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«Come si fa a misurare la dignità di una vita e dare l’eutanasia?»

Angelo Mainini, direttore sanitario della Fondazione Maddalena Grassi, che ha assistito anche il Dj Fabo: «Una legge che stabilisca il limite oltre il quale una vita non è più degna di essere vissuta è impossibile perché non tiene conto della realtà concreta delle persone. Io sono a contatto con i malati tutti i giorni, la stragrande maggioranza di loro lotta per vivere»

angelo-mainini-foto_2487713.jpg«Se affrontiamo il tema del fine vita con un approccio teorico o ideologico è finita. Una legge sull’eutanasia che stabilisca il limite oltre il quale una vita non è più degna di essere vissuta è impossibile e inumana perché non tiene conto della realtà concreta delle persone. Io sono a contatto con i malati tutti i giorni, so di cosa parlo». Angelo Mainini, medico fisiatra, è responsabile sanitario della Fondazione Maddalena Grassi, realtà laica specializzata nell’assistenza domiciliare ai disabili gravi e attrezzata per i casi più complessi. Tra i suoi ex pazienti c’era anche Fabiano Antoniani, deejay Fabo, che Mainini ha seguito per due anni, cinque giorni a settimana, dopo l’incidente del 2015: «Avevo scritto io il suo piano di riabilitazione, all’inizio collaborava con grande volontà, poi è successo qualcosa. Alla paralisi è subentrato un danno cerebrale che gli ha tolto la vista. Quando si è reso conto che il suo desiderio di guarire o recuperare non poteva avvenire si è come lasciato andare».

Il caso di Fabiano Antoniani è tornato d’attualità dopo la sentenza della Corte Costituzionale su Marco Cappato, imputato a Milano per aiuto al suicidio in base all’articolo 580 del codice penale.

La Corte Costituzionale ha affermato che in Italia sul fine vita c’è un vuoto normativo e ha chiesto al Parlamento di colmarlo.

«È evidente che l’obiettivo finale è arrivare ad approvare l’eutanasia attraverso il suicidio assistito. La legge attuale sulle DAT (disposizioni anticipate di trattamento, ndr) consente già di rifiutare alcune cure o un respiratore, in pratica si può già decidere di morire. Non basta? Ricordo che in Svizzera l’eutanasia, ipocritamente chiamata suicidio assistito, è fornita persino ai casi di depressione quando cioè la persona non è certamente lucida e cosciente, come richiede la legge, per prendere una decisione così definitiva».

È possibile “misurare” la sofferenza e fissare un limite oltre il quale è meglio morire?

«No, nella maniera più assoluta. Sono a contatto con persone che si trovano in situazioni di gravissima disabilità, che hanno bisogno di essere assistite in tutto e per tutto e addirittura alcune collegate ai macchinari per le funzioni vitali. Eppure, anche in questa condizione di estrema sofferenza, ritengono dignitosa e bella la vita che fanno. La loro positività e voglia di vivere sono di grande insegnamento per me e i miei collaboratori. Ogni volta rimango sorpreso e stupefatto. Spesso li guardo e mi chiedo dove trovano tutta quella forza, quell’energia vitale. Un po’ la trasmettono anche a noi medici, ai familiari, a chi gli sta accanto».

Vale per tutti?

«È soggettivo, altri magari non hanno questo approccio e di fronte a difficoltà, anche minori, sentono un peso enorme perché non hanno le motivazioni per lottare e andare avanti».

Tra i due atteggiamenti, lottare o lasciarsi andare, quale prevale?

«Quello di lottare. Pensiamo all’astrofisico Stephen Hawking, malato di SLA per 21 anni. Non era religioso e uomo di fede eppure ha amato la vita fino all’ultimo. Incontro molte persone dementi che non riconoscono neanche più i propri figli però con loro al fianco vanno avanti forse perché si sentono accuditi, amati, non abbandonati. Nei paesi del Nordeuropea alle persone affette da demenza viene data l’eutanasia. È come dire: “la tua vita in questo stato non serve più a niente”. Ma questo è un concetto utilitaristico della vita. Sarebbe questo il progresso? Se è questa la prospettiva che ci aspetta spero di non esserci più perché una logica così spietata mi fa paura e non è umana, né corrisponde alla realtà come molti vorrebbero farci credere».

Cosa dà la forza a persone in queste condizioni ad andare avanti?

«Ci sono tante variabili, ogni storia è diversa dall’altra. Ci sono malati che cominciano a lottare appena sanno che la figlia aspetta un bambino o deve laurearsi. Sono motivazioni per desiderare e sperare, per lottare per la vita».

Come giudica la legge sul biotestamento e le DAT approvata meno di un anno fa?

«Io non sono un filosofo o un teologo. L’esperienza mi dice che prima, quando si è in salute, non è possibile stabilire un bel niente. Bisogna trovarsi in certe situazioni. Lo sguardo sulla malattia cambia. Tanti miei pazienti, per esempio malati di SLA, non se la sentono di affrontare il futuro di una malattia come la SLA dove l’evoluzione è abbastanza standard anche se non è mai uguale per tutti. Intanto si comincia, insieme, un percorso di cura e si va avanti. Si avvia una storia, c’è una compagnia vicendevole, con i familiari, i professionisti, ci si aiuta fino a quando si dovrà decidere. Nel frattempo, lo sguardo muta. Ripeto: un conto è la teoria, un conto è la situazione reale e concreta. Abbiamo avuto dei pazienti che non volevano la tracheotomia e poi quando è arrivato il momento l’hanno chiesta e oggi sono contenti della scelta, altri non la vogliono e si entra in una fase di cure palliative per alleviare i sintomi, per accompagnare serenamente il naturale decorso della malattia. Anche il catechismo della Chiesa cattolica prevede che uno possa scegliere di rifiutare cure straordinarie o sproporzionate alla malattia, cioè l’accanimento terapeutico».

Le DAT quindi non risolvono il problema?

«Sono strumenti. Sarà interessante vedere fra 5 anni quante persone le hanno utilizzate. Io sono convinto che saranno pochissime. È come voler mettere il bianco o il nero sull’arcobaleno, la vita è un arcobaleno».

È rimasto sorpreso dal clamore mediatico attorno alla vicenda di Fabiano Antoniani, il dj Fabo?

«Il suo caso è stato molto strumentalizzato. Io penso che sarebbe meglio parlare di più delle famiglie che assistono queste persone e di quello di cui hanno bisogno per farlo».

Di che cosa?

«Sostegno economico e materiale. Serve un supporto professionale, seguire un malato di SLA è faticosissimo. Servono almeno due persone 24 ore su 24, per esempio. La Regione Lombardia offre dei sostegni economici e anche alcune strutture per chi si trova in stato vegetativo. E poi c’è bisogno del sacerdote, dello psicologo, del pneumologo, dei volontari, di attrezzature adeguate per uscire da casa, dell’assenza di barriere architettoniche. Ci vuole un’attenzione a 360 gradi perché la vita sia degna di essere vissuta. Voi giornalisti dovreste parlare di più dei bisogni di queste famiglie. Sono tante, spesso invisibili e non vanno abbandonate a se stesse».

Antonio Sanfrancesco

© www.famigliacristiana.it, lunedì 29 ottobre 2018

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