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La via del popolo cristiano in quest’oggi. Per esser parte di chi si alza

Cosa c’entriamo noi con il percorso sinodale che la Chiesa universale intraprende oggi? Domanda paradossale: perché sarebbe come dire cos’ha a che fare con noi credenti la Chiesa

Possiamo chiamarla in cento modi affettuosi, tutti belli e giusti: madre, casa, famiglia, maestra... Ma è anche e soprattutto «il popolo santo di Dio», come ama dire il Papa: siamo noi. Noi cattolici della domenica, noi impegnati nelle sue molteplici attività, noi che stiamo più fuori che dentro, noi che stiamo così dentro da far parte del consiglio pastorale, noi catechisti o educatori, noi distratti partecipanti a qualche liturgia ogni tanto, laici e consacrati, dediti o scettici, mistici o gente di poca preghiera, iper-responsabili o perennemente "sulla soglia".

Noi così come siamo, imperfetti e sgualciti, senza pagelle né lista dei buoni e dei "rivedibili".
E allora, tanto per cominciare il Sinodo aperto questa mattina dal Papa in San Pietro consiste nel tornare a vederci per quello che siamo semplicemente perché battezzati: popolo di Dio, Chiesa. Con tutto ciò che comporta in termini di partecipazione, corresponsabilità, impegno di condivisione, diritto di parola e dovere di ascolto. La Messa domenicale (o più frequente), la cattolicità poco più che anagrafica o lo stesso coinvolgimento in un’attività pastorale non esauriscono l’appartenenza al corpo vivo della Chiesa. Per quella è più che sufficiente essere ciò che siamo, sentendoci chiamati proprio per questo a esser parte di chi si alza in piedi. E se la Chiesa cui apparteniamo viene messa in cammino dal Papa per un viaggio alla riscoperta di se stessa dentro questa società così multiforme e disorientante la cosa ci riguarda direttamente. Non occorre essere specialisti, o affrontare chissà quale tirocinio, per contribuire a scrivere questa pagina nuova, ciascuno con la sua calligrafia. Si tratta di informarsi, capire e cercare il proprio posto in un viaggio che ha per orizzonte e obiettivo «collaborare meglio all’opera di Dio nella storia», secondo le parole del Papa, e come stile l’ascolto della voce dello Spirito: non poco, certo, ma è quello che dovremmo fare sempre.

Non c’è tempo per restarsene in attesa di sviluppi e istruzioni, non sono previste le gradinate per gli spettatori, non c’è margine per lo scetticismo, che negli ambienti ecclesiali è tossico come erba infestante. Il "percorso sinodale" al quale papa Francesco chiama da oggi la Chiesa ci mette in moto tutti, dagli animatori di parrocchia a chi se la cava con quattro pratiche rituali. Perché la Chiesa – cioè tutti noi – è sinodale per natura, e nessuno può sentirsi escluso quando essa avvia un «processo in divenire» e si apre a una «partecipazione vera» per «prendere sul serio il tempo che abitiamo».

È il passaggio dalla condizione adolescenziale del non sentirsi mai davvero chiamati in causa perché "non tocca a me" alla consapevolezza adulta di essere dentro una famiglia nella quale ognuno è insostituibile. Le forme di questo "percorso" verranno, un passo dopo l’altro: non facciamoci divorare dalla fretta di vedere, capire, giudicare. La Chiesa italiana si accinge a farci partecipi di una scansione di tempi e modi da qui al 2025. Ma l’essenziale oggi non è neppure questa mappa generale, pur decisiva per orientarci nel tempo lungo che ci attende. Oggi conta saperci Chiesa, sentircene sanamente orgogliosi e lieti, per il semplice fatto che siamo stati chiamati a farne parte attiva portandoci dentro tutto di noi stessi, limiti e incoerenze compresi.

A mettersi in cammino oggi non è la "nazionale dei già santi", o un manipolo di professionisti della pastorale, ma tutto il popolo, uno per uno. Diversamente si rischia di mettere in scena una sacra rappresentazione poco credibile e ancor meno attrattiva, che deraglia dalla strada tracciata da «comunione, partecipazione e missione» – sono sempre le parole del Papa, meditando ieri sulla strada per la quale si inoltra lui davanti a tutti –, cedendo alle perenni lusinghe del «formalismo», dell’«intellettualismo» e dell’«immobilismo». Qui c’è ben più di un «evento», di un «gruppo di studio», del «si è sempre fatto così».
Fermiamoci un attimo a considerare l’occasione, e a meditare la scena che si apre davanti ai nostri occhi. Perché torna a passare accanto alle nostre reti vuote il Signore che mi chiama per nome, come in un nuovo mattino sulla riva del mondo.

Francesco Ognibene

© Avvenire, sabato 9 ottobre 2021

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