Dossier E la Perugia-Assisi va in Terra Santa
1. Per costruire la sicurezza d’Israele, serve la fiducia
 Si può vivere nella paura? Si. Si può  vivere sempre nella paura? Si. Per quanto? Nessuno lo sa. Ma ci si può  organizzare. Come ha fatto lo Stato di Israele che ha fatto della  sicurezza il principale pilastro della propria esistenza. Noi diciamo  prima di tutto la pace. Per loro, prima di tutto viene la sicurezza.  In nome della sicurezza si può fare di tutto. In qualunque luogo, in  qualunque momento. In Israele, nei territori palestinesi o in qualunque  altra parte del mondo.
Si può vivere nella paura? Si. Si può  vivere sempre nella paura? Si. Per quanto? Nessuno lo sa. Ma ci si può  organizzare. Come ha fatto lo Stato di Israele che ha fatto della  sicurezza il principale pilastro della propria esistenza. Noi diciamo  prima di tutto la pace. Per loro, prima di tutto viene la sicurezza.  In nome della sicurezza si può fare di tutto. In qualunque luogo, in  qualunque momento. In Israele, nei territori palestinesi o in qualunque  altra parte del mondo. 
 
 Succede così anche in Italia, dove le forze di sicurezza israeliane  gestiscono in prima persona i controlli di sicurezza dei passeggeri che  si devono imbarcare sui propri voli. Saranno frutto di accordi  bilaterali ma non fa una bella impressione ritrovarsi a Fiumicino nelle  mani di poliziotti di un altro paese. Ma come? Perché questi controlli  non li fa la nostra polizia? Gli israeliani non si fidano di come li  fanno gli italiani?
Alla partenza della Missione di pace ci hanno controllato per più di sei  ore. Sei ore di domande che non ti aspetti e di cui soprattutto non  capisci il senso. E ti domandi: che senso ha tutto questo? Serve davvero  alla sicurezza d’Israele? Io so che la sicurezza cresce insieme alla fiducia.
 
 Ma esperienze come quelle che abbiamo vissuto in un pezzetto d’Italia  ceduto a Israele non aiutano a costruirla. Al contrario, alimentano  sentimenti di segno opposto. Chi va in missione di pace in una zona di  guerra non deve aspettarsi di trovare un tappeto rosso. E deve essere  pronto a superare tanti ostacoli. Resta il problema. La sicurezza  d’Israele è un bene importante, come lo è la nostra, quella dei  palestinesi e di ogni altro popolo. Ma per costruirla davvero, perché  sia vera e duratura, c’è solo la via della pace. Gli amici di Israele, i  veri amici di Israele sono i primi a saperlo.
 
Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace
2. Come può esistere un paese senza continuità territoriale?
Non si può costruire uno stato su un territorio ridotto a gruviera: parola del presidente Bush. E’ quest’immagine uno dei fili rossi della giornata vissuta oggi a Betlemme.
Ha esordito così il sindaco della città in cui è nato Gesù, un anziano signore giunto al termine del suo mandato. Vitalissimo e nello stesso tempo dolente, mentre racconta come Betlemme è diventata una fetta di gruviera in cui i buchi occupano molto più spazio del resto.
 
La municipalità si stenderebbe su 31 chilometri quadrati. Ma in realtà ne controlla e governa solo 6 a causa della confisca delle terre, dell’insediamento di ben 22 colonie israeliane (per un totale di 87.000 coloni), della costruzione del muro che taglia strade e campi, orti e case, e rende la vita impossibile a chi sta di qua del muro.
I dati e le mappe dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari confermano con i numeri il processo di frammentazione che sta sempre più trasformando la West Bank, la Cisgiordania che secondo gli accordi di pace di Oslo e la successiva Road Map dovrebbe costituire un paese in uno spezzatino di terra arsa.
Ma come può esistere un paese senza continuità territoriale?
Lo racconta Maria, una donna sulla quarantina che da Beit Jala  si reca ogni giorno a lavorare a Gerusalemme, una delle poche fortunate  che possono attraversare il muro che taglia e chiude la via principale  del paese dividendolo in due. Fortunata: per passare di là deve  presentare un’ identity card israeliana abbinata al permesso di lavoro.  Si deve mettere in coda e attendere pazientemente che i militari  israeliani effettuino i controlli. Che comprendono anche le impronte  digitali che, passate al lettore ottico grazie al computer, forniscono  tutti i dati possibili su Maria.
 
 Ma allora – chiedo – a che servono tutti gli altri documenti? Per farti impazzire, forse. Per stremarti.  E così per i 10 chilometri che separano Beit Jala da Gerusalemme ci  possono volere anche due ore contro i 10 minuti in situazione normale.  Ma ci deve essere poco di normale in questa terra se persino il vescovo  ausiliare del patriarcato latino di Gerusalemme, monsignor William  Shomali, dice che oggi la pace è impossibile. La comunità internazionale  non pare davvero aver intenzione di fare la voce grossa per far  applicare ad Israele le risoluzioni dell’Onu. I Paesi arabi sono divisi e  non sembrano proprio interessarsi dei palestinesi se non per usarli per  i loro giochi sullo scacchiere internazionale.
 
 E così la vita – se si può chiamare vita – continua a mettersi  in fila ai checkpoints o attaccarsi al clacson delle auto con targa  verde su fondo bianco. Sono le auto palestinesi che non possono  andare da nessuna parte se non girare nei frammentati territori della  Cisgiordania. E forse tutti questi colpi di clacson che urlano nella  piazza della Basilica della Natività altro non sono che l’urlo di rabbia  e di frustrazione del popolo palestinese. In carcere a casa propria.
 
 
            
