I valdesi e il “matrimonio” gay
Con riferimento alla notizia delle nozze gay concesse dai valdesi, domando che valore abbia questo “matrimonio” per mezzo del quale i due protagonisti, entrambi di fede protestante, hanno deciso di “sposarsi” e di ottenere la benedizione della loro unione dalla propria Chiesa, rivendicando «non un diritto ma un dono, un atto di grazia».
Pier Luigi G. – Perugia
La notizia fa nascere alcuni interrogativi. Ne ricordo tre.
1. Perché le persone omosessuali chiedono che il loro rapporto sia denominato “matrimonio”?
Matrimonio etimologicamente indica uno stato di vita in cui una donna diventa madre (matris munium). Come si può pensare che il rapporto affettivo tra due uomini realizzi questo fatto? Se poi usciamo dall’etimologia e cerchiamo il significato che viene dato dall’uso vediamo che per matrimonio si intende il rapporto affettivo tra un uomo e una donna, che si prendono cura l’uno dell’altro e procreano. Nel rapporto omosessuale ci può essere affetto e cura reciproca, ma non procreazione. E allora, perché denominare con lo stesso termine due esperienze così diverse? È come se si pretendesse di indicare con il termine “Barolo” ogni spremuta di uva, dicendo che sono tutti vino e non bisogna discriminarli, o come se si pretendesse di mettere in Formula uno una Seicento, dicendo che in fondo tutte hanno in comune il fatto di essere automobili. Si crea solo confusione, non solo verbale, ma nella realtà.
2. Perché le persone omosessuali chiedono che il loro rapporto abbia un riconoscimento giuridico e addirittura gli stessi diritti del matrimonio?
I cittadini hanno il diritto di creare tutti i rapporti che ritengono opportuni per la loro vita e per la loro crescita. Ma non possono pretendere che ogni rapporto a cui danno vita abbia un riconoscimento giuridico e fondi dei diritti. Si può pensare che il fondamento di questo diritto sia l’affetto e il fatto di prendersi cura l’uno dell’altro. Ma allora ogni rapporto affettivo con conseguente cura può pretendere questo riconoscimento: il rapporto tra due amici, il rapporto tra madre e figlio, tra nonno e nipote, tra fratello e sorella, tra badante e assistito. Si dirà: basta precisare che il rapporto non deve essere tra consanguinei e deve avere una certa stabilità e continuità. Ma non è sufficiente. Non possiamo dimenticare che oltre alla giustizia commutativa e legale esiste la giustizia distributiva. In forza della giustizia distributiva la società dopo avere assicurato a ogni cittadino il necessario per vivere e le condizioni per svilupparsi, deve concedere nuovi diritti in base all’apporto che ognuno dà alla formazione del bene comune. L’apporto al bene comune che dà il rapporto affettivo e di cura di due persone omosessuali è molto diverso dall’apporto che danno un uomo e una donna legati stabilmente da un rapporto affettivo. La diversità è data da molti fattori, ma in particolare dalla procreazione-educazione dei figli, che è un bene incomparabile per la vita e lo sviluppo della società. Per questo un eventuale riconoscimento del rapporto affettivo e di cura tra due persone omosessuali non può avere da parte della società lo stesso riconoscimento che viene dato al rapporto eterosessuale. È ingiusto dare lo stesso ai diversi.
3. Perché le persone omosessuali chiedono un riconoscimento religioso del loro rapporto?
Anzitutto ricordiamo che la benedizione di cui parlano i valdesi non è un sacramento (cioè un fatto che rende l’uomo e la donna partecipi della stessa vita di Dio), ma è una semplice invocazione che l’uomo rivolge a Dio perché Dio sia benevolente nei suoi confronti e lo assista in quello che sta facendo. Ora se due persone omosessuali stabiliscono tra loro un rapporto di amicizia e cura, possono chiedere che quello stato di vita venga benedetto. Ma se stabiliscono tra loro un rapporto “more uxorio” allora devono spiegare come sia possibile che venga benedetto un rapporto che viene condannato esplicitamente da Dio. Né si dica che la parola di Dio riportata nell’Antico e Nuovo Testamento sono espressioni legate a una cultura e non hanno un carattere di assolutezza. È una spiegazione troppo semplicistica che non spiega nulla. È vero che si possono fare delle distinzioni e affermare – per esempio – che non si benedice lo stato di vita, ma le persone che vivono quel rapporto perché con l’aiuto di Dio lo vivano in modo coerente con la sua Parola. Ma in questo caso non si vede perché questa invocazione debba avere il carattere di un riconoscimento pubblico da parte della comunità. Concludendo Mi sembra che le persone omosessuali debbano deporre quella pigrizia che li induce a prendere dal rapporto eterosessuale terminologia, contenuti, richieste che non sono applicabili alla loro esperienza affettiva. Si creino un linguaggio e facciano delle proposte per il loro stato di vita proporzionato a quello che sono e a quello che fanno. In ogni esperienza umana bisogna partire da quello che è, e non da quello che si pretende che sia.