Pompili: «I media imparino a farsi prossimi»
Che cosa ha da dire al mondo della comunicazione l’icona evangelica dell’incontro tra Maria ed Elisabetta, posta dal Papa al centro del suo messaggio per la Giornata?
Mostra che la famiglia è una realtà concreta capace di ospitare una ricchezza di senso tutta da riscoprire, al di là delle battaglie ideologiche che la impoveriscono. Questa teologia della famiglia dà l’aroma a tutta la pastorale di papa Francesco, e scandisce il cammino della Chiesa tra Sinodo e Anno Santo della misericordia.
La famiglia, scuola di prossimità: quale stile indica questa indicazione del Papa ai comunicatori?
Ci ricorda che fare spazio all’altro senza preoccuparci del ritorno che ne avremo è un movimento umano e umanizzante che se non impariamo in famiglia e dalla famiglia difficilmente sapremo praticare.
Il Papa invita a benedire e non maledire: oggi è possibile usare i media come «benedizione»?
Il richiamo a «bene-dire» significa recuperare la potenza umanizzante della parola, che è un «grazie» per il dono della vita ricevuta, dell’incontro di cui possiamo gioire, della condivisione delle nostre speranze anche preoccupazioni. Troppo spesso, invece, i media hanno sintonizzato i loro criteri di notiziabilità sul negativo e accondisceso al clima ideologico. Insomma, l’invito del Papa è una lezione umanizzante anche per i professionisti della comunicazione.
Lei per otto anni ha guidato l’Ufficio per le comunicazioni sociali della Cei e venerdì è stato nominato vescovo. Come è possibile far convivere la vocazione di comunicatore e giornalista con quella al ministero ordinato?
Non solo è possibile, ma credo anche che sia un aiuto. In fondo il sacerdote è un «medium», un traduttore e facilitatore di esperienza che prima di tutto ha a cuore la realtà e le persone cui si rivolge, che accompagna a comprendere ciò che accade per poterlo vivere in maniera pienamente umana. Il giornalista si «sporca» con la realtà, non può osservarla dall’esterno con distacco. La postura giusta è quella da accanto, nella prossimità. Così alla fine della giornata anche il giornalista ha l’odore della realtà che racconta, come il buon pastore ha l’odore delle pecore. Questo aver a cuore l’altro, soprattutto i più deboli e chi non ha voce e rischia di restare invisibile, è un punto fermo (rispetto al quale la famiglia è maestra) che non deve mai essere trascurato.
Nel suo nuovo ministero che cosa porterà del percorso di questi anni?
Certamente l’aver trascorso otto anni a contatto con le persone, girando per gli Uffici diocesani di tutta Italia per conoscere, incoraggiare, ascoltare le persone impegnate nei loro territori è stata una preziosa scuola di concretezza e di prossimità. Un servizio «in uscita» che mi ha regalato moltissimo in termini di conoscenza, relazioni, umanità. Insieme è stata una stagione in cui tutti i media della Cei hanno vissuto un profondo rinnovamento non solo nelle persone ma anche in una migliore integrazione con le novità della Rete. Il Convegno «Testimoni digitali» del 2010 aveva prefigurato il nuovo contesto senza assumere toni nostalgici o ingenui. Il tempo ha mostrato che chi era rimasto a guardare indietro rimpiangendo un tempo che non c’era più ha dovuto frettolosamente riallinearsi.
Matteo Liut
© Avvenire, 18 maggio 2015