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Gualtiero Bassetti: «Natale è mettere la vita nelle mani di Gesù»

«Sarà una festa particolare ma non più triste. Andiamo incontro a Gesù con amore, nella condizione in cui ci troviamo», dice al settimanale "Credere" il presidente della Cei, che ha vissuto in prima persona il dramma del Covid. «Dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri»

Età 78 anni
Professione Presidente della Cei e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve

Il “suo” Natale Ricorda bene quelli del Dopoguerra

Don Milani e La Pira i suoi maestri

«Fraternità, corresponsabilità e collegialità. Penso che sia un’attesa comune, mia e dei confratelli»: così rispondeva Bassetti all’indomani della nomina a presidente dei vescovi italiani, il 24 maggio 2017. Un trinomio che in questi anni ha coltivato con tenacia, con non poche difficoltà. Nato a Popolano di Marradi (Firenze) il 7 aprile 1942, è stato ordinato presbitero il 29 giugno 1966 e vescovo l’8 settembre 1994. Ha guidato le diocesi di Massa Marittima-Piombino, poi Arezzo-CortonaSansepolcro e, dal 2009 a oggi, Perugia-Città della Pieve. È membro delle Congregazioni per le Chiese orientali, per i vescovi, per il clero e del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Tra i suoi “maestri toscani”, don Milani e Giorgio La Pira. Raccogliendo l’intuizione del “sindaco santo” di Firenze, nel febbraio scorso ha promosso l’incontro dei vescovi del Mediterraneo.

L’idea è maturata in riunione di redazione, con affetto e un po’ di apprensione: perché non chiedere al cardinale Bassetti se se la sente di raccontarci il suo Natale? Avevamo appreso – con preoccupazione – che anche il presidente dei vescovi italiani, 78 anni, era stato colpito dal Covid-19, con un successivo aggravamento delle condizioni generali e il ricovero in terapia intensiva. E poi – con conforto – la notizia del suo miglioramento, del trasferimento all’ospedale Gemelli di Roma e quindi, il 3 dicembre, di nuovo a Perugia, per la convalescenza nella sua diocesi. Al di là del ruolo Bassetti, con il suo fare pacato, bonario ma anche deciso quando è il caso, è infatti riuscito a conquistare le simpatie e l’affetto anche dei giornalisti che lo seguono da quando, nel 2017, è stato chiamato da papa Francesco a guidare la Chiesa italiana. Ecco l’intervista che ha rilasciato per i lettori di Credere, con semplicità e grande schiettezza, per accompagnarci in questo Natale che, come dice, «sarà molto particolare, ma non più triste», con l’augurio «che la famiglia della Natività ci ispiri ad aver sempre cura dei genitori, dei figli, dei nipoti, dei nostri cari, con semplicità, comprensione reciproca, fede».

Innanzitutto, come sta?

«È bello sentire per prima questa domanda. Grazie. La sento come carica di affetto e di premura nei miei confronti. Posso dire di stare bene, anche se sono ancora in fase di recupero pieno delle forze. Avanzo nel cammino di guarigione con l’aiuto del Signore e l’affetto di tutti coloro che non smettono di dimostrarmi, pur distanti, vicinanza e premura».

Quali pensieri sono ritornati in queste settimane? A chi ha pensato?

«Sono stati giorni delicati, in cui mi sono sentito come chiamato a trarre un bilancio di una vita. Penso che per tutti noi i problemi di salute siano un motivo, a volte davvero drammatico, per guardarsi dentro. Come ho avuto occasione di dire, i giorni che ho vissuto in ospedale a causa del Covid-19 li ho sentiti quasi come quelli di Gesù del deserto. Ho provato su di me l’arsura della sete, la fatica di respirare, la lotta del mio corpo per respingere il virus. È stata la consuetudine alla preghiera che ha aiutato e mi ha dato conforto. Forse, più che pensare, in queste giornate particolari ho pregato».

Come “pastore” dei vescovi italiani, qual è stata la preghiera per i suoi confratelli e per l’Italia?

«Come ogni sacerdote anche io sento forte il legame con la mia gente. Sin da quando, rettore del seminario di Firenze, pregavo per i miei ragazzi. Poi come vescovo e oggi come presidente della Cei sento che la gente è il motivo per cui sono quello che sono. Nei giorni della degenza in ospedale la mia preghiera è stata per lo più una preghiera di intercessione e di affidamento. E, in particolare, ho affidato al Signore tutti i malati e i loro familiari».

Che cosa ci insegna la pandemia?

«Penso che già ci abbia insegnato la solidarietà e l’unità contro ogni forma di disgregazione. Per affrontare un problema così grande abbiamo bisogno di remare tutti nella stessa direzione e di prenderci cura gli uni degli altri. Mi piacerebbe che questo insegnamento restasse come uno stile ecclesiale, anche quando la pandemia sarà solo il ricordo di una stagione passata».

Nella prima domenica di Avvento il Papa ha parlato della necessità di vigilare e vegliare, per vincere il sonno dell’indifferenza e della mediocrità. Rispetto a queste due tentazioni, quali sono i rischi per la Chiesa italiana?

«L’antidoto all’indifferenza è la solidarietà, lo ribadisco: abbiamo bisogno di recuperare il senso dell’essere comunità. Anche la Chiesa può tornare con profitto alle radici della comunione ecclesiale, ovvero alla fede nel Cristo. La mediocrità si combatte invece con l’educazione: la pandemia ha fatto emergere posizioni insostenibili. Anche noi credenti possiamo rischiare di concepire ingenuamente la fede come uno scudo che ci protegga da tutte le malattie: ma questo è un modo per restare pigri nella fede e, in definitiva, per scivolare nell’irresponsabilità verso se stessi e verso gli altri. Oggi abbiamo l’occasione per riconoscere anche come credenti il valore della ricerca scientifica e per essere grati a quanti si stanno ancora impegnando nell’ambito dell’assistenza medica».

Qual è la sua attesa per questo Natale? Quale la sua preghiera?

«Sarà un Natale molto particolare, ma non più triste. Un Natale con meno pranzi, con meno festa, ma così diventa più trepida la nostra attesa. Avvento vuol dire Gesù che viene. E se Lui viene non possiamo stare fermi. Nella condizione in cui ci troviamo dobbiamo andargli incontro con amore, perché Lui ha la luce che illumina il mondo, Lui viene a salvarci… Natale è andare incontro a Gesù, mettendo la nostra vita nelle sue mani. E ancora, il mio pensiero va alle famiglie: quelle dove ci sono malati, quelle dove ci sono i bambini piccoli, quelle dove per un motivo o un altro ci sono dei disagi economici. Ma la contemplazione della grotta di Betlemme ci conforta anche quest’anno. Penso alla grande compostezza della Vergine e di Giuseppe, stretti in una situazione disagevole ma non per questo sconfortati; alla speranza rappresentata da un bimbo che nasce; alla dimensione di famiglia come luogo in cui ciascuno impara a dare e ricevere amore. Il presepe non è un quadretto patinato, ma lo stimolo a vivere in pienezza i nostri legami familiari. In questi mesi abbiamo riscoperto la bellezza e anche la fatica della famiglia e la mia preghiera è che la famiglia della Natività c’ispiri ad aver sempre cura dei genitori, dei gli, dei nipoti, dei nostri cari, con semplicità, comprensione reciproca, fede».

C’è un Natale particolare nella sua vita che ricorda più di altri per qualche motivo?

«È difficile sceglierne uno. Ripercorrendo i miei anni, molti sono i ricordi che si affacciano alla memoria, ma forse, pensando alla situazione attuale del nostro Paese, non posso non pensare ai Natali del Dopoguerra. Allora come ora, c’era una società da ricostruire, l’incertezza per il futuro, la paura della povertà, eppure non mancavano la preghiera in famiglia, il dialogo, la vita in comune, la pazienza, la buona educazione. Una reciprocità fatta di fiducia e sostegno che mi ha insegnato che per moltiplicare bisogna condividere e che nessuna notte è tanto lunga che non vi sia la luce del mattino. E che Gesù nasce per tutti».

C’è una Parola del Vangelo che l’accompagna in questo tempo?

«In questi giorni mi accompagna un’espressione, riportata dall’evangelista Marco, che Gesù rivolge ai discepoli, mentre la loro barca è quasi travolta dalle onde: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Quelle onde mi fanno pensare alle sofferenze che a volte ci sovrastano e a quanto sia facile, nelle tribolazioni, aver timore che il Signore non ci sia accanto. Leggere quelle parole di Gesù, invece, mi dà conforto e pace e così penso sia per ciascuno di noi».

Un pastore del presepe che sente più vicino?

«Il pastore che porta sulle spalle una pecorella. Sapete che questo è il simbolo anche della Conferenza episcopale italiana. Un’opera antica, conservata nel Museo Pio Cristiano in Vaticano, che poi nel cristianesimo è diventata l’icona del Buon pastore, come dice il Vangelo di Giovanni. Ecco, vorrei che nel presepe non mancasse mai un pastore attento anche all’ultima sua pecorella: e per questo merita di andare a incontrare Gesù Bambino».

Vittoria Prisciandaro

© www.famigliacristiana.it, lunedì 21 dicembre 2020