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Dalle sue piaghe siete stati guariti. “Vedere l’uomo sofferente con lo sguardo contemplativo”

Relazione di P. Alfredo Marchello, in occasione della Giornata di formazione permanente dei Ministri Straordinari della Comunione, tenutasi sabato 29 gennaio 2001, presso il Politecnico di Bari.

Sofferenza.jpgVedere e contemplare sono due cose diverse, s’intende. Chiunque abbia il dono della vista fisica può vedere ma non tutti contemplano… Contemplare non è altro che vedere l’insieme - la globalità del tutto - cogliendo il senso dei dettagli. Non significa capire tutto, ma cogliere in uno sguardo il senso e l’unità del tutto.

Chi di noi non vede la sofferenza? Quale però ne sia il senso è un altro discorso, vero? Il problema non sono tanto i dettagli, poiché la nostra conoscenza è fondamen­talmente analitica, ma non facilmente sintetica.

Contemplare chi? L’uomo sofferente. E chi di noi non lo è? In molti sensi lo siamo tutti, ma se qualcuno dicesse di non esserlo, magari perché non ha particolari problemi di salute, e pensasse che per sofferenza si intende primariamente ciò che riguarda la salute fisica, anche questo non basta a dire che egli non ha a che fare con la sofferenza. Che io oggi “stia bene” non significa infatti che starò bene tra un’ora o tra un mese. La sola paura o la remota possibilità di una sofferenza fisica è sufficiente in molti casi a togliere alla vita ogni gioia. La verità è che non c’è uomo che non abbia a che fare con la sofferenza, o presente o nella possibilità di essa in prospettiva. Tante le risposte date nella storia, dal “non pensarci” al “non darla vinta”, dall’epicureismo allo stoicismo.

L’uomo sofferente. Quale uomo? La nostra fede infatti insegna che altro è l’uomo quale Dio lo ha pensato al principio, altro è l’uomo nella presente condizione. La morte e la pena non sono parte del disegno iniziale del Creatore, eppure eccoli far parte ogni giorno della nostra esperienza. Come mai avviene così nella storia del mondo? Si tratta di qualcosa di giusto o di ingiusto?

In altre parole: perché la sofferenza? Non sarebbe migliore dimostrazione dell’amore di Dio se tutti stessimo bene, in buona salute, mangiando e bevendo e vivendo fino a cent’anni? Perché mai esiste la sofferenza… E perché anche la morte? Se anche non dovessimo soffrire per tutta la vita, godendo ottima salute, e quindi senza mai invecchiare, senza acciacchi, senza la mortificazione dell’invecchiamento nel suo comportare perdita delle forze fisiche e facilmente delle facoltà mentali, senza quel decadere di cui facciamo esperienza ogni giorno… Se anche non dovessimo invecchiare, e mai avvertire il venir meno, sempre giovani e forti in grado di godere il bello della vita, non resterebbe davanti a noi il dilemma della morte? Diciamo la verità, vorremmo non dover mai morire, è vero? Perché dare quel dolore a chi ci ama, perché andar via per non rivederci più, in questo mondo almeno?

Ciò che sperimentiamo è che la nostra vita non è così come la pensiamo noi. Noi vogliamo star bene ed essere felici, senza dolori, senza cattiverie, senza ingiustizie, senza guerre, senza furti, omicidi, violenze.. è vero? Chi non desidera questo? Ogni volta che guardiamo il telegiornale e sentiamo di scandali, guerre, violenze, sofferenze, qualcosa in noi si ribella, ci chiediamo come possa esistere al mondo chi compie tali scelleratezze, diciamo che ci vorrebbe più giustizia “Ah, se tutti fossero brave e buone persone come lo sono io”: chi non ha mai pensato così qualche volta almeno?

Ma sapete cosa ci insegna la vita, presto o tardi? Che la violenza e il male e l’invidia e le gelosie e l’orgoglio e tutto il resto non sono fuori di me, nel “mondo cattivo” nel quale viviamo, come diciamo quando ascoltiamo i notiziari, facendo tanto gli scandalizzati, ma quel male sta tutto quanto dentro di me… Non dico un pochino, ma tutto quanto. Ascoltate cosa dice Gesù nel vangelo di Marco:

«Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo. […] Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Cfr Mc 7,14-23)

La stortura e l’apparente ingiusta condizione che vediamo fuori di noi esiste allo scopo di rendere evidente la stortura e la condizione che abbiamo dentro. Tutti vorremmo intorno a noi giustizia, armonia, ordine, bellezza di relazioni, felicità e gioia…salvo poi il fatto che ogni giorno, molte volte al giorno, io - proprio io - mi comporto in modo tale da minare intorno a me queste cose che cerco e a volte pretendo vedere negli altri.

Chiedo: è mai possibile che il mondo sia bello e felice e senza dolore, laddove in ogni uomo, a cominciare da me che vi parlo, si annida una fontana di male che erutta fuori ogni stortura di continuo? La risposta è no. Qualcuno potrà dire: se noi siamo così è perché il mondo è cattivo. Davvero? Abbiamo davvero bisogno di chi ci insegni a mentire? E ad essere fondamentalmente egoisti? E a cercare il nostro interesse prima di tutto? E ad essere manipolatori? E finti… e così per una lunga lista? No, non occorre insegnare all’uomo a fare il male, se è vero ciò che ha detto Gesù nelle parole citate sopra, ma al contrario è necessario insegnare all’uomo una alternativa, un modo alternativo di esistere, nel senso di una nuova base su cui fondare la vita nella pratica quotidiana.

La sofferenza che vediamo fuori di noi è permessa da Dio, tollerata da lui, e lo scopo non è la mortificazione, ma la vivificazione dell’uomo, come dirò tra poco.

Attenzione: ne segue che la sofferenza di un individuo non è necessariamente la conseguenza del suo personale peccato. A volte può senz’altro essere così, dal momento che noialtri siamo ben capaci di procurarci sofferenze con le nostre scelte sbagliate. Ma in genere non è così, come insegna Gesù nel vangelo di Giovanni a proposito del cieco nato:

Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9,1-5)

Spesso, e lo vediamo tutti, certe situazioni di sofferenza sono grandi opportunità nella vita, per chi le vive e ancora più spesso per chi gli è vicino. Notiamo però adesso appunto che non è detto che la sofferenza debba andare sempre e solo a chi se la merita. Abbiamo detto infatti che non si tratta del mio problema o del tuo, ma di tutti quanti noi. E abbiamo anche visto che la distinzione degli uomini in buoni e cattivi sulla base dei nostri criteri non è affatto valida e consistente. Se non ho commesso certe nefandezze, non è perché io sia migliore di chi le ha commesse. Di sicuro nella sua situazione, con la sua storia personale e familiare, con le stesse opportunità e con gli stessi stimoli… avrei fatto lo stesso o anche di peggio. La medesima natura umana che è in me è anche in lui, e se in lui essa è stata capace di quelle cose, di sicuro lo è anche in me, nelle opportune condizioni.

Ecco che la sofferenza e la morte non sono altro che la manifestazione all’esterno di una situazione che ci portiamo all’interno - tutti - nessuno escluso. E dire che i cattivi dovrebbero soffrire mentre i buoni dovrebbero godere significa non aver capito come stanno le cose in profondità. Abbiamo bisogno, oltre che di vedere, di contemplare. Vedere l’uomo sofferente con uno sguardo contemplativo, dove per uomo sofferente si intende ogni uomo. Vedere la mia vita così, la vita delle persone a cui mi avvicino... Sofferenza e morte non sono una punizione divina, sebbene spesso le si presenta così. E non sono neppure delle prove, quasi che Dio si diverta a disseminare bucce di banana sul nostro cammino per vedere se siamo così bravi da non cadere. No, Dio non è fatto così.

Non si tratta dunque di punizione. Appare come una punizione quando viviamo queste cose resistendo e ribellandoci. Ma esse sono state date dopo la rottura originaria del rapporto tra Dio e l’uomo allo scopo di aiutarci, come mezzi mediante i quali ci viene ricordata la verità, mezzi intesi a contrastare il sottile orgoglio che il nemico del bene ha impiantato nella nostra razza e che ci fa continuamente immaginare ogni sorta di cose illusorie che non sono vere per nulla, che cioè noi siamo i condottieri della nostra vita, gli artefici del nostro destino, capaci di governare la nostra esistenza con indipendenza gloriosa e adeguata. Non è questa spesso la lotta educativa tra genitori e figli? “La vita è mia e me la gestisco io”. L’illusione di essere capaci di maneggiare e risolvere i problemi della vita...

Noi uomini siamo talmente arroganti da pretendere di avere saggezza sufficiente a risolvere ogni problema, che possediamo la maturità e la conoscenza per affrontare ogni situazione. Ma le cose di cui stiamo parlando - la realtà della nostra precarietà, insita nella nostra carne - ci ricordano che tutto ciò non è vero. La morte, la sofferenza, la fatica e tante sottomissioni sono limiti a cui non possiamo sfuggire. Essi sono costantemente lì a eliminare i nostri sogni di egocentrismo e spingerci a vedere noi stessi per come siamo realmente. Siamo polvere, siamo semplicemente esseri umani. Siamo limitati, dipendenti, e non possiamo farcela da soli, con le nostre forze: abbiamo disperatamente bisogno degli altri, e abbiamo disperatamente bisogno di Dio.

Non c’è qualcosa in voi che si ribella mentre dico queste cose? Si, è così, lo so bene. È appunto questo che stiamo dicendo… Eppure resta vero che l’ora di maggiore speranza nella nostra vita è quando i nostri occhi si aprono su questa fondamentale verità e diciamo: “Signore, senza di te io non posso vivere adeguatamente. Senza di te la mia vita è impossibile”. Adamo nel giardino mangia il frutto per diventare indipendente da Dio, per essere come lui allo scopo di non aver bisogno di lui, ma il risultato è fallimentare. Tutto nella nostra vita ci ricorda questo. Pensate a Giacobbe che zoppicherà tutta la vita per non dimenticare che la sua astuzia e la sua abilità nell’inganno non possono garantirgli successo sugli altri. Pensate a Mosè che nonostante la sua intimità con Dio paga un gesto di arroganza col non entrare nella terra promessa. Pensate al re Davide, dalla cui casa mai si sarebbe allontanata la spada, a ricordargli che se anche egli è il re scelto da Dio, non tutto gli è permesso. Pensate a san Paolo, che ebbe una spina nella carne che gli fu data, ed egli gridò contro di essa. Ma Dio gli ricordò che gli era stata data per mantenerlo umile affinché egli potesse continuare ad essere uno strumento efficace nelle mani di Dio, dipendente dal suo amore e dalla sua grazia. Fu da quella esperienza che emerse il grandioso grido di trionfo dal cuore dell’apostolo: “Mi glorierò delle mie infermità”. Sono contento di queste cose, dice, e grazie a Dio per esse, “Poiché per la mia debolezza io sono reso forte” (2Cor 12,9-10).

Ricordate la conclusione del salmo 23: “Senz’altro bontà e misericordia mi seguiranno tutti i giorni della mia vita, e io abiterò nella casa del Signore sempre”. Queste due, bontà e misericordia di Dio, nel salmo del pastore, scritto da Davide quando badava al gregge di suo padre, sono come i cani per il gregge, che servono a tenerlo unito, nella giusta direzione, per condurlo al giusto posto. “Sicuramente bontà e misericordia mi seguiranno tutti i giorni della mia vita”, abbaiando, umiliandomi, facendomi ritornare indietro da ciò che sembra bene ma in realtà è male, trattenendomi e impedendomi di ottenere e afferrare ciò di cui penso di abbisognare, e da ciò che mi pare di volere. Ma alla fine devo chiamare queste cose nel modo in cui Dio le chiama, cioè bontà e misericordia!

Non si tratta allora di punizione, ma è la disciplina dell’amore (cfr Eb 12,5-13). Abbiamo bisogno che il nostro orgoglio sia abbassato, umiliato, che il nostro io venga spuntato, che la nostra fiducia nelle nostre forze venga azzerata, la nostra confidenza nelle nostre abilità, nella nostra preparazione, educazione (cfr Fil 3,7-11), tutto messo giù allo scopo di dipendere dal Dio che ci ha creati e che è in grado di essere per noi tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

Ora Dio fa tutto questo con grande sapienza e infinita compassione, non con durezza, ma è necessario che noi lo riconosciamo, contemplando il tutto.

In che modo entri la croce del Signore Gesù è ciò che ora voglio esporre brevemente, secondo il titolo che mi è stato affidato per questo nostro incontro: “Dalle sue piaghe noi siamo stati guariti”, con le parole del profeta Isaia nel capitolo 53 riprese dalla prima lettera di Pietro al capitolo terzo:

Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
(Is 53,5-6)

Affermo che è impossibile per noi comprendere la profondità del problema che ci portiamo dentro, noi che siamo convinti di essere tutto sommato brava e buona gente, fino a che non vediamo la croce di Gesù. Lì è il più innocente degli uomini, ridotto a un brandello, trafitto e schiacciato. Da chi? Dai giudei - ci piace rispondere - vero? O forse dai romani. Magari ancora da quei finti e falsi religiosi che in realtà amavano detenere un potere per il quale il rabbi di Galilea era divenuto una minaccia… e così via con le nostre considerazioni. Ma abbiamo detto sopra che la mia e la vostra umanità non può e non deve essere ritenuta migliore di quella di chiunque nella storia e nel mondo, ricordate?

Ah, allora in quel crocifisso - innocente - non è manifestata solo la cattiveria di quegli uomini perversi, ma … la mia. Si, ed è per questo che la croce di Gesù mette sempre a disagio quando la si consideri seriamente, quando me ne lascio coinvolgere.

Gesù ha voluto la croce, non ha fatto nulla per evitarla. Avrebbe potuto, se avesse voluto, ma non l’ha fatto. Perché? Desiderio di sofferenza? Complesso del martire? No. Gesù ha accettato che nella violenza scatenata contro la sua persona, fosse messa a nudo - smascherata - la realtà del male che si annida nel cuore dell’uomo. Chiunque si faccia illusioni sulla sua bontà, sulla nobiltà del suo essere, e si ritenga migliore di altri, guardi la croce e ne comprenda il significato. Questo è il primo passo verso la guarigione, la sola via possibile all’uomo, che partendo dalla realtà della sua condizione si volge a Dio salvatore. Ecco perché “dalle sue piaghe siamo stati guariti”. Ecco perché “eravamo tutti erranti come pecore” ognuno seguendo la vanità delle sue illusioni e dei suoi sogni di santità, ma ora siamo finalmente tornati al pastore e guardiano delle nostre anime, la sola via adeguata verso un sano realismo e verso un senso adulto della complessità della vita.

P. Alfredo Marchello

 

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