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Dio si mette in relazione con l'uomo nel territorio. Le prospettive pastorali, a conclusione dei lavori

COP - LX Settimana Nazionale di Aggiornamento Pastorale: "Nuove forme di comunità cristiana: le relazioni pastorali tra clero, religiosi, laici e territorio". Como Capiago, 21-24 giugno 2010

siga.jpgDa dove partiamo?

Circa vent’anni fa ci si domandava: Unità pastorali, verso un nuovo modello di parrocchia?(Assisi 1993). In questo lasso di tempo abbiamo più volte aggiornato la domanda. Oggi con una ricerca abbiamo voluto fare il punto sulla situazione. Non le possiamo più chiamare solo unità pastorali, perchè hanno assunto vari nomi nel passare dei decenni, senza del resto cambiarne molto la sostanza, ma mettendo in evidenza, da una parte la fatica di giungere a nuove forme di presenza territoriale della chiesa e dall’altra esprimendo tutta la creatività di chi vuol lasciarsi interrogare dalla vita e che tuttavia inventando nomi diversi cela la difficile crescita corale di una chiesa troppo frammentata.

Le domande da cui siamo partiti non sono leggere o da salotto. Ce le ha messe davanti con chiarezza Mons. Bonicelli: Stiamo chiudendoci sulla cura delle anime, sulla conservazione dei cristiani che sono rimasti, per di più non così docili e costanti nella pratica? Le nuove forme di comunità pastorali ci aiutano a uscire dall’auto centralismo del sistema parrocchiale legato al concilio di Trento o sono solo una serie di aggiustamenti utili a una agenzia di servizi? E ancora: perché si fa tanta fatica a  lavorare insieme in un mondo che ha bisogno di vangelo e in cui la parrocchia si attorciglia sempre  più su di sé?

Siamo arrivati a questa settimana con una percezione molto netta, aiutati in questo dallo studio del forum dei pastoralisti: il punto chiave che oggi ha bisogno di essere affrontato e impostato correttamente è il vasto mondo delle relazioni. Questo significa che dobbiamo mettere al centro: la contemplazione dell’amore di Dio e la necessaria conversione della vita, invece della pianificazione delle attività; la risorsa umana, invece delle sole strutture;  il guardarsi negli occhi, invece che guardare alle bacheche degli avvisi o in facebook; il progettare assieme dopo essersi confrontati, invece delle risposte privatistiche di sopravvivenza; la stima reciproca tra diversi carismi e ministeri, invece dell’antagonismo pastorale;  la comunione dono da accogliere sempre da Dio, invece di tavoli di concertazione.

Ciò che conta non sono soprattutto contenuti nuovi da trasmettere o le attività su cui accordarsi,  ma la fede autentica vissuta in una chiesa comunione per la quale l’azione pastorale non si aggiunge successivamente, come opera meramente umana, né viene dedotta come applicazione pratica di principi teologici astratti (Crociata), ma è una azione che viene illuminata dallo Spirito entro un vissuto personale ed ecclesiale da offrire e da accogliere, entro coinvolgimenti nei processi di crescita umana e spirituale, entro le condivisioni reciproche di tratti sempre più ampi di vita e di fede, entro consapevolezze e conoscenze di sé e del mondo che offrono a Dio la carne in cui possa prendere forma la salvezza. La prima questione non è l’azione pastorale, ma la vita concreta di ogni credente e di una comunità trasformata dalla fede, resa docile allo Spirito Santo.

La ricerca

Come si addice ad ogni sana teologia pratica, non potevamo non partire da una lettura della situazione delle nuove forme di comunità cristiana nel territorio, dopo trenta anni di sperimentazione. Villata ci ha mostrato un quadro della situazione che per la prima volta dopo tanti anni di sospetti, di facili entusiasmi o di supponenti denigrazioni mostra una lenta, ma costante crescita di belle esperienze di progettualità comune, di ascolto reciproco, di rinnovamento pastorale. Non si tratta più di subire eventi devastanti come il calo del clero o la dispersione della gente nel territorio, o l’indifferenza religiosa, che pure esistono, ma di dare possibilità alle innumerevoli risorse umane del popolo di Dio di rinnovarsi, di cambiare mentalità, di aprirsi al territorio, di uscire dalla sacrestia e dal sagrato, di leggere nella vita la chiamata di Dio, che non invita mai all’adattamento o alla resa di fronte alle difficoltà.

La teologia della chiesa comunione ha dato vita a una progettualità comune, anche se in partenza sono sempre le preoccupazioni di efficienza pastorale o di attività concrete, che fanno da molla al cambiamento. La Chiesa insomma ha risorse inimmaginabili che aspettano solo di essere chiamate in causa da una fede viva, da un amore appassionato al vangelo e da un tessuto di relazioni rinnovate dalla conversione del cuore e della mente. Ciò induce a pensare che non è vero che non si possono impostare seri discorsi di pastorale secondo le indicazioni del magistero, ma che occorre avere pazienza, capacità di dialogo, coinvolgimento di tutte le vocazioni e carismi che Dio distribuisce a piene mani.

Che comunità cristiana devono esprimere le nuove forme di comunità?

Se si vogliono impostare nuove relazioni, che non vogliamo ridurre ad aggiustamenti di carattere, a tratti da galateo, a strategie psicologiche, occorre avere sempre davanti un ideale di comunità cristiana. Ci dobbiamo lasciare convertire alle qualità imprescindibili della chiesa come ci viene presentata dalla sua lunga storia a partire dalla prima comunità cristiana (Castellucci).  La chiesa è nata nelle case, nelle famiglie, nel tessuto di relazioni primarie in cui si sono inscritti con una forza inarrestabile di cambiamento i grandi doni di Dio, i suoi sacramenti, la sua Grazia. L’esperienza cristiana, nella dimensione “domestica” delle comunità dei primi secoli, comportava: relazione primarie dirette e “calde”; celebrazioni del battesimo e dell’eucaristia nelle case; momenti di preghiera comuni; lettura, ascolto e commento della Parola di Dio; accoglienza reciproca; esperienza di una uguale dignità che precede la diversità dei ruoli e delle condizioni sociali; una presenza significativa della donna, un esercizio “familiare” dei ministeri.[1]

Sono le caratteristiche di tutti i tempi: l’ascolto della Parola, la frazione del pane e la carità verso i poveri.

Per costringerci a ridire la chiesa di sempre nelle nuove nostre forme ci siamo messi in sintonia con le prime comunità cristiane e, nonostante la grande diversità che caratterizza le  piccole domus ecclesiae rispetto alle nostre complesse unità pastorali, abbiamo percepito che sono proprio quelle qualità che oggi sono ricercate e preziose e giuste.

1. Una rinnovata apertura al territorio, come coefficiente continuamente in trasformazione e quindi sempre da interrogare perché determinante per la comunità cristiana, sia per la missione che per la sua stessa definizione di chiesa per il mondo. La comunità cristiana è un osservatorio capillare delle situazioni, dei problemi e delle opportunità del luogo in cui si vive. Già nel lontano 1981 i vescovi italiani dicevano: «Inserita di regola nella popolazione di un territorio, la parrocchia è la comunità cristiana che ne assume la responsabilità. Ha il dovere di portare l’annuncio della fede a coloro che vi risiedono e sono lontani da essa, e deve farsi carico di tutti i problemi umani che accompagnano la vita di un popolo, per assicurare il contributo che la Chiesa può e deve portare. Così essa è dentro la società non solo luogo della comunione dei credenti, ma anche segno e strumento di comunione per tutti coloro che credono nei veri valori dell’uomo».[2]

2. Il valore della fraternità e della prossimità. Oggi senza uno stile di fraternità, di vicinanza, di cura delle relazioni, la comunità cristiana non attrae. Se non cura le relazioni, la comunità assomiglia tutt’al più ad una azienda, dove contano i risultati, l’efficienza, i bilanci. Nella famiglia invece sono al primo posto le persone (il neonato e l’inabile sono esclusi dall’azienda ma in famiglia, al contrario, devono ricevere le attenzioni più delicate); in famiglia vengono messi in primo piano gli affetti e le relazioni. Nella comunità (come anche in una famiglia) occorre anche efficienza, ma continuamente verificata dalla logica delle relazioni.

3. Il clima familiare e l’apporto della sensibilità femminile. La cura delle relazioni, fondate oggettivamente sulla parola, l’eucaristia e la carità, conduce una comunità cristiana quasi spontaneamente a valorizzare le famiglie come soggetti e non solo come destinatarie dell’attività parrocchiale. Nell’esperienza della “Domus Ecclesiae” la famiglia ospitava altre famiglie ed era quindi del tutto naturale che la vita comunitaria ruotasse attorno ai ritmi familiari e le famiglie ne fossero il perno. La donna deve poter offrire il suo contributo “paritario” alla vita comunitaria e  inserire in essa una sensibilità complementare a quella maschile: una sensibilità più attenta, appunto alla profondità delle relazioni che al funzionamento delle iniziative. Più il “genio femminile”trova spazi di espressione nella comunità, più la comunità sarà attenta all’accoglienza, alla profondità delle relazioni, alla dimensione del “ricevere” prima che a quella del fare e del produrre.

4.  La presenza di vari carismi e del diaconato. Il Signore fa nascere vari carismi che vengono messi a disposizione della comunità. I laici non sono cristiani generici ,ma ciascuno con  una sua vocazione al servizio di tutti. Tra di esse assume nuovo rilievo la figura del diacono che ha la funzione di tenere desta nella comunità l’attenzione al servizio, specie dei più disagiati.

5.  Il ministero della presidenza della unità pastorale. Nel contesto di una comunità cristiana che – a partire dalla parola, dall’eucaristia e dai carismi – cura le relazioni fraterne, il presbitero è come il fratello maggiore, che accompagna, incoraggia, si fa segno della carità del Buon Pastore. «Il parroco sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione; e perciò avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi. La sua passione sarà far passare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano a presenze che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale. Il suo specifico ministero di guida della comunità parrocchiale va esercitato tessendo la trama delle missioni e dei servizi: non è possibile essere parrocchia missionaria da soli» (cfr.CEI. Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia,12).

Come è possibile oggi lavorare in questa direzione?

Le relazioni sono definite fin dall’inizio, cioè fin da come si progettano le nuove forme di comunità e da come si coinvolgono i vari soggetti in questa conversione della pastorale. Ecco alcune condizioni importanti:

Un avvio basato sulla conversione di tutti i soggetti

Tutta la comunità: sacerdoti, presenze religiose o di vita consacrata, organismi di partecipazione laicale, catechisti, Azione Cattolica, associazioni ecclesiali, aggregazioni e movimenti, ma anche i cristiani che stanno ai margini vanno coinvolti nel capire e condividere la necessità del cambiamento, nelle sue ragioni, nelle sue finalità e nelle sue difficoltà, per concordare le modalità di percorso comune e per affrontarle insieme. Quando le persone vengono coinvolte a cose fatte, si interrompono immediatamente le relazioni e si fa enorme fatica a ristabilirne di positive.

Non si danno relazioni mature senza collocarle in una storia personale.

Occorre allora tenere in considerazione la storia delle parrocchie, il loro cammino pastorale non solo più recente, i loro sacerdoti, i fatti più significativi che hanno accompagnato la loro crescita cristiana, con luci e ombre; ricordando i legami che le parrocchie hanno mantenuto nel corso degli anni, sia in ambito ecclesiale, che civile e valutando anche la loro consistenza, la loro configurazione territoriale e le loro possibili affinità. La tradizione e la religiosità popolare, la rilevanza che certe festività, celebrazioni, ricorrenze, scadenze hanno avuto e mantengono tuttora nella sensibilità cristiana della gente, sono la porta per radicare un immediato dialogo. (Zanotta)

Soprattutto però è necessario collocare tutti di fronte alla propria fede personale, sia preti che laici, religiosi o religiose. Solo raccontandosi e ascoltando la storia della propria fede si può cambiare l’atteggiamento scostante e spesso autoritario o gregario che crea il ruolo in un dialogo costruttivo e sincero (Marangoni)

La contemplazione nella chiesa della sua sponsalità.

All’inizio della storia della nostra fede ci sono le nozze di Dio con l’umanità, di Gesù con la Chiesa. Ci sono gli sussulti d’amore dell’amata verso l’amato. Nel legame sponsale Cristo-Chiesa ci viene offerto il modello relazionale di ogni possibile pastorale.  Non ha senso attuare una “pastorale solitaria” e “isolata”, pensata e progettata senza riferimento e coinvolgimento dell’altro e degli altri.  Nemmeno per i pastori, che pure portano la maggior responsabilità di guida della comunità.  Come Cristo non fa nulla nella Chiesa e nell’umanità senza coinvolgere “responsabilmente e attivamente” la sua sposa, così ogni presenza ministeriale nella Chiesa deve coinvolgere responsabilmente e attivamente le altre (Ostinelli).

Eucarestia, centro di ogni forma di comunità cristiana

Il cuore di ogni forma di comunità cristiana resta sempre l’Eucaristia, che fa da punto culminante e sorgente di ogni percorso umano e di fede, il luogo in cui contempliamo il dono d’amore di Gesù, la forza per poter fare della vita di ciascun uomo e donna un dono fino all’ultima goccia. L’Eucarestia è l’unico vero tavolo di concertazione, di alleanza sempre nuova, di una comunione indefettibile. Il tempo in cui si aprono finestre di eternità nella vita degli uomini e contemplazioni di un futuro certo per tutti. Sta alla base di ogni nuova forma di comunità e di ogni strategia di avvio di esse.

Gli organismi di partecipazione per una missione senza confini

Essi sono il luogo di condivisione e progettazione più adatto dove fare incontrare le indicazioni provenienti dalla Diocesi, le speranze e le difficoltà dei presbiteri, la disponibilità del laicato attivo in Parrocchia e le esigenze della gente, che ha bisogno soprattutto di cogliere lo spirito con cui ci si muove. È in questi organismi di partecipazione, opportunamente e gradualmente educati ad affrontare le sfide dell’evangelizzazione, per non restare spettatori di decisioni e scelte fatte altrove, che il processo di cambiamento viene “sognato”, realizzato per piccoli passi fino ad essere, per così dire, pilotato verso un volto nuovo di Parrocchia più missionaria nel territorio in cui vive ed opera

Essere Chiesa è predicare Cristo nel territorio, renderlo presente, ascoltarlo mentre si rivela anche attraverso le vicende umane, le vicende della storia. Dio si mette in relazione con l’uomo nel territorio. Una cultura che ci renda capaci di leggere le vicende del territorio diventa strumento di discernimento (Gruppo II) Occorre farsi interrogare dalle situazioni, vederne aspetti problematici e possibilità positive. Più si da importanza alle vicende storiche, più prende significato la dimensione secolare e coloro che in questa sono impegnati, i laici la cui dimensione peculiare è secolare, e più diventa concreta la decisione di sbilanciarsi sul versante della missione. Uno dei motivi principali che portano a costituire nuove forme di comunità è proprio la missionari età, l’evangelizzazione ai lontani, l’allargamento dell’orizzonte. E questo avviene solo se c’è un  vero rapporto di accoglienza e dono con il territorio.

La formazione delle persone

I moduli formativi oggi devono avere alcune caratteristiche che permettono di superare quelle stanchezza che stanno demotivando tutti gli eventuali soggetti. La formazione deve poter contare su:

 
  1. Una convocazione larga creata da  relazioni intense. Non bastano lettere, biglietti, telefonate, gruppi in face book, ma occorrono dialoghi in cui si è aiutati a scoprire a rispondere con generosità a vocazioni vere al servizio del vangelo e della umanità (Salvo).
  2. Uno spazio che superi le secche di una serie di lezioni scolastiche e si sviluppi dentro relazioni ricche e esperienze di fede esplicite. Formare è offrire ragioni di vita e formare alla fede è far sperimentare la gioia di essere credenti, entro una contemplazione accogliente del dono della Grazia.
  3. La creazione di un profilo di credente capace di essere testimone diretto della propria fede (preghiera, vita sacramentale, direzione spirituale), capace di lavorare assieme, di essere stimolatore di crescita.
  4. Un tirocinio che faccia crescere persone destrutturate, capaci di mettersi in discussione, non desiderosi di certezze, ma assetati di verità, esperti di interazioni col territorio, con le istituzioni, grandi ascoltatori di storie di gente desiderosa di esistere per qualcuno e capaci di stanare le risorse che Dio ha posto in ogni persona per il bene di tutti oltre che di se stessi
  5. Un tessuto di relazioni che hanno una storia, che sanno orientarsi a un progetto, che vivono una appartenenza matura nella fede, che si misurano su un progetto formativo, che amano senza condizioni la chiesa e la sua missione. Queste caratteristiche le offre per natura sua una associazione come l’Azione Cattolica.
  6. Sempre in ogni percorso formativo occorre puntare sullo scambio della propria esperienza di fede, come rigeneratrice di coscienze, di rapporti nuovi, di prospettive audaci.


[1] Cf. T. Lorenzen, «Die christliche Hauskirche»,in Theologische Zeitschrift 43 (1987) n. 4, pp. 333-334; H.J. Klauck, «Die Hausgemeinde als Lebensform im Urchristentum», cit., p. 15.
[2] CEI, Documento pastorale Comunione e comunità. I. Introduzione al piano pastorale, del 1 ottobre 1981,n. 44: EC 3/675. Cf. poi la Nota pastorale della CEI Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, del 30 maggio 2004: EC 7/1404-1505.

 

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