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150 anni dopo: rifacciamo gli italiani

Le celebrazioni di grandi eventi del passato o di personaggi protagonisti della storia hanno sempre un’origine e un intento rivolti al presente, a giustificazione o a rimedio di una particolare situazione etica, politica o sociale. Le nazioni hanno il loro calendario civile con solennità dedicate agli avvenimenti o alle istituzioni sui quali sono sorte e si sono affermate ed ai quali intendono richiamare costantemente o eccezionalmente i cittadini, calendario che non a caso viene riveduto e corretto a seconda di orientamenti politici, ideologici e sociali che si susseguono.

logo_big.jpgMovimenti sociali e politici iscrivono nei loro stendardi e nei loro programmi le personalità e i motti dei fondatori o di coloro ai quali intendono fare riferimento, talora persino alterando la realtà storica per utilizzarla ai propri fini. Celebrare, se non è solo rifugio nel già avvenuto, può essere modo di essere e di crescere. Ricordare i 150 anni dell’unità d’Italia rientra nel costume della memoria di un dato fondamentale per la esistenza stessa del nostro Paese nell’indipendenza, nella libertà e nell’identità nazionale e tuttavia assume più di altre ricorrenze una evidente funzione d’attualità per quel suo esulare da una cadenza decennale o centenaria, comprensibile pertanto solo in relazione ad una speciale necessità di richiamo alle origini della vita unitaria.

Vi è da chiedersi allora quali possano essere le motivazioni odierne di questo appello alla coscienza di un popolo in risposta agli interrogativi, ai timori ed alle speranze nelle attuali circostanze. Si scorge innanzi tutto un problema d’indole generale connesso con la stimolante e nel contempo contraddittoria sfida tra la globalizzazione – culturale, economica, politica, etica – ed il risorgere dei nazionalismi, dei particolarismi, delle identità escludenti.

Se l’aporia tra universale e particolare è un dato permanente nella storia dell’umanità, è indubbio che il mondo contemporaneo la vive in maniera del tutto nuova rispetto anche al recente passato, mostrando comunque il riaffiorare sia pure con modalità diverse di tendenze ritenute ormai superate ed invece ancora presenti negli strati profondi dell’umanità. Se si trattasse di manifestazioni di una crisi di crescenza della comunità umana, potremmo apprezzarne il valore positivo, da governare comunque in vista di relazioni giuste, di reciproco riconoscimento, di accoglienza e di solidarietà.

L’Italia non sfugge a tale condizione di risorgente polarità tra apertura all’Europa e al mondo e radicamento identitario, che discende poi dal livello nazionale alle sue articolazioni regionali, locali, sociali, quasi con un processo inverso a quello additato già dal Montesquieu quale naturale e necessario modo di realizzare il sistema democratico a partire dal basso e dal particolare per giungere alla comunità politica.

E proprio nei periodi di maggiori trasformazioni del concetto di cittadinanza e di profonde mutazioni economico-sociali, come appunto il presente, diviene pressante il bisogno di riconoscersi come comunità nazionale, come italiani d’Europa, come cittadini di ogni più piccola parte del Paese e di chiedersi che cosa ci unisce pur nelle distinzioni della pluralità, e pertanto in che misura possiamo contribuire a sempre più vaste forme di unità oltre ogni confine, geografico, politico, sociale.

Poiché non è più lo Stato la meta ultima e la condizione preminente di convivenza civile, la struttura istituzionale che fa essere italiani in questo specifico tempo, bensì piuttosto la Repubblica liberamente scelta e fondata sul patto costituzionale, celebrare il 150° significa voler ricercare oggi, pur attraverso la riflessione sul cammino compiuto dalle generazioni che ci hanno preceduto, quali sono i caratteri essenziali, potremmo dire lo stigma attuale dell’italianità. Il che non significa rispolverare un nazionalismo fuori tempo ovvero rinchiudersi dentro gli angusti confini ideali del proprio Paese, bensì al contrario poggiare su solide basi la propria capacità di divenire componente costruttiva della cittadinanza europea, non più definita da convergenze di appartenenze statali e da sbiaditi apporti di culture particolari ma innervata da robuste identità capaci per questo di riconoscersi, di integrarsi e di divenire solide componenti di una autentica comunità, aperta a sua volta agli orizzonti universalistici del nostro tempo.

Si intravede cioè la sfida di un metodo di valorizzazione e di messa in comune delle ricchezze delle diversità, procedendo per gradi ascendenti dalle città e dalle regioni all’interno della Repubblica sino all’Unione europea. Ricordare e mettere a frutto i 150 anni dell’Italia unita implica dunque un vero esame di coscienza del Paese, culturale, civile, politico, etico, e lo sforzo di aggiornarsi, si potrebbe dire reinventarsi come popolo, non tanto traendo dalla sua storia l’insegnamento per evitare cadute ed errori, quanto piuttosto discernendo il patrimonio genetico che ci viene consegnato e del quale siamo comunque portatori e facendoci carico della responsabilità di svilupparlo originariamente noi stessi e di trasmetterlo alla generazione futura.

Ciascuno individualmente, ma soprattutto ogni componente della società italiana, con gli strumenti che le sono propri, è chiamata a compiere questa operazione collettiva di fare il punto e di stabilire la rotta ravvivando lo spirito di avventura civile e le speranze dei cittadini. Così anche i cattolici sono sollecitati a guardare con amore all’Italia e con laicità cristiana al loro percorso dal 1861 ad oggi, liberandosi di geremiadi e di vanti, così come da preoccupazioni di protagonismi nell’oggi, mossi solo dalla ricerca del bene comune e dalla individuazione di ciò che li fa essere e sentire parte integrante della comunità nazionale.

È questa per loro un’occasione opportuna per rispondere all’interrogativo circa il loro modo di esercitare la duplice cittadinanza, secondo le limpide ed impegnative indicazioni del Concilio Vaticano II, non in maniera astratta né meramente risolta nell’intimo della coscienza, quanto piuttosto nella specificità della condizione storica. I recenti ripetuti richiami del papa e dell’episcopato italiano ad una militanza preparata, competente ed attiva da cristiani nella società sono un invito pressante ad impegnarsi a realizzare nel nostro Paese quell’endiadi di eros e agape che vale come stile di vita cristiana ad ogni latitudine, nella quale l’eros sia versione civile di amor di patria e l’agape modelli la fraternità nazionale.

Riflettere e valorizzare l’unità del Paese comporta pertanto dare nuova risposta alla perenne domanda di senso dell’essere italiani, domanda che ogni generazione di cristiani si deve porre, nei momenti felici nei quali è quasi naturale rispondere positivamente e nei periodi di crisi, di difficoltà o di perdita di orizzonte, ben consci che il profilo dell’ italianità dei cittadini non è un dato tracciato una volta per tutte, né la somma di approssimazioni successive nel tempo, ma un obiettivo ed una scoperta da rinnovare continuamente.

Alberto Monticone
© Avvenire, 10 febbraio 2011