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Dossier. Inganno cannabis: non cura, fa ammalare

Il mercato europeo della cannabis ha oggi cifre da capogiro: 12 milioni di cittadini tra i 15 e i 64 anni ne hanno fatto uso nell’ultimo mese; di questi, 5 milioni sono ragazzi sotto i 24 anni. L’Italia consuma il 14% della cannabis che circola nel vecchio continente, un dato che schizza al 30% per l’hashish.

images.jpgVendono fertilizzanti, kit per l’illuminazione, stimolatori di crescita delle foglie, fino a veri e propri manuali ricchi di suggerimenti. I «grow shop» non sono soltanto attività commerciali, ma anche «centri di apprendimento» per la coltivazione della cannabis. A definirli così è la relazione dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle dipendenze (Oedt) e dell’Europol. «I benefici della coltivazione domestica – afferma lo studio – includono i minori rischi di individuazione e il controllo sulle condizioni in grado di consentire alti rendimenti».

E il mercato europeo della cannabis ha oggi cifre da capogiro: 12 milioni di cittadini tra i 15 e i 64 anni ne hanno fatto uso nell’ultimo mese; di questi, 5 milioni sono ragazzi sotto i 24 anni. L’Italia consuma il 14% della cannabis che circola nel vecchio continente, un dato che schizza al 30% per l’hashish.
«L’Ue è un’importante regione produttrice di droghe sintetiche e, in misura crescente, di cannabis – osserva Wolfgang Götz, direttore dell’Oedt –. Sta prendendo piede la tendenza a produrre droghe illecite nelle vicinanze dei potenziali mercati di consumo, dove è meno probabile che vengano intercettate. Questa evoluzione ci costa sempre più salata in termini di sicurezza collettiva, salute pubblica e onere imposto alle già limitate risorse della polizia».

Salute pubblica, appunto: oggi sono malati e «chiedono aiuto e di seguire un trattamento più di tre milioni» di consumatori di cannabis, è l’allarme lanciato dallo stesso Götz, che chiede venga tenuta in conto questa cifra «sufficientemente elevata» nella definizione delle politiche alla lotta alla droga. Sono infatti cambiate, spiega, le modalità di consumo, passato da sporadico a «quotidiano».

Un cambiamento incoraggiato dalla nascita dei «grow shop», che hanno iniziato a diffondersi a metà degli anni ’90 in Nord America e in Europa, dove oggi sono presenti in quindici Paesi e si riparano dietro la legalità della vendita dei prodotti per la coltivazione, non dovendo rispondere dell’ovvio utilizzo che ne verrà fatto.
Oltre alla coltivazione fai-da-te, resta a livelli allarmanti l’attività dalle organizzazioni criminali: il rapporto mette in luce i collegamenti tra le reti di trafficanti di cocaina e di resina di cannabis, l’importanza crescente dell’Africa come zona di deposito e di transito, e il ruolo centrale svolto dalle bande criminali dell’Europa nordoccidentale nello smistamento di ogni tipo di droga nel continente. E la via della cannabis che arriva in Italia incomincia, spesso, dai Balcani, che riforniscono anche Grecia e Ungheria.

Cecilia Malmstrom, commissaria dell’Unione Europea per gli Affari interni, ha assicurato che la legalizzazione della cannabis non rientra nell’agenda Ue. Serve, questo sì, una risposta decisa contro i gruppi criminali organizzati, sempre più propensi «a trafficare contemporaneamente più sostanze stupefacenti» e «a coalizzarsi tra loro». Per questo, prosegue Malmstrom, «le misure predisposte a livello nazionale, per quanto energiche, non sono più sufficienti». Così, la lotta alla criminalità passa anche attraverso la costruzione di un’Europa unita contro le droghe.

Lorenzo Galliani

© Avvenire, 2 febbraio 2013

 

Dimenticare il morto?

 

cannabis.jpgChissà se qualcuno farà caso al fatto che questa storia è la storia di un morto, e che il verdetto della Cassazione riguarda il ricorso d’una "parte civile" che piange il suo ucciso.

Dice la Cassazione che procurare la droga a un gruppo partecipando al consumo di gruppo non è reato. Detto così, non commuove nessuno, e se non è reato cercheremo cos’è. Perché qualcosa d’altro è, è un morto. Una tragedia. Diciamo che mentre si discorre di droga di gruppo si sta osservando (osservando con giuridico rispetto) l’accadere di una "banale tragedia" d’un morto.

Un morto di droga "collettiva" entra oggi negli annali della giurisprudenza. Gli addetti registrano: una notizia banale accaduta dei giorni dei morti di droga per "fatti loro". Una vicenda malfinita del libero consumo? La Cassazione decide. Che cosa vuol dire se un compagno di droga compra droga per i suoi compagni di droga? Niente di penale, questa "non-condanna" del fornitore di droga collettiva, di per sé non era neanche una notizia.

L’aveva già detto anni fa la stessa Cassazione, ancora a sezioni unite come oggi (Cass. n. 4 del 1997) considerando il consumo di gruppo come una variante plurima del consumo personale, esentato da pena, secondo la regola scelta in tempi già remoti (saggia o stolta che sia stata) di far neutro il consumo e delitto la fornitura. E dunque l’acquisto del fabbisogno di droga, fatto per il gruppo, sarebbe una provvista di possibile uso personale (collettivizzato), immune da sanzione penale.. Con i corollari concettuali, rotti alle infinite ipocrisie del bilancino giuridico messo lì a pesare la quantità modica e immodica, terapeutica e non terapeutica. In questo orizzonte, lasciar crepare in pace chi vien fatto crepare non è reato.

Che pena, il crepare tutto per bene. Ma a chi, a chi si vuol bene? In faccia a chi si crepa? Negli anni intermedi i giudici della stessa Cassazione hanno diversamente considerato il rifornimento di droga per il consumo di gruppo, colpendo duro. Oggi quella riflessione giuridica sembra una storia scavalcata, al pari della dottrina che si era messa di traverso con i suoi dubbi. Storie di vite distanti dalla vita, droga come negazione di vita, giustizia come risveglio di vita.

Se la nuova sentenza venisse ora letta come suggestione di "liberi spinelli collettivi", andremmo incontro all’inganno "drogante" di un male che si traveste. No, non si può chiamar bene il male. La droga in sé resta male. Non è vita, è male. E può starci accolto che resta senza castigo penale, nei casi che non voglion castigo, quando il castigo sarebbe peggio, nel malo bilancio che invoca rimedio, e soccorso, e salvezza. Ma l’unico indirizzo di rimedio non è quello di complicità, è quello di guarigione.

La scena che ci mette sott’occhio la cronaca del "collettivo" di droga resta storia di morte. Seguono per noi i quesiti, su quale distanza ci separa da una coscienza persuasa del bene. Ad essa allacciamo, al pari della difesa della vita, la dissuasione dalla droga, il rifiuto di condiscendenze, l’aiuto alla liberazione. È questa la nostra libertà: non uno schermo di paura patteggiante e sconfitta, ma una speranza investita, a suo modo intrepida, a suo modo creativa.

 

 
Giuseppe Anzani
 
© Avvenire, 2 febbraio 2013
 
 

«Nessun effetto terapeutico. Sbagliato illudere i malati»

 
 

«Serve chiarezza»: Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento politiche antidroga, ci tiene a sottolineare pochi aspetti ma cruciali dell’uso terapeutico della cannabis. L’idea del “Cannabis social club¨, che a Racale, nel Salento, promuove la coltivazione collettiva della cannabis per uso curativo non è da sottoscrivere. «Da quando assumo la cannabis – ha raccontato Lucia Spiri, 31 anni, affetta da 13 anni da sclerosi multipla, promotrice del club – ho eliminato tutto, non ho più necessità di nessun tipo di farmaco». Affermazione pericolosa. Perché è assodato che la cannabis non ha poteri curativi e sono controversi anche i suoi effetti antalgici.

Sarebbe deprecabile illudere i pazienti affetti da sclerosi multipla sull’efficacia della cannabis nel trattamento della loro malattia...
Bisogna chiarire molto bene a tutti gli interessati che a oggi quello che risulta sui farmaci a base di THC, uno dei principi attivi della cannabis, è solo un effetto sintomatico sugli spasmi e sui dolori muscolari e non quindi curativo della malattia.

Senza effetti collaterali?
Tutt’altro. Gli effetti collaterali in area psichica sono numerosi. Oltre a questo, quello che non può essere accettato dalla medicina moderna è che si possa pensare che ogni malato possa prodursi il proprio “farmaco” a domicilio, senza alcun controllo sul tipo di pianta coltivata e la percentuale di principio attivo, la qualità dei prodotti destinati a uso umano e medico in particolare, la quantità di  autosomministrazione che verrebbe decisa esclusivamente dal paziente. Senza contare i problemi di dipendenza.

Quindi tanti rischi, nessuna evidenza scientifica?
Uno studio longitudinale condotto su ben 500 pazienti dalla Peninsula Medical School di Plymouth in Gran Bretagna presentato nei mesi scorsi a Brighton, non emergere alcuna prova a sostegno della tesi che la cannabis agisca nel bloccare la progressione della malattia, a quanto pare il THC riduce il dolore e gli spasmi muscolari, ma non guarisce dalla sclerosi. Lo studio ha coinvolto un ampio numero di pazienti britannici malati di sclerosi multipla ai quali sono state somministrate capsule contenti THC per un periodo pari a 3 anni. I risultati hanno mostrato che i pazienti che avevano assunto le pillole con THC non riportavano risultati migliori nella cura della sclerosi multipla rispetto ai pazienti che avevano assunto pillole placebo.

Eppure i sostenitori della cannabis non demordono.
Alcune organizzazioni orientate alla legalizzazione utilizzano a volte impropriamente articoli scientifici riportanti risultati positivi di trials clinici su tali farmaci per far percepire e promuovere il concetto dell’innocuità dell’uso della cannabis e dei suoi poteri medicamentosi per curare patologie molto gravi. Pur essendo concordi ad approfondire questi aspetti terapeutici con studi scientifici e ricerche controllate, la coltivazione domestica della cannabis e il suo uso in autosomministrazione per varie malattie non può essere accettata. Ne è accettabile che essa venga dipinta come una sostanza “positiva, utile e salutare” anche per l’uso voluttuario e ricreativo, dimenticando i danni che produce nell’organismo umano e in particolare sul cervello degli adolescenti.


 
Amelia Elia
 
© Avvenire, 2 febbraio 2013
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