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Paglia: la risposta alla pandemia è una conversione morale

Pandemia, fragilità e nuove opportunità: da dove ripartire come cristiani? Il presidente della PAV, la Pontificia Accademia per la Vita, l'arcivescovo Vincenzo Paglia, si sofferma su diversi aspetti contenuti ne "L’Humana Communitas", il secondo documento che l'istituzione vaticana dedica alle conseguenze della crisi sanitaria mondiale e alla sua interpretazione

Cosa ci accomuna e cosa ci separa come esseri umani che stanno condividendo l'esperienza unica e inattesa della pandemia, e dove trovare il coraggio di ripartire? Ne parla monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, illustrando in questa intervista i contenuti principali del nuovo documento dedicato dalla PAV al post pandemia, a partire dalla spiegazione del titolo e del sottotitolo, fino alla sfida lanciata alla comunità cristiana in questo momento difficile:

Spieghiamo il titolo: Humana Communitas nell’era della pandemia. Che vuol dire?

R. - Humana communitas è il titolo della lettera che papa Francesco ha indirizzato all’Accademia, il 6 gennaio 2019, nel 25° anniversario della sua fondazione. Il Papa ci chiede di riflettere sulle relazioni che uniscono la comunità umana e generano valori, obiettivi, reciprocità condivise. Questa pandemia rende straordinariamente acuta una duplice consapevolezza. Da una parte ci fa vedere come siamo tutti interdipendenti: quello che accade in qualche parte della terra, ormai, coinvolge il mondo. Dall’altra accentua le disuguaglianze: siamo tutti nella stessa tempesta, ma non sulla stessa barca. Chi ha barche più fragili affonda più facilmente. L’etica della vita diventa globale: cercheremo di salvarci allontanandoci sempre di più, oppure la comune vulnerabilità ci renderà più umani? Dobbiamo rispondere a questa domanda e dobbiamo farlo adesso: l’essere umano è ancora una responsabilità comune?

Nel sottotitolo si dice: riflessioni inattuali sulla rinascita della vita. Che vuol dire?

R. - «Inattuali» è una parola che viene dalla tradizione filosofica. Qui la impieghiamo, con un po’ di provocazione, per indicare l’urgenza di ritrovare un pensiero della comunità che, a quanto sembra, non è più di moda. In un momento in cui la vita sembra sospesa e siamo colpiti dalla morte di persone care e dalla perdita di punti di riferimento per la nostra società, non possiamo limitarci a discutere il prezzo delle mascherine o la data di riapertura delle scuole. Dovremo cogliere l’occasione per trovare il coraggio di discutere condizioni migliori per orientare il mercato e l’educazione, piuttosto. Ci sembra una pretesa esagerata? Ecco, proprio questo vuol dire “inattuale”.

La pandemia ha mostrato la fragilità, delle persone e delle società. È una crisi globale che tocca Nord e Sud del mondo e gli scienziati non hanno ancora risposte sicure. È davvero un fatto nuovo?

R. - La novità non è tanto nella comparsa di un virus sconosciuto. Si sarebbe infatti potuto circoscriverlo e sconfiggerlo localmente, limitando decisamente il danno. Il fatto inedito è la velocità e l’ampiezza con cui si è propagato attraverso la rete delle relazioni e dei trasporti. Nuovo è anche il ruolo dei mezzi di informazione, che hanno deciso come doveva diffondersi la consapevolezza della crisi: si è giustamente parlato di «infodemia». La novità quindi è la strana mescolanza di conformismo e di confusione indotti dalle reazioni alla rappresentazione del pericolo nell’epoca delle società «iperconnesse»: che sono però anche «iper-individualistiche». La debolezza della comunità, la quale dovrebbe offrirci assicurazione di sostegno e protezione nel pericolo, ci lascia esposti alle nostre incertezze e alle nostre vulnerabilità.

La propaganda politica attribuisce colpe a situazioni e paesi specifici. Ma la realtà è che eravamo impreparati. Perché?

R.- Certo, prepararsi per eventi eccezionali è una sfida costante per i sistemi sanitari. Si parla di preparedness, cioè di attrezzarsi per prevedere l’evento problematico e di pianificare la possibile risposta. Questo permette di mobilitare al meglio le competenze e le risorse, in un percorso di valutazione critica continua, e di capacità progressiva di reazione. Le nostre capacità di intervento tecnico e gestionale ci illudevano di poter tenere tutto sotto controllo. E invece, anche nelle società economicamente più benestanti, la pandemia ha sopraffatto l’efficienza delle strutture sanitarie e dei laboratori. È stato difficile prendere coscienza del fallimento della nostra efficienza e riconoscere il nostro limite.

Che rapporto c’è tra Covid-19 e sfruttamento delle risorse del pianeta?

R.- Sembrano due temi lontani tra loro. È uno degli aspetti dell’interdipendenza: fenomeni perseguiti con intenti specifici e particolari in campo agricolo, industriale, turistico, logistico, si sommano tra loro e gli effetti di ciascuno si amplificano. La deforestazione mette gli animali selvatici a contatto con habitat umani in cui l’allevamento intensivo sottopone il bestiame alla logica della produzione industriale. Questo avviene per soddisfare la domanda di carne per l’esportazione, così che sulle nostre tavole possano arrivare piatti che corrispondono a diete squilibrate e insostenibili. Tutto l’insieme facilita il salto dei microrganismi patogeni da una specie all’altra, fino agli esseri umani.

Cosa abbiamo imparato in tema di sanità pubblica?

R. - Anzitutto che occorre equilibrare meglio le risorse investite nella prevenzione delle malattie e quelle dedicate alla cura. Questo significa puntare non solo sugli ospedali, ma anche sulle reti territoriali, sia per l’assistenza, sia per la l’educazione sanitaria. Inoltre abbiamo capito che la salute di ciascuno è strettamente collegata alla salute di tutti. Occorrono comportamenti responsabili non solo per tutelare il proprio benessere, ma anche quello degli altri.

Cosa si può fare per impedire lo sfruttamento commerciale dei vaccini o per evitare disparità nei trattamenti sanitari tra chi vive in paesi più ricchi e più poveri?

R. - Occorre regolamentare la ricerca in modo che non risponda solo a interessi politici ed economici (di pochi), ma possa svolgersi con libertà e responsabilità. Per questo i finanziamenti devono essere trasparenti e condivisi, in modo che anche i benefici possano essere equamente distribuiti.

E lo scenario mondiale? Quale ruolo ipotizzare per le organizzazioni internazionali in un mondo post Covid-19?

R. - La pandemia ha mostrato che nessun paese può procedere in modo indipendente dagli altri, non solo per motivi sanitari, ma anche economici. Quindi è indispensabile una organizzazione che possa essere sostenuta da tutti e che coordini le operazioni nella diverse fasi di monitoraggio, di contenimento e di trattamento delle malattie e che consenta una circolazione avvertita delle informazioni. L’OMS appare indispensabile, anche se certamente ha avuto delle défaillances: dobbiamo imparare dagli errori e migliorare il suo funzionamento. Solo così potremo rendere effettivo il diritto universale ai livelli più elevati di cura della salute, come espressione di tutela della inalienabile dignità della persona umana

Quale è il ruolo della comunità cristiana in questa crisi?

R. - La comunità cristiana può aiutare anzitutto a interpretare la crisi non solo come un fatto organizzativo, che si può superare migliorando l’efficienza. Si tratta di comprendere più in profondità che l’incertezza e la fragilità sono dimensioni costitutive della condizione umana. Occorre rispettare questo limite e tenerlo presente in ogni progetto di sviluppo, prendendosi cura della vulnerabilità degli altri, perché siamo affidati gli uni agli altri. È una conversione che chiede di includere ed elaborare esistenzialmente e socialmente l’esperienza della perdita. Solo a partire da questa consapevolezza sarà possibile un coinvolgimento della coscienza e un cambiamento che ci renda responsabilmente solidali in una fraternità globale.

Interdipendenza, vulnerabilità, cooperazione, solidarietà, accesso ai trattamenti, sono le parole chiave di questa crisi. In altri termini: capiremo davvero il valore della vita e la necessità di tutelarla, senza diatribe ideologiche?

R. - È una domanda che ciascuno deve rivolgere a se stesso e alla propria comunità. Non c’è un automatismo che garantisca il passaggio dalla interconnessione di fatto (che abbiamo sperimentato) alla solidarietà responsabile (che implica un gesto della libertà). Se non ci sarà questo risveglio delle coscienze, faremo solo qualche ritocco organizzativo, ma tutto tornerà come prima. Occorre invece ripensare i nostri modelli di sviluppo e di convivenza, perché siano sempre più degni della comunità umana. E dunque, all’altezza dell’uomo vulnerabile, non al di sotto dei suoi limiti, come se non esistessero: dentro quei limiti, infatti, ci sono uomini, donne e bambini che meritano più cura. Tutti, non solo i nostri. Se apriamo le porte alle minacce veramente globali per la comunità umana, nemmeno i nostri potranno salvarsi. Ecco: dalla “prova generale” di questa pandemia, ci aspettiamo uno scatto di orgoglio della humana communitas. Può farcela, se vuole.

© www.vaticannews.va, mercoledì 22 luglio 2020

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