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L'arte di osservare la tragedia di spalle

I racconti del buonumore 7

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 Ahi, l’umorismo. È una brezza della mente che pochissimi fortunati sanno trasmettere. È una velocità della cattiveria che protegge dalla disperazione e dallo squallore: quanta luce nel "Dittatore" di Chaplin, quando in quel lieve funambolismo autoerotico del suo Hitler, lanciava in aria il mappamondo. Ma senza arrivare a queste vette, l’umorismo insieme alla sua grassa dea, la comicità, è una questione matematica. Come la musica, ha dei dettami fermi, necessita un tempismo mozartiano, ha bisogno dell’anticipo, in levare. È retaggio da sempre del mondo maschile, rare sono le donne ricche di senso di humour e quelle poche sono amatissime e spiate come detentrici di un grande segreto. E lo è infatti. Da attrice qualche volta ho avuto l’opportunità di recitare in un testo comico e ricordo l’ebbrezza della risata che arrivava dalla platea, e la frustrazione quando alla stessa battuta pronunciata nello stesso tono, rispondeva un gelido silenzio.

"Questi sono di legno", mormorava un collega stizzito, la colpa era degli spettatori che non capivano, perché sordi, perché vattelappesca, ma non è vero. Certo a Napoli il pubblico ride meno che a Roma, ma la responsabilità è sempre di chi sta sul palco e se non catturi la risata, è perché qualcosa ti è sfuggito.

Si ride sui difetti, e una bella donna per strappare una risata deve avere un tacco rotto o leggere un libro alla rovescia come Marilyn ne "Gli uomini preferiscono le bionde", che grande comica era la diva, e le sue imitazioni sono sempre avvilenti caricature perché ne sottolineano solo l’aspetto fisico. E si ritorna al punto. L’umorismo è eleganza e sottigliezza, un sorriso sarcastico può distruggere un potente, la comicità è sensualità, sorpresa, anche turpiloquio che non necessariamente è volgare. La parolaccia ha avuto un incremento sorprendente negli ultimi dieci anni, da bambina ricordo che se qualcuna diceva parolacce veniva segnalata dai genitori, emarginata dalle feste. Ora la parolaccia è diventata interiezione, segno di bon ton in uso comune persino nel linguaggio ufficiale su illustri labbra siliconate. E non si ride. Sono una pessima ascoltatrice di barzellette perché quando il gioco è scoperto – vieni che adesso ti faccio ridere – mi blocco, l’intelligenza non ha quel minimo sussulto di meraviglia, e non scatta il cortocircuito che mi fa esplodere nella risata….

Il comico, è la festa della scimmia liberata che è in noi, i bambini e gli animali a volte sono imprevedibili e divertenti, mai comici. La comicità è un’arte. Non è da escludere che il serpente della Genesi abbia indotto Eva a trasgredire con qualche invenzione esilarante.

La comicità è osservazione cinica del reale con capovolgimento, è la tragedia vista di spalle.

Perché nel privato molti comici hanno un lato oscuro? Malinconici, a volte nevrotici, fragili. Non tutti ovvio, ma deve essere un lavoro da funambuli e ci vuole un carattere spericolato, per camminare sul filo della battuta. Penso ai cabarettisti, ai monologhi, al grottesco che sta nella realtà, e loro hanno la capacità di coglierlo a volte addirittura anticiparlo, profeti dell’assurdo. Fatico a non fare nomi, di proposito non voglio farli perché per fortuna ne abbiamo una rosa ampia. Tralascio la comicità involontaria, quella sì seriamente tragica, che si può riassumere nel classico marito colto in flagrante adulterio nella camera da letto, che dice con empito "Cara, non è come pensi tu", comicità da situazione, chiunque strapperebbe una risata, si va sul sicuro eppure…ne abbiamo di casi che a loro insaputa consumano ben altro che banali adulteri e allora il comico che fustiga e castiga ridendo mores, resta ahinoi, l’ultima valvola dei moralisti.

Allora sì, da spettatrice provo gratitudine, affetto e invidia tutto insieme.

 

Paola Pitagora
 
© Avvenire, 8 agosto 2012
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