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L'odio on line? Si può combattere

«Servono responsabilizzazione e media education», dice il ricercatore Stefano Pasta, che nel libro Razzismi 2.0 analizza e cataloga i diversi tipi di odio

rovate a digitare “zingari”, “negri” o “napoletani” in un qualsiasi motore di ricerca e i risultati dell’auto completamento (la funzione che fornisce possibili accostamenti sulla base delle ricerche degli utenti, ndr) saranno sconfortanti. In rete c’è chi denigra, chi provoca, chi odia e gli obiettivi sono spesso gli stessi: i rom, gli immigrati, gli ebrei, “l’altro”. «La diffusione della violenza on line è un fenomeno preoccupante», dice senza giri di parole Stefano Pasta, dottore di ricerca in Pedagogia all’Università Cattolica di Milano.

Pasta si è immerso nel mondo del razzismo 2.0 e ha trovato insulti di tutti i colori. L’odio in rete è una realtà sotto osservazione da tempo, ma la ricerca di Pasta – nata dalla collaborazione con il Cremit (Centro di ricerca sull’educazione ai media dell’informazione e alla tecnologia) dell’Università Cattolica di Milano e il Centro di ricerca sulle relazioni interculturali sempre della Cattolica, e raccolta nel libro Razzismi 2.0. Analisi socio educativa dell’odio on line (Scholé-Morcelliana) - focalizza alcune novità interessanti. Compresa una possibile via di uscita.

Cominciamo dalle novità. Innanzitutto si nota il ritorno di discorsi razziali segnati dall’istanza biologica, tanto diffusa nella prima parte del Novecento. «Oggi parliamo di “razzismo esplicito banalizzato”. Chi insulta Mario Balotelli o Cécile Kyenge accostandoli alle scimmie non pensa certo alla parentela genetica, si tratta quindi di razzismi svuotati di una qualsivoglia base scientifica», porta ad esempio il ricercatore. «L’ignoranza diventa violenza ancora più facilmente sul digitale, dove l’atteggiamento deresponsabilizzato fa cadere qualsiasi tabù».

Pasta ha studiato i casi censiti dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) e ha indagato vari ambienti digitali come le pagine Facebook di ultras del calcio o i post a commento di articoli su tematiche a rischio. «Nello spazio digitale la “zona grigia” aumenta incredibilmente. Mi ha colpito l’idea che in rete ci si possa permettere di fare “battute” su tutto. Come se ci fosse differenza fra on line e off line e un commento razzista sul web avesse meno peso».

In rete dunque si abbassa il limite del tabù e si alza il linguaggio dell’odio. «Inoltre c’è l’anonimato (un’illusione, visto che in rete tutto è tracciato, ndr), che fa sentire liberi da qualsiasi regola di convivenza civile, e l’analfabetismo emotivo, ovvero l’assenza di consapevolezza della proprie emozioni e il controllo dei comportamenti associati, che porta all’incapacità di immedesimarsi nelle emozioni altrui. Sul web siamo tutti sottoposti al desiderio di popolarità e pensare con la propria testa è difficile».

Fra gli odiatori ci sono anche ragazzi. Proprio loro, i nativi digitali, spesso ritenuti capaci di vivere on line per il solo fatto di essere nati “con lo smartphone in mano”. «La differenza è fra intelligenza digitale e cyber stupity (ovvero il non valutare le conseguenze delle proprie azioni) la fa l’educazione, non certo l’età», osserva Pasta.

Per uscire da queste dinamiche una via però c’è. «Esiste uno spazio educativo. Me ne sono accorto chattando su Ask.fm con più di 100 adolescenti che a vario titolo avevano avuto a che fare con episodi di razzismo. Alcuni hanno riconosciuto l’errore e hanno cancellato antichi post pieni di odio», prosegue ancora Pasta.

Il tema oggi non è quindi solo educare lo spettatore al pensiero critico rispetto a ciò che si trova on line, ma anche istruire alla produzione responsabile di contenuti e informazioni. «La media education spetta a educatori e insegnanti, che non possono più tralasciare la dimensione dell'on line, ma in generale spetta a tutti. Non esiste una formula magica. L’approccio punitivo, repressivo, non funziona, piuttosto si può chiedere a ragazzi e adulti di prendere sul serio le proprie azioni anche nel digitale», continua il ricercatore.

Un’altra fonte di speranza è poi quello che l’esperto chiama «capitale antirazzista», ovvero persone che contro il razzismo on line fanno sentire la propria voce. «La rete è uno spazio con tante persone, bisogna conoscere i meccanismi e dare spazio alle presenze sane. Queste presenze funzionano come da anticorpi».

Laura Bellomi

© www.famigliacristiana.it, 29 novembre 2018

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