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Divorzio breve? Non è lì la soluzione

La Commissione Giustizia della Camera ha approvato una proposta di legge per accelerare il divorzio. Il parere del professor Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa

divorzio16_2590497.jpgHa sorpreso non poco il via libera che giovedì scorso ha avuto in Commissione Giustizia della Camera la proposta di legge sul cosiddetto “divorzio breve”. Una decisione bipartisan che ha visto PD e Pdl, il cuore dell’attuale “strana” maggioranza di governo, concorde sulla decisione di ridurre da tre a uno, in caso di assenza di figli minori, e a due, in loro presenza, gli anni necessari per ottenere la sentenza di divorzio da giudice. Il termine di tre anni attualmente decorre, come recita l’articolo 3 della legge 898/1970, «a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale». Una decisione di ridurre il tempo della separazione che renderebbe ancora più “liquido” il matrimonio: nel 1970 infatti la norma conteneva implicitamente una preferenza per la prosecuzione del legame matrimoniale visto che il termine di tre anni era concepito per dar modo ai coniugi di avere sufficiente tempo per ripensare una decisione gravida di conseguenze nella loro vita e in quella dei loro figli. Criticata a posteriori da diversi esponenti del mondo cattolico, la decisione suscita nel merito non poche perplessità, tenendo conto anche che altre leggi ad altro contenuto “etico-sociale”, come quella sul biotestamento ormai in dirittura d’arrivo, riposano tranquillamente in Parlamento con il rischio che, finita l’attuale legislatura, l’iter decada e si debba poi ricominciare daccapo.

Abbiamo chiesto al professor Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa di Roma nonché Presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, un suo parere su un’eventuale modifica dell’attuale legge sul divorzio.
- Professor Dalla Torre, da esperto di diritto canonico ed ecclesiastico, come valuta questa proposta di legge?
«Dal punto di vista politico mi sembra strano agire proprio nell’attuale congiuntura. Dal punto di vista tecnico c’è stata una fusione di proposte diverse già presentate da diversi gruppi in Parlamento. Dal punto di vista giuridico si tratta di un passo avanti deciso verso lo stravolgimento della politica legislativa introdotta con la legge del 1970, che era di considerare il divorzio come extrema ratio in caso di impossibilità di ricostituire la comunione di vita tra i coniugi. Il provvedimento tecnicamente non sostituisce la vecchia legge ma introduce alcuni emendamenti importanti. L’impressione è che venga fuori una legge che, al di là del giudizio morale che se ne può dare, comporti una banalizzazione del divorzio, soprattutto di fronte a un’ipotesi consensuale. In generale sono contrario a questa riforma perché ritengo i tre anni un tempo opportuno, ma lo sono se si mette in moto un’azione per cercare di far superare ai coniugi le loro difficoltà».
- Nella legge sembra però che almeno si  consideri la presenza di figli minori…
«In effetti il tempo di separazione può essere esteso a due anni in caso di figli minori e questo manifesta senz’altro l’attenzione per i figli piccoli e ci dice come il matrimonio non è un fatto strettamente privato ma come esso riguardi l’intera società».
- Non le sembra che questa legge, come sostengono taluni, rispecchi maggiormente l’evoluzione della società in questi decenni?
«Direi di sì, riflette sicuramente una società cambiata e una giurisprudenza che spesso banalizza il tentativo di conciliazione. Una società non più solidale con la famiglia, in un tempo in cui essa non riesce più a reggersi da sola e che avrebbe invece bisogno di un contesto che l’aiuti e la sostenga. Pensiamo ai consultori, introdotta con la riforma del diritto di famiglia nel 1975 e che oggi, valutandola con occhi lucidi, mi sembra fallimentare. I consultori si sono limitati a trattare la dimensione della fertilità e dell’aborto mancando di agire lì dove ci sarebbe stato bisogno, nell’aiutare le coppie e le famiglie ad affrontare i suoi problemi».
- Da un lato si chiede una formalizzazione di situazioni che un tempo di dicevano “irregolari”, come le convivenze, dall’altro si rende ancora più liquido il matrimonio. Non le sembra una contraddizione?
«Diventa sempre più forte l’idea del matrimonio come “prova”. Siamo di fronte a una schizofrenia della società, il matrimonio pare, mi passi la metafora, come una fortezza assediata: chi è dentro vuole uscire, chi è fuori vuole entrare. Non è questo il modello di famiglia voluto dalla Costituzione. Bisogna ritornare a una valutazione più riflessa sulla famiglia, che non è un fatto solo privato ma che riguarda invece l’intera società. Il diritto infatti non può reggere situazioni che non si reggono da sole, occorre allora acquistare la consapevolezza della famiglia che nasce dal matrimonio come fatto pubblico e stabile nel tempo. Solo lì raggiunge le sue finalità solidaristiche tra coniugi e tra generazioni. Se quando finisce l’utile si scappa, la conclusione è che nessuno vuol prendersi impegni stabili. Ma così il matrimonio perde il suo senso antropologico e sociale».

Stefano Stimamiglio
 
© Famiglia Cristiana, 29 febbraio 2012
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