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L’odissea degli ultimi. Un inferno chiamato Libia. L'Onu: non è un porto sicuro

Acnur: «Respingimento, reato internazionale». Giallo dei fondi di Italia e Ue alle fazioni. Il ricatto dei guardacoste: «Liberano» i migranti ma «non vedono» i barconi

Che ci fanno sui barconi i migranti registrati in Libia dall’Onu e che perciò dovrebbero essere protetti dalle autorità anziché venire ceduti agli scafisti? Chi si è intascato e come sono stati davvero spesi gli oltre 300 milioni che Italia e Ue hanno versato alle varie fazioni per “stabilizzare” il Paese? Le domande in Libia sono come le tempeste di sabbia: impossibile vederci chiaro. Volendo rassicurare l’opinione pubblica il governo italiano ha parlato di «migranti salvati e riportati in Libia», dove ad attenderli ci sono «i centri dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati ».

Immediata e netta la replica: «Smentisco, non esiste alcun centro di raccolta gestito da Acnur», ha dichiarato Carlotta Sami reagendo a un tweet del ministro Danilo Toninelli. La portavoce dell’agenzia Onu ha ricordato che esiste «solo una struttura di partenza per persone che vengono evacuate (verso il Niger o per i corridoi umanitari, ndr) proprio perché non è sicuro». Nessun organismo internazionale, infatti, ha mai dichiarato il contrario. «Chi viene riportato in Libia va nei centri di detenzione cui abbiamo accesso limitato – ha ribadito Sami –. Il ritorno di persone da acque internazionali verso la Libia è contro il diritto internazionale. Non c’è alcun porto sicuro in Libia ad oggi».

L’aumento delle partenze secondo diversi esponenti del governo di Roma è da attribuire alla presenza delle Ong in mare. In realtà nel Mar Libico si trova solo Sea Watch, che negli ultimi giorni si trovava a oltre dieci ore di navigazione dai barconi alla deriva. «I dati in realtà mostrano che non esiste una correlazione tra le attività di soccorso in mare svolte dalle Ong e gli sbarchi sulle coste italiane », ribadiscono dall’Ispi. Secondo l’Istituto per gli studi di politica internazionale, che riconferma la validità della ricerca pubblicata a metà 2018 dal ricercatore Matteo Villa, «a determinare il numero di partenze tra il 2015 e oggi sembrano essere stati dunque altri fattori». Le partenze degli ultimi giorni sono quasi tutte avvenute dall’area di Garabulli, a una sessantina di chilometri da Tripoli. Curiosamente, quando i barconi vengono messi in mare, non c’è mai una motovedetta libica a pattugliare quel tratto di spiaggia. I guardacoste, che per giorni interi non rispondono neanche al telefono o alle email, si lamentano però di avere mezzi in avaria (eppure rimessi a nuovo e consegnati meno di un anno fa dall’Italia) mentre si aspettano che dall’Italia arrivino gli “aiuti” accordati.

Ufficialmente si tratta di una dozzina di motoscafi a chiglia rigida che Roma ha promesso, ma non ancora consegnato. Rimostranze che i libici generalmente tacciono quando da Bruxelles e Roma partono i bonifici per i «progetti di sviluppo». In particolare 92 milioni sono stati destinati alle municipalità, le cui leadership sono espressione delle principali 14 tribù, e altri 91,3 per il controllo delle frontiere. Cifre colossali se si pensa che sono destinate a un Paese con 6,3 milioni di abitanti -– quasi metà dell’intera Lombardia – nel quale il salario medio è inferiore del 40% rispetto all’Italia.

«Riattivare i finanziamenti può incoraggiare il controllo delle frontiere», riferisce un diplomatico europeo che da mesi negozia con gli alti papaveri della sicurezza a Tripoli. In una terra nella quale non funziona quasi niente, al contrario risulta molto più efficace la ristrutturazione del sistema bancario. Un controsenso che dice molto sugli interessi in campo. «Grazie al governo tedesco, lo staff della Banca centrale libica sta ricevendo formazione tecnica dai funzionari della Bundesbank », ha rivelato il 18 gennaio l’inviato Onu a Tripoli, Ghassam Salamé. E i risultati, a sentire il diplomatico libanese, stanno arrivando, specie sul fronte della progressiva conformità al sistema bancario internazionale.

Al contrario nessun progresso si registra verso il rispetto delle convenzioni internazionali per i diritti umani. A cominciare dalla violazione del principio del «non respingimento». «I migranti e i richiedenti asilo in Libia, compresi i bambini, sono prigionieri di un incubo, e l’operato dell’Unione Europea non fa che perpetuare il sistema di detenzione anziché liberare le persone dalle condizioni abusive in cui si trovano», dichiara Judith Sunderland, direttore associato per l’Europa e l’Asia centrale di Human Rights Watch, l’organizzazione che ieri ha presentato un nuovo dossier che conferma tutte le accuse mosse alle autorità libiche pochi giorni fa dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.

«I pochi sforzi 'dimostrativi' per migliorare le cose e far uscire qualcuno dalla detenzione - aggiunge Sunderland – non assolvono l’Ue dalla responsabilità di consentire questo sistema barbaro». In tutto il Paese, le Nazioni Unite hanno censito (con il supporto delle diverse autorità) circa 660mila stranieri. Nei centri di detenzione governativi, nei quali secondo l’Onu avvengono «indicibili orrori», sono rinchiuse meno di 6mila persone di svariate nazionalità. Tra queste solo una minoranza proviene da Paesi citati ieri dal vicepremier Luigi Di Maio e da Alessandro Di Battista come sottomessi al sistema valutario postcoloniale francese denominato Cfa. La smentita arriva dai dati ufficiali del ministero dell’Interno. Nell’elenco delle provenienze degli stranieri sbarcati in Italia, aggiornato a dicembre 2018, il primo Paese che adotta il Franco Cfa è la Costa D’Avorio, ottavo nella lista con circa il 5% del totale dei migranti. Tra i richiedenti asilo, invece, i migranti dalle ex colonie francesi evocate dagli esponenti del M5s sono agli ultimi posti.

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© Avvenire, martedì 22 gennaio 2019

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