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Verso le settimane sociali. Oltre la notte del lavoro

Oggi il nostro Paese ha bisogno di politiche che generino valore sociale senza favorire l'assistenzialismo

È inscritto in natura. Ogni tramonto lascia spazio a una nuova alba. E quella del lavoro si chiama 'quarta rivoluzione industriale', quella degli sviluppi dell’intelligenza artificiale e dell’applicazione del digitale nel lavoro. Il tramonto di un’epoca lo dimostrano alcuni dati: il 65% dei bambini delle scuole elementari farà un lavoro che oggi non esiste ancora. Per 4 lavoratori italiani ci sono quasi 3 pensionati. A lavorare sono quasi 23 milioni di persone (il 57,3% della popolazione), ma altri 3 milioni (11,9%) il lavoro lo stanno cercando. Gli italiani che sono emigrati all’estero sono quasi 250.000, una cifra simile a quelle del dopo-guerra. E ancora: un lavoratore su 10 è straniero e, di questi, quasi il 20% è laureato. Infine, nonostante il tasso di disoccupazione giovanile sia pari al 40%, le imprese non riescono assumere il 25% delle figure professionali di cui hanno bisogno per mancanza di formazione (tecnica) adeguata.

È la notte del lavoro che continua a fare paura. «Quanto morir perché la vita nasca», scriveva Clemente Rebora. È dunque urgente chiedersi: nel tempo delle macchine e dei robot, quale significato assumerà il lavoro per la vita degli uomini? Quali sono i principali cambiamenti in corso, a causa dei quali tante persone sono lasciate senza lavoro? Quali devono essere i (nuovi) diritti e doveri del lavoratore? E ancora: come sconfiggere la disoccupazione e quale formazione garantire ai lavoratori per prepararli al lavoro del futuro? Di ciò che abbiamo ereditato, cosa possiamo trasmettere? Eppure i giovani occupati ci insegnano che gli albori di un tempo nuovo sono già sorti. Per loro il lavoro è flessibilità e innovazione. Lo dimostra un dato: dal 2013 a oggi il 46% di coloro che avevano un contratto a tempo indeterminato ha cambiato lavoro. Crescono i lavori legati all'innovazione e sono ben retribuiti. Crescono anche quelli al servizio alle persone, ma sono mal retribuiti. Insomma, tra un mondo del lavoro che sta tramontando e quello che sta nascendo occorre affinare una 'bussola di discernimento'.

Nel dibattito all’Assemblea costituente, il lavoro è promesso. Si forma in comunità solidali, in cui il lavoro di ciascuno è un mattone che costruisce la casa democratica. È per questo che nella Costituzione il termine più ricorrente, dopo 'legge', è 'lavoro' o 'lavoratori'. Il significato di lavoro – non riducibile all'occupazione e alla retribuzione – sembra una provocazione: la Repubblica 'è fondata sul lavoro' (art. 1), da cui discendono diritti e doveri per contribuire al progresso 'materiale e spirituale della società' (art. 4 Cost.). Poiché il lavoro era inteso dai costituenti cattolici come un 'atto creatore', la persona si costruisce e cresce anche spiritualmente lavorando. Quando, durante i lavori della Costituente, Costantino Mortati propose di inserire il principio lavorista come diritto fondamentale, lo pose accanto al principio democratico, a quello personalista e a quello solidarista. È da quest’insieme di principi che si definisce la dignità della persona umana come 'valore madre' della nostra Costituzione. Non tutti i lavori sono dunque lavori degni e umani: non lo sono quelli che si basano sul traffico di armi, sulla pornografia, sullo sfruttamento minorile, sul gioco d’azzardo, sul caporalato, quelli che discriminano la donna e non includono i diversamente abili. E poi i tanti lavori in nero, quelli che sfruttano le competenze senza pagarle il giusto, quelli privi di sicurezza. In Italia, nel 2016 si sono infortunati 587.599 lavoratori e ne sono morti 935.

Nella tradizione del cattolicesimo democratico, il lavoro non deve crearlo lo Stato, ma le imprese. Alle istituzioni spetta però il compito di rimuovere gli ostacoli alla sua creazione come, ad esempio, l’eccessiva burocrazia, i tempi lunghi della giustizia civile, l’enorme tassazione, il costo elevato dell’energia rispetto alla media europea, l’accesso alla banda larga, i problemi dell’accesso al credito o a forme alternative di finanziamento, come quella del capitale di rischio. Il Paese ha bisogno di politiche che generino valore sociale senza favorire l’assistenzialismo. L’obiettivo da raggiungere non è il «reddito per tutti» ma – lo ha ribadito anche il Papa – il «lavoro per tutti». Sono circa 259.000 i posti di lavoro per profili professionali che le aziende non riescono a reperire. Mancano saldatori, cuochi, infermieri, esperti di marketing, falegnami, ingegneri, commercialisti, fabbri e, soprattutto, professionisti del tech, i lavori del digitale. Per la scuola potrebbe essere, questa, un’opportunità senza precedenti per scommettere su nuovi curricoli di studio basati su programmi umanistici, conoscenza delle lingue e nuove competenze per l’innovazione, come il pensiero computazionale e l’intelligenza artificiale. Un’opportunità soprattutto per le tante scuole cattoliche – inginocchiate per i costi di mantenimento delle strutture – che sono in prima linea nella formazione dei giovani. Occorre formare manager del fare e professionisti del gestire: uno chef non è solo un cuoco ai fornelli, ma un lavoratore capace di gestire, acquistare, promuovere e comunicare la propria attività. Inoltre, la tradizione buona dei campanili aiuta a puntare su fattori competitivi non delocalizzabili, come l’arte, la storia, la cultura locale, la bellezza del territorio.

Il Presidente del Consiglio Gentiloni, di recente, ha promesso di volere norme strutturali e stabili per l’impiego, soprattutto dei giovani. Tuttavia, perché ogni scelta politica non resti un cerotto su una ferita ma sia un ricostituente sociale, il lavoro va ripensato insieme alla formazione e alla famiglia. Oso di più: sono i lavori sociali la via per integrare gli immigrati, senza tenerli fermi e chiusi nei centri di accoglienza. E poi un quadro normativo flessibile che permetta alle imprese di creare lavoro e di assumere con agilità, ma anche politiche fiscali per le ricchezze che si generano o si moltiplicano con l’elusione. Anche nel mondo cattolico occorre convertire l’idea di impresa: non più assistenzialismo, ma imprenditorialità sociale e opere sostenibili per diventare produttivi, finanziare i propri scopi, creare occupazione e retribuire secondo giustizia. È una visione culturale in cui l’accento è posto sul 'sociale' più che sulla 'competitività'. Sul dono, più che sul profitto. Il valore aggiunto delle imprese sono i volti dei loro lavoratori: mentre tutte le risorse sono esauribili, le risorse umane sono inesauribili e crescono quando le si incentiva.

La sfida del lavoro di domani, con le macchine intelligenti e il lavoro a basso costo sarà al centro della 48° Settimana sociale dei cattolici italiani, in programma a Cagliari dal 26 al 29 ottobre prossimi. La Chiesa in Italia aveva trattato il tema del lavoro nel 1970, nell’anno della nascita dello statuto dei lavoratori. Il contributo dei cattolici è stato decisivo. Insieme, come credenti, siamo pronti a ripetere quell’esperienza per il bene di tutti.

Francesco Occhetta S.I.

© Avvenire, giovedì 31 agosto 2017

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