Chiesa e social media: primo lasciar parlare
Il fenomeno dei social media offre alla Chiesa tanto una sfida quanto  un'opportunità. I social media raggiungono la gente - milioni di  persone ogni giorno sono su Facebook e su Twitter. La  Chiesa non può ignorarli. Però queste persone sono interattive e non  accettano conversazioni a senso unico. Il che implica dialogo, che è  qualcosa di non sempre benvenuto da parte del clero, dei maestri e di  altri leader. La frase «Perché ho detto così» non funziona nei social  media. Cosa questa che non fa molto piacere a quei genitori o a quei  leader che per anni se la sono cavata così, esasperati da petulanti «Ma...» o lamentosi «Perché?». I vegliardi devono abituarsi a questo tipo di dialogo. Alcuni anni fa  ho frequentato un corso di dottrina sociale. Pensavo che sarebbe stato  un viaggio intellettuale, finché non mi sono ritrovata in una classe di  studenti che volevano discutere ogni lezione. Il docente - sì - amava  quest'interattività, ma io gemevo interiormente a ogni divagazione. Da  ex insegnante apprezzavo il botta e risposta che aiuta ad aprire la  mente, ma volevo un insegnamento chiaro e capace di far emergere i  contenuti che aveva da offrire. Forse era il mio dinosauro interiore che  veniva fuori... La Chiesa ha una lunga tradizione di questa didattica dall'alto in  basso. Ha biblioteche intere di tomi che esplorano le verità teologiche.  Ma questa è solo una parte del nostro essere Chiesa. Un altro suo volto - quello pastorale - è aperto al dialogo. Ed è un  atteggiamento che ha il suo fondamento nel Vangelo stesso (si veda ad  esempio la samaritana che conversa con Gesù al pozzo). Sul livello  personale, il dialogo che nasce a partire dalle parole «Possiamo  parlarne?» è da anni parte integrale dell'essere Chiesa, un conforto a  genitori spaventati, a mogli frustrate, a lavoratori abusati, a ragazzi  confusi. Forse i social media possono aiutare la Chiesa a impegnarsi di più in  questo dialogo. Ma non è facile. Richiede energie, specialmente energie  emotive. Perché parlare - e dialogare - è un lavoro. Molti capitani d'azienda sbandierano il fatto di avere una presenza  sul web, ma non accettano domande ed evitano l'interattività, anche se  magari mandano una risposta automatica del tipo «Grazie per il tuo messaggio». Sarebbe molto meglio se puntassero su un annuncio pubblicitario, con l'onesta implicazione che non vogliono un feedback.  Se vuoi essere onesto sui social media devi rispondere alle domande.  Devi discutere. Devi accettare e anche cogliere come un'opportunità il  fatto di essere sfidato. Qui alla Conferenza episcopale degli Stati Uniti abbiamo account su Facebook e su Twitter.  Offrono l'opportunità di condividere, ma fanno anche sorgere i punti di  attrito che sono inevitabili in ogni dialogo. Alcune persone sono  d'accordo con te, altre no. Alcune vogliono contrastarti. Tutti loro,  però, appartengono alla nostra comunità virtuale e per questo meritano  rispetto. Alcune persone che scrivono un post sulla nostra bacheca  chiedono alla community di condividere il loro dolore, forse  anche la morte di un coniuge. Altri postano riflessioni su una festa  liturgica o sulle letture del giorno, aggiungendo così una nuova  prospettiva a un momento della Chiesa. Ma c'è anche chi scrive per darti  battaglia e la prima reazione sarebbe quella di schiacciare il tasto «cancella».  Noi cerchiamo di non farlo, dal momento che l'essenza della comunità  virtuale è il dialogo. Se scoppia una mischia virtuale, la nostra  speranza è che tutti - compresi i nostri compagni virtuali - possiamo  uscirne più illuminati. È un rischio che vale la pena di correre. Anche  perché le conversazioni virtuali crescono di importanza quando la  frequenza alle nostre chiese diminuisce e meno persone entrano in  relazione con una parrocchia a cui legarsi nelle tempeste della vita. Internet - ovviamente - non può sostituire la comunità che celebra  l'Eucaristia, dove puoi riconoscere gli altri dalla panca che scelgono o  da come i loro figli crescono. C'è un calore che nutre anche nella  conoscenza molto vaga di coloro con cui preghi ogni settimana. I social media, però, hanno un posto nella Chiesa del XXI secolo,  anche se alcuni vegliardi saranno costretti a entrarci con colletti,  rosari e croci messe di traverso. Facebook, Twitter e  gli altri social media possono essere strumenti degni del Vangelo per  nutrire la nostra vita di fede, anche se qualcuno con loro sta ancora  solamente scaldando i motori. Mary Ann Walsh © www.vinonuovo.it, 10 ottobre 2011
Apriamo la settimana con un testo  sulla Chiesa e i social media che suor Mary Ann Walsh - la religiosa che  è responsabile delle relazioni con i media per l'Ufficio per le  comunicazioni sociali - ha pubblicato qualche giorno fa sul blog  della Conferenza episcopale degli Stati Uniti. Una riflessione  interessante su come i nuovi media chiedano sempre di più di accettare  di fare i conti davvero anche con chi ci contesta. 
            