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Dibattito. Fanatismo religioso? Una fede senza Dio

Un saggio del domenicano Adriene Candiard

Tre anni fa ho partecipato, a Beirut, a un convegno sulla violenza di matrice religiosa, con la presenza di ricercatori di ogni orizzonte. Il mio intervento riguardava una fatwa che era già stata per me oggetto di studio. Ne è autore un teologo musulmano del XIV secolo, Ibn Taymiyya, figura di riferimento per gli odierni salafiti. A Ibn Taymiyya avevano domandato: che cosa dobbiamo pensare dei musulmani che partecipano assieme ai cristiani all’allegria del giorno di Pasqua? Non che i musulmani andassero a messa, ma semplicemente avvenivano scambi di uova colorate, o inviti a cena dei vicini: espressioni in apparenza del tutto innocenti. La risposta del teologo è senza appello: quei musulmani devono essere richiamati all’ordine e, se persistono o recidivano, meritano la morte.

Giusto una settimana prima di quel convegno, sui giornali aveva trovato spazio un fatto di cronaca: un bottegaio scozzese musulmano era stato ucciso nella sua casa. Per la polizia il movente era chiaro: pochi giorni prima, la vittima aveva pubblicato su Facebook un post augurale di buona Pasqua ai suoi concittadini cristiani. Omicidio in sé agghiacciante, e ancor più perché incomprensibile.

Senza lontanamente giustificarla, si può ancora riconoscere qualche forma di razionalità alla legge che condanna a morte l’apostata: ha una sua logica, certo non condivisibile. Ma in questo caso? Uccidere uno perché è stato gentile? È pura barbarie, scioccante, assurda. Ma anche a una simile assurdità dovevo cercare una spiegazione.

La fatwa medievale che dovevo presentare a Beirut si era rivestita di una drammatica attualità. La mia tranquilla scrivania di studioso si trovava schizzata di sangue. Forse, però, avevo nello stesso tempo una via per superare lo shock. Avevo sotto gli occhi un testo, scritto da un autore intelligente e che mi era familiare, che giustifi cava proprio quel gesto incomprensibile. Avevo una pista alternativa a quella che solitamente battiamo e che non spiega niente: la follia.

Si ricorderà che Voltaire dedicò un celebre articolo del suo Dizionario filosofico al fanatismo. In esso presentava, con stile, il fanatismo come una malattia della mente. «Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio alla febbre, come le furie alla collera». Esso inizia con visioni scambiate per realtà, ma non si arresta fino a che non abbia indotto a una condotta aberrante, spesso violenta. «Il più disgustoso esempio di fanatismo è quello dei borghesi di Parigi che, la notte di san Bartolomeo, corsero ad assassinare, sgozzare, buttar giù dalle finestre, fare a pezzi i loro concittadini che non andavano a messa».

«Febbre», «peste degli animi», «malattia epidemica», «accesso di furore» che «incancrenisce il cervello»: i termini di Voltaire per definire il deragliamento del religioso che porta alla violenza o, in ogni caso, all’inspiegabile, sono quelli della medicina psichiatrica. Il comportamento del fanatico è intrinsecamente irrazionale, come Voltaire sottolinea quasi scherzosamente: «Che cosa rispondere a un uomo il quale vi dice che preferisce ubbidire a Dio che agli uomini e che, di conseguenza, è sicuro di meritare il cielo sgozzandovi?».

Il filosofo non sapeva niente del terrorismo contemporaneo, ma gli si può riconoscere una certa attualità. Ed è ancor più vero per la chiusa dell’articolo: la follia del fanatico è inspiegabile, ma il più delle volte è manipolata, e ciò può spiegare come una follia individuale possa diventare un potente fenomeno collettivo, come nel caso di un movimento terroristico. «Di solito sono le canaglie a guidare i fanatici e a mettere loro in mano il pugnale; somigliano a quel Vecchio della Montagna che faceva, si dice, gustare le gioie del paradiso a certi imbecilli, e prometteva loro un’eternità di quei piaceri di cui avevano avuto un assaggio a condizione che andassero ad assassinare tutti coloro che egli avesse indicato».

E, con questa allusione al movimento sciita ismailita medievale che è stato chiamato Setta degli Assassini, Voltaire dà una chiave di lettura di un fenomeno che vedo essere ancor oggi assai comune, e che il giornalismo spesso utilizza di preferenza a ogni altra analisi: un movimento come lo Stato Islamico viene presentato come un’accozzaglia di giovani sbandati manipolati da un gruppo di cinici. Non è completamente falso: ci sono degli sbandati, e ci sono dei cinici. Ma la trovo una lettura dal fiato corto. Non si amministra per anni un vasto territorio, popolato da decine di migliaia di persone, e facendo la guerra al mondo intero, grazie a un pugno di imbecilli strumentalizzati.

Ci troviamo davanti a qualcosa di ben diverso dalla setta del Tempio Solare... L’approccio di Ibn Taymiyya si fonda su una teologia, lo hanbalismo, che mette al centro la trascendenza assoluta di Dio: egli è così radicalmente differente dal mondo creato che non possiamo conoscerlo, né ora né mai. La sua natura ci è inaccessibile. Con lui non abbiamo una relazione personale. Ne conosciamo unicamente la volontà quale è espressa nella rivelazione coranica. Non sappiamo chi è, sappiamo però quello che vuole. Essere religiosi, avere fede, non consiste nell’instaurare una relazione personale con Dio, parlargli, ascoltarlo, amarlo, ma nel fare ciò che ci chiede di fare e nulla più. Più precisamente: amarlo è solamente questo. Non è una questione di interiorità, ma di azione.

Questo pio agnosticismo sulla natura di Dio va dunque di pari passo con un amore pieno di zelo per la sua Legge. Con quali conseguenze, nel caso della domanda posta a Ibn Taymiyya? Sono conseguenze notevoli. Dal momento che di Dio conosciamo solo la volontà, essere musulmani significa comportarsi da musulmani. Allo stesso modo, comportarsi da cristiani è essere cristiani.

Fare è essere. Dunque, fare come i cristiani, anche in pratiche secondarie (un pasto festivo, uova colorate...), è già essere cristiani. Per un musulmano significherà essere apostata – indipendentemente dalle convinzioni interiori. E nella tradizione giuridica islamica classica l’apostasia è passibile di morte. Siamo qui all’estensione massimale della definizione di apostasia, fondata su una teologia particolare – che ho chiamato pio agnosticismo.

Sulla rivista "Vita e Pensiero"

Il numero in uscita del bimestrale “Vita e Pensiero” (4/2020) si apre con un editoriale di Carlo Ossola che anticipa l’anniversario dantesco dei sette secoli dalla morte del grande poeta. In un dossier dedicato alle conseguenze materiali e morali del Covid–19, figura la riflessione dello psicologo Giancarlo Ricci scomparso nel maggio scorso e già collaboratore anche di “Avvenire” (A tempo debito: immaginare il futuro). Nella sezione Frontiere, invece, figura l’articolo del domenicano Adrien Candiard, che qui in parte anticipiamo, dove sostiene che il fanatismo non è affatto un eccesso di religione. È frutto di una teologia che ha messo Dio in disparte. Non riguarda solo l’islam, ma non si faccia di ogni erba un fascino. Altri contributi sono di Silvano Petrosino, Laura Bosio, Gian Maria Vian e Franco Cardini.

Adriene Candiard

© Avvenire, martedì 22 settembre 2020

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