Arcivescovo

S.E. Giuseppe

Satriano

IN AGENDA

Come Dostoevskij in surf sulle parole

I racconti del buonumore 23

ima-sorriso.jpg

Una delle esperienze che mi ha più lasciato il segno in quella fase dei vent’anni in cui tutto sembra luminoso, ma anche indistinto è l’incontro con un’attrice e traduttrice polacca, Ludmilla Ryba. Somigliava a una bambola paffuta, di quelle che coprono i samovar e mi rimproverava l’attitudine italiana a ridere del Don Chisciotte. Noi dell’est, mi rivelava, noi a leggere certe pagine del Don Chisciotte piangiamo. Perché mai? Le ribattevo sorpreso. «Perché è l’immagine vivida del fallimento, della vita come tragedia».

Da allora mi si è intrufolato un sospetto, che tragedia e comicità non sono generi così lontani e che molti effetti che portano al riso hanno una radice tragica. Brodsky nel suo saggio su Dostoevskij ci racconta che lo stile di questi è «trascinato» dagli effetti comici che la lingua russa produce. Anche nei passi più tragici Dostoevskij si fa «prendere la mano» dalla lingua e una parola tira l’altra per allusioni e assonanze e alla fine l’effetto è una tensione verso il riso più che verso il pianto. Bachtin ha pagine magnifiche sul risus pascalis sul fatto che la Pasqua cristiana annunciasse la liberazione dalla morte e il passaggio dalla tragedia alla vita con rituali in cui ci si sganasciava dalle risate, il sacerdote in testa a tutti. Ridere, mi diceva una volta Ivan Illich, è l’unica cosa che allontana davvero il diavolo. E lui, da buon slavo e di famiglia ebraica attingeva a un mondo sotterraneo in cui tutto questo aveva un senso solido.

Nel bellissimo libro di William Blacker, Lungo la via incantata (Adelphi) si racconta di una popolazione contadina transilvana rumena, i Maramures, rimasti fino alla fine degli anni 90 del Novecento profondamente attaccati alle loro tradizioni. I funerali, nella tragicità degli eventi luttuosi vengono da loro celebrati come una festa in cui bisogna anche imparare a ridere, a raccontare fatti del morto che inducano al riso. Deve essere una tradizione presente nel fondo ancestrale di molte culture europee e mediterranee. Il "Museo archeologico Bernabò Brea" di Lipari contiene una collezione incredibile di maschere della commedia greca di Menandro. La commedia era legata ai rituali dionisiaci che nell’isola si svilupparono dal terzo secolo avanti Cristo fino al secondo dopo Cristo.

Le rappresentazioni duravano intere giornate e avevano un aspetto sacro, erano nell’insieme rituali di preparazione al passaggio a un’altra vita celebrati con il teatro e con il vino: il malvasia che Lipari produceva e produce. E le collezioni che oggi sono esposte al Museo di Lipari sono state rinvenute nelle tombe degli abitanti greci dell’isola. Il riso della commedia accompagnava il passaggio a un altro mondo. E ancora in Sicilia, a Noto, al funerale di Lisfera nel 1997, un uomo arguto e semplice, saggio e apparentemente idiota, in cui tutti ravvisavano l’incarnazione di Giufà, un personaggio popolare della tradizione siculo-mediterranea tutti ridevano.

Si raccontavano le cose che Lisfera aveva combinato, i tiri burloni, le assurdità, gli equivoci. Lui aveva lavorato al cimitero di Noto, ma lo si trovava spesso addormentato su una tomba. Al rimprovero del guardiano del cimitero, rispondeva: «Ma c’è scritto dappertutto "Riposa in Pace"». La mediazione tra pianto e riso è la parola. C’è nella cultura popolare un gioco della lingua che somiglia molto a quello che ci racconta Brodsky su Dostoevskij.

La lingua, quella parlata, quella di tutti i giorni è come se avesse una deriva che la fa scivolare nel comico e nel non-sense. Proprio perché chi la usa senza rispetto (accademico), come accade nelle culture orali, sa che c’è una discrepanza tra significato e significante, le parole lasciano un vuoto che si può riempire arbitrariamente, le parole sono in balia di connotazioni e rimandi, allusioni e assonanze che fanno sì che spesso ribaltino quello che si vorrebbe dire. Basta restare un po’ in piazza ad ascoltare i vecchi, ma anche i giovani di borgata lo fanno.

C’è nella lingua qualcosa che vi prende la mano e che vi fa ruzzolare verso dove non avevate previsto. Se ci fate su il surf, sulle parole, se sapete glissare su di esse (in inglese si chiama code-switching questo gioco e ne sono maestri i neri dei ghetti col il loro signifying (buona parte del rap si gioca su questo) vi vengono fuori tutti gli effetti comici. Una delle componenti principali di questo sport è lo "sfottò", l’irridere qualcuno presente. È un esercizio difficile che richiede molta abilità. Perché se si esagera si arriva alle mani, ma se si è troppo leggeri nessuno ride.

Il gioco sta nel far ridere di sé anche il malcapitato. Essere oggetto di sfottimento, di teasing, di una provocazione basata sulla pungente ironia e a volte sul sarcasmo richiede altrettanta perizia. Non bisogna mai prendersela e invece bisogna saper ribattere a puntino. Ma quanto bene fa all’ego e al nostro narcisismo perdurante, questo vedersi demolire in pochi secondi con una battuta! A volte lo sfottò arriva col silenzio con una smorfia della faccia, con un gesto. A volte con il solo interrompere per un attimo l’altro che parla. Quando si parla di comico spesso si dimentica il suo aspetto dialogico, interattivo, pragmatico, il fatto che la comicità è contestuale, richiede degli astanti e deve stare dentro le regole non scritte dei contesti culturali, quelle per cui una battuta a volte è comprensibile solo nella lingua o nel dialetto in cui viene lanciata.

La vita sarà pur difficile, ma cosa c’è di meglio che i giochi di parole tra amici, quel "sivo" come lo chiamiamo in Sicilia (e sivo è il grasso sdrucciolevole che si mette sotto le barche per farle scivolare) per cui le botte e le risposte si fanno sempre più veloci e gli insulti tra amici si trasformano in una poesia bellicosa di doppi sensi? E allora anche il tragico può diventare riso, e se non l’avete mai provato, beh allora vi manca davvero qualcosa di importante nella vita, qualcosa che la rende tollerabile, soave anche nella sua difficoltà e nel suo offrirvi non sempre il lato migliore.


 
Franco La Cecla
 
© Avvenire, 28 agosto 2012
Prossimi eventi