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Puglisi: così parlò il suo killer

La vita di un giovane mafioso cresciuto nel quartiere dominato da Cosa nostra, i rapporti coi boss, il delitto, il pentimento. La sconvolgente testimonianza.

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«Gli sparai, lui sorrise»

 

grigoli_2830190.jpg Spunta all’improvviso nella penombra del parlatorio. È vestito di nero:  nero il suo pullover, i suoi jeans, le sue scarpette di vernice. In una stanza di un carcere di massima sicurezza Salvatore Grigoli soppesa le parole e le pronuncia con sofferenza.
È stato uno dei killer più spietati di Cosa nostra: ha confessato 46 omicidi, è implicato nelle stragi di Firenze, negli attentati di Roma, in quello ai Parioli ai danni di Maurizio Costanzo.
Ed è l’autore dell’assassinio che gli ha cambiato la vita, quello di don Pino Puglisi, il parroco di Palermo ucciso il 15 settembre di sei anni fa davanti alla porta di casa. Un assassinio che, racconta, «ci sembrò subito come una maledizione, perché da allora cominciò ad andarci tutto storto». Quella che segue è la cruda testimonianza di un uomo di 36 anni che ha deciso di collaborare con la giustizia dopo l’arresto di due anni fa. E che dichiara il suo pentimento.

Quando sentì per la prima volta il nome Puglisi?

«Quando mi hanno comunicato che doveva morire, un paio di giorni prima di ucciderlo».

Perché era stato dato quell’ordine?

«C’era la convinzione che il Centro Padre nostro, da lui creato, fosse un covo di infiltrati della polizia. Poi si scoprì che non era vero. Ma innanzitutto perché nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva questo suo fascino, soprattutto i giovani».

C’era qualche frase in particolare?

«Non so se c’era una frase particolare, anche perché a noi le cose ce le riferivano. I Graviano (i fratelli Filippo e Giuseppe, boss di Brancaccio, accusati di essere i mandanti, ndr) non andavano alle sue messe. Erano cose che gli venivano raccontate. Ma Cosa nostra sapeva tutto, pure che continuava ad andare in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e il recupero degli scantinati di via Hazon, che voleva fare requisire, il Comitato intercondominiale, le prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare».

Prima dell’omicidio ci furono le vostre intimidazioni: l’incendio alle porte di casa dei membri del Comitato, le minacce, il pestaggio di un ragazzo. Puglisi era cosciente dei rischi?

«Lui aveva capito certamente da dove arrivava il messaggio. Noi facevamo questi attentati per allontanare da Brancaccio don Pino e la gente che lo appoggiava. Infatti un paio se ne andarono. Ma Puglisi continuava a fare quello che aveva sempre fatto, parlare contro la mafia...».

Un delitto annunciato.

«Sì, anche perché lui rimase solo. Secondo me, si poteva salvare. Se lo Stato lo avesse protetto, ad esempio. E così successe quello che è successo».

E arrivaste a quella sera.

«Lo avvistammo in una cabina telefonica mentre eravamo in macchina. Andammo a prendere l’arma. Toccava a me. Ero io quello che sparava».

Era nervoso, guardingo?

«No. Era tranquillo. Che era il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza (un componente del commando che lo uccise, ndr) gli tolse il borsello e gli disse: padre, questa è una rapina. Lui rispose: me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso».

Il sorriso di un santo?

«Non ho esperienza di santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».

È vero che si vantò di essere l’omicida di Puglisi?

«È assolutamente falso. Io non avevo assolutamente nulla di cui vantarmi: se in Cosa nostra fosse stato consentito giudicare un omicidio, io l’avrei criticato».

Quell’omicidio fece molto clamore, fin dal giorno dopo. Che effetto vi fece i giorni seguenti?

«Nessun effetto».

E le manifestazioni antimafia per le vie di Brancaccio, un mese dopo?

«Cominciammo a capire che non era stata una cosa utile per noi. Anzi, aveva peggiorato la situazione. Una specie di autogol. A quel punto abbiamo scelto il silenzio. E poi cominciarono i problemi, e tra di noi, lo commentavamo come una maledizione».

Cosa nostra rispettava i preti, quello era il primo omicidio del dopoguerra.

«Per Cosa nostra la Chiesa era quella che, se c’era un latitante, lo nascondeva. Non perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno. Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni».

Lei è a conoscenza di qualche latitante nascosto da sacerdoti?

«No, però si sapeva nell’ambiente, che in passato era avvenuto».

E la Chiesa di Puglisi?

«La Chiesa di Puglisi era una Chiesa diversa».

Ricorda le parole del Papa ad Agrigento contro i mafiosi, nel 1993?

«Vagamente, io allora ero un mafioso. Mi toccò molto di più una lettera pubblicata sul Giornale di Sicilia da alcuni giovani che mi invitavano al pentimento».

Ma nell’ambiente di Cosa nostra che effetto fecero le parole del Papa?

«Si vociferava che la Chiesa cominciava ad essere diversa».

Le bombe in Laterano furono messe per questo?

«No. Era tutta un’altra storia. Rientra in una strategia stragista di Cosa nostra contro le istituzioni».

Lei è accusato di un delitto orribile e odioso: il rapimento del figlio del pentito Di Matteo, sequestrato per lungo tempo, ucciso e poi sciolto nell’acido per ritorsione contro il padre.


«L’ho conosciuto bene quel bambino. Madonna mia, era un ragazzo pieno di vita... Cosa nostra mi ha tradito: mi avevano detto che lo dovevamo tenere per un paio di giorni e basta, fino a quando il padre ritrattava. E invece... Ho fatto cose che non si possono giustificare, ma questa... questa è stato il motivo del mio pentimento. Non gliel’ho potuta perdonare»

Ci sono mafiosi religiosi in Cosa nostra?

«Il novanta per cento dice di credere in Dio. Uno dei miei coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad ammazzare qualcuno. A me questa cosa mi dava fastidio: ma che aiuto ti può dare Dio, che andiamo ad ammazzare?, gli dicevo io. Ho sentito dire che Giuseppe Graviano qualche volta andava a messa. È gente che legge la Bibbia. La Bibbia la leggevo anch’io, da latitante. Mi piaceva leggerla. La leggevo allora e la leggo adesso da credente. Perché è quando sei solo che cominci a riflettere. Perché loro ti inculcano questa cultura: che tutto quello che fa Cosa nostra è giusto».

Che passi della Bibbia ama leggere?

«La vita di Cristo sulla terra».

Lei dice di essersi convertito.

«Vede, io c’ho questa convinzione: che a me non mi crederà nessuno. Io sto cambiando, devo cambiare, ma voglio che siano i fatti a far parlare me. Mi piacerebbe essere a Palermo il 15 settembre per l’anniversario della morte di Puglisi. Ma a me queste cose non piace dirle, perché penseranno che sono un ipocrita. Lo Stato poi dovrebbe aiutare chi può cambiare. In questo carcere, ad esempio, mi hanno negato persino un prete. Come si fa a cambiare? Per cambiare bisogna essere aiutati. Per questo sono molto grato a padre Mario, una persona squisita».

Padre Mario Golesano, il parroco di Brancaccio che ha sostituito Puglisi.

«Sì, io gli devo moltissimo, non mi ha mai abbandonato. Lui mi ha scritto per primo. Ho provato un’emozione intensa nel ricevere quella lettera. Mi scriveva di quanto era bello sentire il pane profumato, faticato, sudato, guadagnato con i sacrifici. Di sentire la gioia dei miei bambini. La gioia che io ho tolto a tanti bambini. Il mio rammarico è quello di aver tolto tanti padri ai loro figli».

Un profumo che a Brancaccio non sentì.

«Lì fin da bambini si comincia a sentire il fascino degli uomini di rispetto».



Lei ha scritto anche una lettera aperta al sindaco di Palermo, Orlando.

«Come rappresentante della cittadinanza. Ho invitato chi è in Cosa nostra a cambiare, a seguire lo stesso cammino che sto facendo io. Conosco i miei coimputati e sono convinto che alcuni di loro potrebbero cambiare. Anche se è difficile, perché Cosa nostra ti inculca che tutto è giusto, che lo Stato è il nemico numero uno, che i magistrati sono dei mostri, che Falcone e Borsellino sono i nemici numero uno di Cosa nostra».

Cosa nostra a Palermo è ancora potente?

«Non vorrei che si finisse come a Napoli, in un gruppo di clan in cui il primo che si sveglia spara. Almeno Cosa nostra manteneva l’ordine. Cosa nostra in questo momento è in ginocchio. E l’arma è quella dei collaboratori di giustizia. Chi lascia che vengano denigrati fa un grosso sbaglio».

 
 

Don Treppì e il suo assassino

 

Che cos’è la borgata Brancaccio di Palermo nelle parole dell’ex uomo d’onore Salvatore Grigoli? «Un quartiere degradato, dove non c’è niente, dove ti abituano a subire il fascino degli uomini di rispetto fin da quando sei ragazzino. Perché se rubano una macchina, Cosa nostra te la fa ritrovare il giorno dopo, perché non si muove niente senza che lo sappia Madre Natura». Madre Natura, ossia Cosa nostra.

Che cos’era Brancaccio per padre Puglisi? «È la borgata più dimenticata della città. Non ha una scuola media, niente asilo nido e nemmeno un consultorio o centro sociale comunale, ha solo una scuola elementare e una materna», aveva detto pochi giorni prima di morire alla cronista Delia Parrinello. Già: la scuola media, vecchia fissazione di padre Puglisi, unico modo per strappare tanti ragazzi alla manovalanza mafiosa.

Il suo assassino, Salvatore Grigoli, nato a Brancaccio, guarda caso si è fermato al diploma di quinta elementare. Anche se la sua storia di uomo d’onore comincia relativamente tardi, a vent’anni: «Lavoravo nel campo dell’edilizia, ero un grande lavoratore, faticavo, faticavo, finché un giorno la mia impresa ha fallito e sono stato licenziato. Allora avevo già un bambino. Non sono uno che si arrende e che si perde d’animo. Conoscevo la gente giusta, l’ho avvicinata e ho cominciato a fare rapine. Da queste agli omicidi il passo è breve, è una "stradetta" piccola piccola». Nei verbali degli interrogatori il collaboratore Salvatore Grigoli è straordinariamente franco: «Ne uccidevo di gente, ne ho uccisa pure a 25 metri da casa mia». Ben presto Salvatore diventa uno dei killer più spietati di Cosa nostra. Uomo d’onore, non inserito nei ranghi mafiosi, ma "riservato", cioè direttamente alle dipendenze dei boss. Se le cose fossero andate diversamente, sarebbe diventato un boss, un "mammasantissima" del mandamento di Brancaccio. Efficiente, intelligente e spietato. «Intanto continuavo con la mia attività commerciale, un negozio di articoli sportivi. Il negozio andava male, un giorno ho detto a uno dei capi di Cosa nostra se conosceva qualcuno a cui venderlo. Lui rispose: "Tu non lo devi vendere, se va male ti aiutiamo noi". Poi chiamò quello che teneva i soldi della cassa e gli disse: "A Salvatore da oggi gli diamo due milioni al mese per le spese"». Ai suoi figli Cosa nostra non fa mancare nulla, persino regolare stipendio. «A quel tempo percepivo cinque milioni al mese».

Padre Puglisi, don Treppì per gli amici, dalle tre iniziali, lo stipendio di insegnante di religione del liceo "Vittorio Emanuele" invece lo devolveva interamente per il mutuo del "Centro Padre nostro". Non aveva bisogno di molto altro don Pino, andava avanti a scatolette, era di una povertà francescana. Mite, tranquillo, ma di quella mitezza che sa essere, all’occorrenza, sfiorata dall’ira. Nell’intervista citata denuncia l’inattività del mondo politico e amministrativo, la stessa in cui si dibatte oggi il suo successore, don Mario Golesano. «Lavoriamo da tre anni senza risultati», dichiarava Puglisi; «nelle anticamere di tutti i sindaci, Lo Vasco, Rizzo, Orobello, di tutti gli assessori, del prefetto, anche in Questura, anche alla Usl: a chiedere almeno una scuola media, un distretto sociosanitario e un po’ di verde dove giocare e correre. Tutte richieste sostenute anche dal Consiglio di quartiere e dal Comitato intercondominiale. Risultato? Finora nessuno. C’è speranza per il distretto: l’assessore straordinario Cottone ha promesso che istruirà la pratica. I locali ci sono».

I locali erano quelli di via Hazon, dove Cosa nostra teneva armi, droga ed esplosivo (quello usato per far saltare in aria Borsellino). Toccare quei locali significava essere condannati a morte. Cominciarono le minacce, poi il decreto dei boss. Racconta al processo Grigoli: «Uno dei miei capi mi contatta e mi dice: "Si deve fare questo omicidio. Madre Natura ha mandato a dire di fare questa cosa"». Mercoledì 15 settembre 1993 era il giorno del compleanno di don Puglisi. I suoi killer lo stavano cercando per capire abitudini e movimenti. Lo avvistarono verso le 21 in una cabina telefonica. «Abbiamo deciso di intervenire subito».

Non era difficile ammazzare un prete. Andarono a prendere l’arma col silenziatore in un deposito industriale, nascosta in un autocarro Lupetto. Era talmente facile che non si preoccuparono nemmeno di adoperare auto rubate. Puglisi intanto aveva parcheggiato la sua vecchia Uno e si accingeva ad aprire il portone di casa, in via Anita Garibaldi. «Fu una questione di secondi: Spatuzza si avvicinò e gli mise la mano nella sua mano per prendergli il borsello e gli disse piano: "Padre, questa è una rapina". Lui rispose: "Me l’aspettavo". Poi lo sparo sordo nell’aria morbida di scirocco. Il corpo riverso in terra, supino. Le auto che ripartono di nuovo verso il deposito: «Qui abbiamo visionato il borsello del padre. Lo visionammo più che altro per vedere se effettivamente trovavamo qualche riscontro a quello che si era detto, qualche indicazione che poteva portarci a queste presunte infiltrazioni dei poliziotti nella chiesa». Non trovarono nulla, solo una lettera di auguri per il compleanno. Dalla patente di guida uno di loro prese la marca. Poi se ne andarono. «Singolare coincidenza con quanto è scritto nel Vangelo secondo Giovanni: Si sono divise tra loro le mie vesti», ha detto nella sua requisitoria il pm Matassa. «Ma questo loro non potevano saperlo».

Francesco Anfossi
 
© Famiglia Cristiana, 28 giugno 2012
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