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Le vere parole del Papa. «Aborto e scomunica, basta con gli equivoci»

La canonista Grazioli spiega da dove hanno origine le incomprensioni dopo la decisione di Francesco che ha esteso a tutti i sacerdoti la possibilità di assolvere dal peccato di aborto

Un grande abbraccio di misericordia nel solco della tradizione della Chiesa trasformato in perdonismo a buon mercato, in gesto che azzera ogni profilo etico per l’ansia di voler scoprire la «svolta» a tutti i costi. Cioè esattamente il contrario di quanto scritto del Papa. A tre giorni dalla pubblicazione della Lettera apostolica Misericordia e misera, sulla decisione di Francesco che – come più volte ribadito – ha esteso a tutti i sacerdoti la possibilità di assolvere dal peccato di aborto prima riservata solo ai vescovi o ai confessori con specifica autorizzazione, continuano ad addensarsi valutazioni strampalate e giudizi approssimativi.

Tanto che l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, in un’intervista a Tv2000, ha definito 'idiozie' alcuni titoli e contenuti comparsi su non pochi media. «Voglio dire una cosa nei confronti dei giornalisti – ha aggiunto Fisichella – , in Sala Stampa ne ho sentite di tutti i colori. C’è da parte di qualcuno la tentazione di leggere in fretta e quando si legge in fretta non si capisce. C’è la tentazione di trovare subito qualche cosa. E di tanti contenuti l’occhio è caduto solo sull’aborto. C’è poi la volontà di qualcuno di voler denigrare e trovare quello che non c’è».

Il punto che ha alimentato i maggiori equivoci è risultato quello della cosiddetta scomunica lateae sententiae (canone 1398) per «chi procura l’aborto ottenendone l’effetto». Scomunica che, non avendo il Papa specificato nulla a riguardo, rimane un vigore fino a decisione contraria.

E allora, perché questa incomprensione? «La confusione – spiega Orietta Rachele Grazioli, canonista, docente di diritto della famiglia alla Lateranense – nasce dal fatto di confondere il piano del delitto da quello del peccato. Nel diritto canonico non tutti i peccati sono delitti, mentre è vero il contrario. Nel caso dell’aborto siamo in presenza di un delitto particolarmente efferato che, come ribadito dal Papa, è anche un peccato gravissimo, cioè l’omicidio di un innocente». La scomunica latae sententiae, che cioè scatta in maniera automatica e che rappresenta la pena più grave prevista dalla legge della Chiesa, va a sanzionare proprio questa doppia valenza, cioè delitto grave più peccato altrettanto pesante. Identica pena, per esempio, è prevista (canone 1370) «per chi usa violenza contro il Romano Pontefice».

Ma, a rendere ancora più assurde tante valutazioni espresse in questi giorni sulla decisione del Papa, c’è anche il fatto che il Codice di diritto canonico già prevedeva la possibilità di cancellare la scomunica per i peccati più gravi – aborto compreso – anche da parte di un sacerdote 'non autorizzato'. «Ma certo, si tratta del canone 1357 che – riprende la canonista – concede al confessore la possibilità di rimettere 'in foro interno sacramentale' la censura latae sententiae 'per il tempo necessario a che il Superiore competente provveda'».

In altre parole, se una donna che ha abortito si rivolge al confessore e mostra di aver compreso la gravità di quanto commesso, manifestando sincero pentimento e fermo proposito di non cadere più nella stessa colpa, il sacerdote può cancellare la scomunica e permetterle di riaccostarsi ai sacramenti. «Una scelta che – riprende Grazioli – si spiega con il senso profondo delle norme previste dal Diritto canonico che è sempre la salvezza delle anime.

Prima della Misericordia et misera, se il sacerdote verificava che per il penitente era troppo gravoso, dal punto di vista spirituale, rimanere lontano dai sacramenti, poteva rimettere la censura e, nell’attesa dell’intervento del vescovo a cui spettava l’assoluzione, concedeva la possibilità di accedere ai sacramenti ». Alla luce della decisione del Papa, la facoltà concessa dal canone 1357 – almeno per quanto riguarda l’aborto – dovrà essere riaccordata con le nuove facoltà allargate a tutti i sacerdoti. «Vedremo – conclude la docente – se sarà rivisto il canone o se il Papa interverrà con un Motu proprio».

Luciano Moia

© Avvenire, giovedì 24 novembre 2016

 

Aborto. I dubbi di un medico abortista, la via cristiana per i figli perduti

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È un ginecologo, non obiettore, vice primario in un ospedale del Vicentino. Ha migliaia di aborti alle spalle, nella sua lunga carriera. Non parla come un pentito. Parla con sofferenza

 

È un ginecologo 62 enne, non obiettore, vice primario in un ospedale del Vicentino. Ha migliaia di aborti alle spalle, nella sua lunga carriera. Ateo, simpatizzante dei Radicali, dice di averlo fatto per i diritti delle donne, perché c’era una legge dello Stato, e qualcuno quel lavoro lo doveva fare.

Non parla come un pentito, il medico intervistato ieri dal “Corriere della Sera”. Parla come uno che ha dei dubbi, della sofferenza, perfino della nausea davanti a quelle serie infinita di interventi uguali. Non è il solo, e neanche il primo. Ma ciò che colpisce è quando racconta del suo errore.

Un giorno, trent'anni fa, praticò un aborto, ma un mese più tardi si scoprì che la gravidanza di quella donna proseguiva. Lei, all’inizio, voleva denunciarlo. Pochi mesi dopo il dottore la incrociò nei corridoi della nursery: aveva un bambino in braccio, un bambino bruno attaccato al seno.

La madre, ora, sorrideva. Quell'incontro deve essere rimasto indelebile nei ricordi del medico. «Quanti bambini mai nati potevano essere come quel piccolo?», racconta di essersi chiesto, turbato. «Ma – prosegue – mi rispondevo che sì, che era giusto. Lo era per le donne». Quelle altre donne che peraltro quando, anni dopo un aborto, lo incontravano in ospedale, gli dicevano: «Dottore, io questa croce me la porterò nella tomba».

Sono spezzoni di verità quelli che emergono dall'intervista del ginecologo veneto. C’è la “militanza” Anni Settanta dell’uomo che ha aderito alle ragioni del femminismo, che crede nella libertà di autodeterminazione della donna, che – lo dice egli stesso – come un soldato, se c’è la guerra, è pronto a partire. C’è, forse, un’ombra ancora di lontano orgoglio, per quando era medico abortista nella terra-cuore della ex Balena bianca democristiana. C’è il disprezzo per chi si arricchiva con gli aborti clandestini. C’è insomma il dirsi, da parte del dottore, che ha fatto quel che si doveva fare. Ma poi, c’è l’“errore”, e quel giorno in cui si trova faccia con il suo “errore”, un bambino in braccio a sua madre.

E il sussulto nel profondo: ma tutti quelli che non ho fatto nascere, erano come questo qui? Che è un pensiero simile a quello di tante che, giovani o sole o povere, non hanno voluto il figlio che attendevano; ma poi, anni dopo, più mature, con il primo figlio in braccio, o guardando il bambino di un’amica, sussultano alla stessa maniera: mio Dio, ma “lui” era come questo qui? E il cuore, raccontano, allora ha un tonfo grave, come se cadesse giù, in una profondità infinita. È questa la croce che tante, anche ormai anziane, confessano al loro medico di un tempo, prendendolo magari in disparte nel corridoio dell’ospedale, fermandolo un istante: «Questa croce, dottore, non me la toglierò mai più». Perché un giorno d’improvviso forte e straziante è l’evidenza: era un bambino, esattamente come quello avuto anni dopo, come il nipote che oggi, da vecchie, considerano la propria gioia più grande. La medesima evidenza che ha fatto vacillare un medico con mille aborti alle spalle, è quella che cuce segretamente il dolore nel cuore di una moltitudine di donne. Ma, cosa possono fare? Quel figlio è morto, e lo hanno scelto loro. E nessun altro figlio sarà uguale. Pare un tormento cieco e senza fine. La sola speranza, è il perdono di Dio. Scrive il Papa nella sua Lettera apostolica Misericordia et misera: «Non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere».

E allarga in modo permanente la possibilità di dare l’assoluzione per un aborto a ogni sacerdote. Perché quelle croci in fondo al cuore sono troppe. Il perdono non significa che è come se non fosse successo niente, giacché è impossibile: quella morte c’è stata. Ma significa che il figlio perduto sarà ritrovato, vivo, in Dio. E quel giorno sarà un sentirsi come la donna cui per “errore” il figlio era stato lasciato in grembo, nel momento in cui lo ha avuto fra le braccia, vivo. Una felicità non dicibile; nemmeno forse umanamente immaginabile, perché più grande è la gioia, quando si ritrova ciò che si credeva per sempre perduto.

Marina Corradi

© Avvenire, giovedì 24 novembre 2016