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Atei e credenti, insieme oltre la crisi

Non confinarsi nella mistica meditativa, ma interrogarsi (e agire) insieme sull’umanità comune e l’amore vero. Acuto come suo solito, sferzante nella critica vista come occasione di crescita, Maurice Bellet, filosofo e teologo francese, chiede al prossimo «Cortile dei gentili» di Parigi un soprassalto di umanesimo.

Bellet.jpgNel suo «Dio? Nessuno l’ha mai visto», lei ha scritto che credenti e non credenti «sono sullo stesso cammino». Eppure constata ancora «ripartizioni classiche: fede e ragione, religione e laicità, teologia e filosofia». Perché tale contrapposizione?
«La mia idea è che tale distinzione sia ambigua. Certo, credenti e non credenti sono diversi. Ma parlare di opposizione significare sostenere una falsità. In realtà, su certe questioni importanti, si trovano non credenti più vicini alla fede di quanti si dicono uomini di religione. E incontro atei molto più vicini al Vangelo di chi si proclama cristiano».

Un esempio?
«Il criterio fondamentale del cristianesimo è l’amore, "amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato". Qualche giorno fa ho incontrato un medico, ateo: la sua concezione della medicina, rispettosa e umanistica, lo avvicina parecchio al cristianesimo. Non voglio dire che basta essere generosi per diventare cristiani. Affermo solo che l’esperienza ci interroga su cosa sia il credere. La mia proposta non vuol dissipare l’idea di fede bensì cercare un discorso più rigoroso sul cristianesimo. Se Dio è Dio, egli deve stare al suo posto e ogni relazione cambia. Il nodo è far ordine nel cuore della modernità. Il punto da cui iniziare, il più necessario, è non divaricare i cammini dell’uomo».

Oggi – cito una sua espressione – siamo davanti al «crollo della speranza». Ad essa Benedetto XVI ha dedicato la sua prima enciclica. Quale speranza può offrire il cristiano al mondo?
«Penso sia necessaria un’esperienza di speranza capace di superare la caduta delle speranze. È crollata la fiducia nel progresso e nel pensare di essere in cammino verso il meglio. Per questo vi è necessità di un’esperienza che vada più lontano di ogni orizzonte. Il credente deve indicare le realtà che stanno oltre l’orizzonte della storia. In teologia parliamo di escatologia, cioè il cristianesimo quale portatore di una speranza che supera ogni scoraggiamento. Tutto ciò trae origine dalla resurrezione di Cristo. Dopo il Calvario i discepoli erano disperati; quando parlano a Gesù sulla via di Emmaus, i due dicono: "Pensavamo fosse lui il messia". "Pensavamo": un verbo all’imperfetto, eccezionale, che parla della disperazione che provavano verso Cristo. Oggi siamo in una fase creatrice in cui il cristiano deve annunciare all’uomo la non rassegnazione. Tale annuncio deve avvenire in tutti i luoghi, ma il più fondamentale, affinché l’uomo resista alla follia, riguarda il creare luoghi di accoglienza. Nella vita sociale, nella politica, nella crisi economica, c’è sempre un lavoro da fare per migliorare la situazione. Mi piace parlare dell’uomo di fede come di un lavoratore incrollabile. La radice del suo impegno è quel Vangelo che suscita in lui un risveglio. Questa capacità di futuro non è presente in altre saggezze religiose: nel Vangelo esiste un’incrollabile volontà di vita».

Lei è psicoanalista: quest’ultima può offrire un contributo positivo allo scambio fra atei e credenti?
«Bisogna intendersi su cosa significhi psicoanalisi. In Francia coloro che la praticano sono praticamente tutti atei. Ma fondamentalmente la psicoanalisi è un’esperienza: si tratta di fare ordine nella propria vita per essere nella verità, e non vivere secondo le costruzioni moralistiche che ci diamo. Perciò la psicoanalisi può stare a fianco di quella Parola che parla alla realtà e non alla teoria».

Lei ha dedicato molto del suo impegno intellettuale al tema dell’idolatria.
«La relazione con Dio non è mai definita: può capitare che diventi alienante. Io posso arrivare a sottomettere Dio e imporgli le mie idee: questa è l’idolatria. Qui interviene la psicoanalisi: Cristo stesso ha lottato con le ideologie religiose. Ho scritto un libro sul "Dio perverso": si può affermare che Dio sia amore, ma arrivare a considerarlo crudele in nome della colpevolezza umana e così giungere alla perversione. Bisogna purificare la nostra relazione su Dio».

Lei considera l’impegno per la giustizia (ad esempio, la Resistenza contro il nazismo) come una possibilità per unire credenti e atei. Il giusto però crea divisioni. In che modo uscire da tale confusione?
«Un tempo il dibattito si svolgeva su fede e ateismo. Oggi si attesta su chi, per dirla con Marx, lavora a favore dell’umanità e chi si preoccupa del guadagno in nome dell’egoismo. Di recente ho incontrato alcuni atei i quali mi hanno ricordato come il centro del cristianesimo sia l’agàpe. Ma il nodo è capire cosa vi sia dentro questa espressione, che vale molto più dei diritti umani o della giustizia retributiva. Occorre ripartire dalla comunione fra gli uomini per arrivare a Dio. Bisogna iniziare da Cristo e dal suo rapporto verso la violenza da lui subita dalla religione e politica del suo tempo. A chi dichiara: "Preferisco parlare di Dio, occuparmi di mistica, interessarmi della meditazione…", io dico: "Sbagli! Esiste un’altra possibilità, ripartire dalla nostra umanità e da quella di Cristo". La più forte tentazione d’oggi consiste nel cercare un cristianesimo del tutto compatibile con la mentalità moderna. Serve una fede che parli alla nostra società, ma che non piaccia ad ogni costo».

Su quali aspetti la fede cristiana dovrebbe sfidare la società moderna?
«La riduzione di ogni cosa ai propri umori e voglie. Ovvero la questione della trascendenza di Dio. Feuerbach denunciava l’immanenza del cristianesimo: se Dio è amore, allora l’amore è Dio. Egli invitava a far senza Dio perché inutile. Tanti cristiani hanno un Dio a loro somiglianza, e poi non ne hanno bisogno. Però bisogna avere rispetto per quanto nato dal cristianesimo (tutt’altro rispetto al tradizionalismo): non dobbiamo abbattere nulla della tradizione. Al contempo serve la capacità di innovare, purificare il linguaggio e superare il dottrinarismo (altra cosa è la dottrina)».

Lorenzo Fazzini
© Avvenire, 8 febbraio 2011
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