice queste cose sul lavoro, le trovo giuste e mi associo. Del resto, se anche fossi stato legato all’Opus Dei, non l’avrei dichiarato con la stessa facilità con cui uno dice che è della Juventus: e poi credo che i primi a esserci rimasti male siano proprio quelli dell’Opus Dei. Da quanto mi hanno detto sono molto rigorosi e con una forte identità: arriva uno con l’orecchino, per di più di sinistra...».
– Non sei stato legato nemmeno ad altri gruppi o movimenti ecclesiali?
«No, mai, e non perché mi facciano schifo. Non amo appartenere a un gruppo, non mi sono mai nemmeno iscritto al Rotary. Ho sempre votato a sinistra, però se quelli di sinistra mi dicono che Dio non c’è io li mando al diavolo».
– Quanto è importante la ricerca di Dio, nella tua musica?
«Più che di una ricerca parlerei di una presenza. Non è che vada fuori con la pila: io sento Dio nelle cose della mia vita, nel mio lavoro, negli esseri umani, nel fatto che c’è il sole la mattina e la luna di notte. Cioè io credo di vivere, cerco di vivere – a volte non coerentemente – da cristiano. D’altronde, chi conosce le mie canzoni sa che ne ho sempre parlato, a cominciare da Gesù Bambino, che allora risultò una novità, perché mettevo Gesù tra la gente».
– Anche la tua visione della vita, quindi, è coerente rispetto alla tua fede...
«Coerente... Io non sono un prete e nel mio modo di essere cristiano non è che i preti vengano in prima linea, però vado a Messa fin da quando ero bambino e non è che mi diverta molto. Partecipo alla Messa, poi preferisco restare in chiesa da solo e pregare, fare quello che fa un cristiano. Dare un senso alla mia vita soprattutto attraverso il lavoro, cercando di dare il meglio, perché è l’unico messaggio che possiamo offrire. Se mi va di prendere in giro la gente non lo faccio col mio lavoro e poi la gente io non la prendo in giro. Mai».
– Però sei anche attento al magistero della Chiesa...
«Certo. Cerco di approfondire, m’informo, leggo. Il cristianesimo mi intriga e sono affascinato dalla figura di Gesù Cristo, sia come Dio sia come uomo. Di lì in poi è cambiato tutto».
– Gli hai perfino dedicato una canzone, che si intitola Inri.
«Non una, molte: Gesù bambino, Se io fossi un angelo... È una costante perché, lo ripeto, il cristianesimo è una cosa che sento moltissimo, che cerco di vivere, soprattutto per l’aspetto sociale. Gesù poteva nascere in una reggia come in una sala da ballo, però ha scelto di nascere tra i poveri del mondo ed è già una cosa che mi affascina. Per questo la gente che ha meno di me, che fa fatica a vivere, ha un posto primario nella mia valutazione delle cose. Sono più comprensivo, credo sia il dovere di ognuno aiutare chi è meno fortunato. Poi bisogna partecipare alla Messa: io vado a San Domenico, qui a Bologna, perché c’è padre Barzaghi, che è un amico, però quando ero in Irlanda sono andato in una chiesa protestante e ho preso parte alla funzione. Dio c’è da tutte le parti, si può pregare pure in una discoteca».
– In Inri parli anche del male...
«È una canzone forte, non bacchettona. Il male c’è perché c’è il bene. Semplificando le cose, il grande senso libertario e democratico della nostra fede è dato dalla possibilità di scegliere l’uno e l’altro. Noi dobbiamo vivere il bene, ma il male lo incontri persino per strada. Io rispetto moltissimo le altre religioni, perché l’importante è che uno creda: nel suo Dio ma anche nella vita, nel lavoro, nella voglia di aiutare il prossimo. È certo, però, che non sono buddhista: sono cristiano e credo che la morte sia solo la fine del primo tempo».
– Stai per compiere 65 anni. Se adesso dovessi fare un bilancio della tua carriera, da Piazza grande fino a Tosca, ci sono momenti della tua arte ai quali sei più legato?
«No. Però era l’unica cosa che potevo fare, anche se oggi ne faccio molte altre, ma tutto è partito da lì. Io sono venuto al mondo per fare quello che ho fatto, magari avrei potuto riuscire meglio o peggio, ma l’ho fatto con grande partecipazione e intensità. Oggi mi occupo di regia, insegno a Urbino perché insegnando impari. Io faccio tutto quello che mi piace, ma quello che preferisco è mettere a disposizione il mio lavoro per essere utile a chi ha meno di me».
– Nella tua formazione è stato importante l’incontro con padre Pio?
«Di questo non ho mai voluto parlare. È una cosa personale e voglio tenerla per me. Non mi sembra giusto seguire il flusso. E poi non aggiungerebbe niente. Come si fa a dire qualcosa che non sia già stato detto? Cosa faccio, alzo la mano e dico “anch’io?”. No grazie, non mi interessa».