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Il peccato non è nel sesso

Rilettura del decalogo: il sesto comandamento. Anche il cristianesimo, per secoli, si è accanito contro il corpo, mentre vediamo che i vangeli ci presentano un Gesù attento ai sensi, alla corporeità, alla carne. Il peccato non viene necessariamente dalla carne, ma dall’intimo dell’uomo.

Abbiamo già avvertito come soprattutto in età moderna l’accento si sia spostato dall’adulterio alla sessualità come tale, ontologizzando e dogmatizzando visioni culturali estranee al messaggio cristiano. Proprio per questo, bisognerebbe riformularlo nel segno della cura, dell’attenzione alla fragilità preziosa che ci costituisce nella concretezza ultima, sessuata, del nostro essere al mondo. E allora, forse, il senso delle “parole” che lo riguardano potrebbe essere: «Non offendere la tua e l’altrui carne».

Il problema infatti è proprio la nostra corporeità, il nostro essere corpo, l’essere carne. La storia nostra di cristiani paradossalmente è segnata dal rifiuto della carne, dimenticando che per essa abbiamo acquisito la salvezza. Si parli di pesantezza, debolezza della carne; si legga con disgusto, con astio quasi, l’involucro pesante del nostro essere al mondo, l’idea, neppure tanto nascosta, è quella pagana di una identità debole, onticamente peccaminosa, contro cui occorre lottare e che, comunque, bisogna oltrepassare.

In fondo c’è il rammarico di una creaturalità angelica, unilateralmente spirituale; c’è l’aspirazione a una condizione emancipata dal bisogno: cibarsi, ad esempio, accoppiarsi, o, più semplicemente, dalla modalità drammatica del nascere, crescere, invecchiare. La stessa parabola del corpo, la sua metamorfosi fisica, appare repellente. Lo spirito, invece, non invecchia mai... Non so perché l’idea di sporco, di impuro, si leghi da sempre ai nostri bisogni.

Certo siamo capaci di transignificarli, di fare del bisogno, dell’uso dei nostri sensi un’arte, ma questo appare più che arte edonismo, peccaminoso indulgere su cose che dovrebbero restare fuori dalla vita del saggio o del credente.

Gesù e la corporeità dell’uomo.
Il cristianesimo non è l’unica religione che si accanisca contro il corpo, che alimenti vilipendio del corpo. Ma dimentica che, a differenza delle altre, la salvezza che annuncia è legata all’esperienza di un corpo vilipeso e piagato, un corpo che ha attraversato (e sconfitto) l’annullamento della morte. Personalmente guardo con incredulità l’ipotesi di un Gesù di Nazaret filosofo cinico; non riesco a pensarlo come uno straccione itinerante insensibile ai beni di questo mondo.

Ammesso che certi suoi precetti coincidessero con quelli delle scuole filosofiche o rabbiniche del tempo, i vangeli ce lo mostrano attento ai sensi, alla corporeità, alla carne. Mangia e beve con i suoi; guarisce le infermità del corpo; è presente a un banchetto di nozze; frequenta e ama discepoli e discepole. Le sue parabole del Regno sono il più delle volte nel segno della gioia riassunta nelle metafore delle nozze e del banchetto. Gesù ce lo siamo raffigurato etereo, asessuato.

Vergine la madre, vergine lui stesso e, piano piano, abbiamo dimenticato la condizione di quelli che chiama a seguirlo, i quali, vergini o non vergini, rispondono al suo invito, lo seguono incondizionatamente, sedotti dal suo carisma, ma non per questo smettono di avere moglie o figli, o disdegnano la mensa o l’allegrezza contagiosa del seguirlo e dello stare insieme. Non so dove sia nata l’idea che l’ideale evangelico s’incentrasse tutto nella continenza e che questa significasse in partenza disprezzo della sessualità e del corpo sessualmente segnato.

Di certo tutta la precettistica cristiana, tutti i divieti che punteggiano la nostra esistenza, hanno la loro radice in una corporeità “irredenta”, come se il Figlio di Dio non avesse preso carne. Essere femmina: che disgrazia! Essere maschio: che privilegio! Alle donne s’è chiesto subito di “diventare maschio”, di sanare la scissura del loro sesso, di contrastare la rottura inflitta dal loro essere al mondo alla purezza/ interezza (maschile) dell’uno. Negativamente “seconde”; negativamente “perforate”; diabolicamente portatrici di un’interpellanza che va dritta alla carne dell’altro. L’ascesi, la continenza, la verginità sempre e comunque riparo, bastione alla corruzione di un’impura mescolanza.

Ho studiato a suo tempo la molestia nuptiarum. I temi erano quelli della cultura greca, della sua tradizionale androcentrica misoginia. Come li abbiamo bene metabolizzati! Come ci sono serviti per invitare gli uomini e le donne a sconfiggere il demone della sessualità, ad annullare la loro corporeità per vivere come “angeli”! Si capisce allora come sia diventata “peccato” la scoperta della nostra identità sessuata, le modalità istintive del prenderne consapevolezza.

Peccato è diventato la domanda, la ricerca dell’altro. Peccaminoso lo stesso remedium concupiscentiae, il matrimonio, tollerato in funzione della permanenza della specie, ma da usare solo a questo scopo e quanto basta. Tutto ci è diventato impurità, porneia, indipendentemente dal fatto che lo fosse veramente, scambiando per sporcizia la stessa fisiologia, lo stesso ciclo che segna la nostra identità sessuata. Ci siamo inventati addirittura una purificatio Mariae, dimenticando che la madre del Signore non aveva di che purificarsi.

L’innocenza della carne diventa offesa a Dio quando s’intreccia al dispositivo globale dei comandamenti.

 

La peccaminosità nasce nel cuore
Nella casistica del sesto comandamento, nei peccati condannati dalla nostra casistica morale, spesso leggo nient’altro che l’orrore della carne, quello stesso che nel Te Deum ci fa cantare: «Non horruisti virginis uterum ». L’idea che il Figlio di Dio possa serrarsi nelle umide viscere di una donna risulta sconvolgente al punto da mettere in secondo piano il miracolo dell’incarnazione, la santità di colui che s’incarna e quella stessa di colei che lo accoglie.

Personalmente trovo in questo antico inno una riproposizione di quel «nato da donna» di Gal 4,4 che con buona pace dei miei colleghi mariologi non è tanto la prima e più antica memoria di Maria, quanto la presa d’atto del paradosso sconvolgente dell’incarnazione: nascere, appunto, da donna, umiliarsi nel senso dell’abbassamento, del fare propria la prigione, il limite del corpo per assumerlo come proprio. Naturalmente, e intendo mostrarlo, non è che i peccati di cui parliamo non siano tali.

È peccato violare l’innocenza; è peccato abusare dei piccoli e degli adulti; è peccato chiudersi egoisticamente nella solitudine della propria carne; è peccato rifiutarsi al dono della vita; è peccato guardare con impudicizia chi ci sta accanto; è peccato commettere adulterio. Ma prima che tutto ciò si configuri come peccato sta, a monte, l’accettazione di sé, della propria corporeità, la cura verso il proprio corpo e il corpo altrui, l’accettazione del nostro limite, del sangue e della carne di cui siamo intessuti e che non sono poi così lontani da ciò che chiamiamo spirito.

È dono di Dio questo corpo di carne; sono dono di Dio tutti e cinque i sensi; è dono il sesso che ci connota, segnaletica della dialogia ontica di colui che ci ha voluti a sua immagine, che ci ha radicalmente fatti domanda, ricerca infinita di lui e di quanti/quante ce ne rendono fruibile, immediatamente fruibile l’immagine. Impuro non è certamente il desiderio dell’altro/a. Impuro non è l’ascoltarsi dentro per riconoscersi indigenti dell’altro/ a, della carne dell’altro/a. Impuro non è l’amore anche se si intreccia a sudore e a sangue. Impuro è piuttosto ciò che il nostro “spirito” cova alienandosi da Dio e che non viene necessariamente dalla carne, ma piuttosto viene dall’intimo, dalle facoltà cosiddette “spirituali”.

Non a caso abbiamo richiamato le parole evangeliche, quelle relative alla peccaminosità di ciò che esce dal cuore dell’uomo, dalla sua incapacità di riappacificarsi con sé stesso e con gli altri; dal non sapere aprirsi all’altro cordialmente, senza ipoteca di possesso, senza volerne il male. Aben pensarci il VI comandamento di per sé evoca un terreno neutro, indifferente. È l’intreccio con gli altri comandamenti che lo declina nella disobbedienza del peccato.

Lo si colga nella prospettiva dei doveri verso Dio: abuso della carne come idolatria; nella prospettiva del rispetto dei/ai genitori: incesto; nella prospettiva del “non uccidere”: violenza in tutte le sue forme sino al dare la morte, al considerare cosa da buttar via, immondizia, il corpo dell’altro; nella prospettiva del “non rubare”: impossessarsi dell’altro/a sino a privarlo/ la della sua dignità; nella prospettiva del “non testimoniare il falso”: calunnia ingiuriosa, disprezzo dell’onore e della onorabilità altrui... Il discorso conduce anche alla dimensione del “non desiderare la donna d’altri”, ovviamente, pur nella ipoteca patriarcale del possesso.

Insomma, l’innocenza della carne, la neutralità che la connota, diventa offesa a Dio e agli altri/e nella misura in cui s’intreccia al dispositivo globale dei comandamenti. Ciò vale ovviamente per la nostra tradizione, avendo noi e solo noi riformulato il comandamento nella forma “non commettere atti impuri”. Cose tutte su cui torneremo ancora a riflettere.

Cettina Militello

© Vita Pastorale, agosto-settembre 2013

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