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Napolitano e Ravasi: contro i muri l'ariete del dialogo

Sul palco davanti alla Basilica inferiore di San Francesco sono solo in tre. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, a dialogare. E il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, a fare da moderatore. Ma alla fine dei loro discorsi avviene una sorta di "miracolo" e il palco sembra a poco a poco riempirsi di una vera e propria folla.

NAPOLITAN.jpgSfilano padri della Costituente come Giorgio La Pira, Piero Calamandrei e Concetto Marchesi. Filosofi e scienziati come Benedetto Croce e Albert Einstein. Pensatori contemporanei come Norberto Bobbio o scrittori e cineasti come Georges Bernanos, Thomas Mann e Ingmar Bergman. Sono credenti e non credenti, spesso schierati su posizioni opposte nei dibattiti della loro epoca. Ma tutti a loro modo abitatori di quel grande "Cortile dei Gentili" che supera persino i confini del tempo, oltre che quelli dello spazio, e ha tanto da insegnare ai nostri giorni. Anche perché l’Italia, secondo l’opinione del capo dello Stato, vanta una tradizione di confronto tra laici e cattolici, molto più pacato di altri Paesi europei.

Così la tappa di Assisi dell’iniziativa voluta dal Papa per promuovere il dialogo tra chi crede in Dio e chi invece ne è spesso inconsapevolmente in ricerca dimostra tutte le sue potenzialità. A cominciare dall’abbattimento di quel muro divisorio che tanti danni ha causato nel corso della storia. E se Ravasi afferma senza mezzi termini che «è la parola dialogo l’ariete capace di far cadere le divisioni», il capo dello Stato è a suo modo ancora più esplicito, quando ad esempio invoca: «Basta con contrapposizioni sterili e delegittimazioni reciproche che soffocano il nostro Paese e la nostra società». O quando afferma che l’Italia deve ritrovare «i valori essenziali» del «bene comune e dell’interesse generale». In altri termini serve «una straordinaria concentrazione e convergenza di sforzi, ad opera di credenti e non credenti, come accadde nel clima dell’Assemblea Costituente». Sforzi «da volgere soprattutto a rianimare senso dell’etica e del dovere, a diffondere una nuova consapevolezza dei valori spirituali, dei doni della cultura, dei benefizi della solidarietà, che soli possono elevare la condizione umana».

A tal proposito Napolitano cita Bobbio, che si definiva «immerso nel mistero». E confida di aver personalmente riscoperto Pascal e di voler continuare ad approfondirlo. Ma ricorda, come esempio di quella convergenza, soprattutto un episodio che avvenne proprio ai tempi della Costituente. La Pira propose di far precedere il testo della Carta fondamentale dello Stato dalla frase: «In nome di Dio il popolo italiano si dà questa Costituzione». Togliatti reagì in maniera «inopportuna» accusando la proposta di voler scavare un solco ideologico. Anche Calamandrei si oppose, ma Concetto Marchesi, che pure era comunista, disse: «Ho sempre respinto l’ipotesi idea che Dio sia un’ideologia. Questo supremo mistero dell’universo non può essere risolto in un articolo di Costituzione». E La Pira ritirò la sua proposta. C’era infatti in quella stagione una «convergenza di fondo sull’antropologia complessiva» e « l’incontro tra due solidarismi, cristiano e socialista».

Oggi quella lezione va riscoperta. Avverte il capo dello Stato: «Quel che rischia di perdersi è il senso del bene comune e dell’interesse generale, che dovrebbe spingere a una larghissima assunzione di responsabilità, ad ogni livello della società, in funzione dei cambiamenti divenuti indispensabili». In particolare il presidente della Repubblica dice no agli scontri politici tra cattolici e non cattolici, soprattutto per quanto riguarda gli interventi nel campo della famiglia e dalla morale. Napolitano auspica infatti, che «sia possibile affrontare tali questioni fuori da antitetiche rigidità pregiudiziali e anche di forzose strettoie normative. Abbiamo bisogno, in tutti i campi, di apertura e di reciproco ascolto, di comprensione e di dialogo, di avvicinamento e di unità nella diversità: abbiamo bisogno cioè dello spirito di Assisi».

Soprattutto, aggiunge il capo dello Stato, «la nostra comunità nazionale necessita, oggi come in pochi altri momenti da quando ha ritrovato con la democrazia la sua libertà, di una ripresa di slancio ideale e di senso morale». C’è nelle sue parole l’eco degli scandali di queste settimane. E infatti egli parla anche di «inadeguatezza del quadro politico ad offrire punti di riferimento. Il degrado dei costumi e lo scivolamento nell’illegalità, insieme con annose inefficienze istituzionali e amministrative, provocano un fuorviante rifiuto della politica, e il rischio è di perdere di vista il bene comune». E perciò invoca il recupero di un senso della moralità pubblica, suscitando l’applauso convinto dei presenti.

Nella folta platea ascoltano, tra gli altri, il presidente della Corte costituzionale Alfonso Quaranta, il vice presidente del Senato, Vannino Chiti, e il ministro dell’interno, Rosanna Cancellieri. Oltre naturalmente al vescovo di Assisi, Domenico Sorrentino, ai frati del Sacro Convento, guidati dal padre custode, Giuseppe Piemontese, e alle autorità locali. A loro, come a tutti, il cardinale Ravasi si dirige riprendendo alcune delle suggestioni del presidente della Repubblica. «Oggi qui - dice - abbiamo avuto la conferma che il dialogo abbatte i muri. E questo è frutto del cristianesimo. San Paolo, infatti, scrivendo agli Efesini dice che Cristo ha abolito il muro che c’era tra i due popoli. Esiste perciò una tale base comune che è infinitamente superiore alle distinzioni pur necessarie. Le identità devono essere affermate, ma non devono farci dimenticare quella che Einstein chiamava la comune umanità».

Perciò il presidente del Pontificio Consiglio della cultura invita a «ritrovare le grandi domande sul senso della vita e della morte, sul dolore, sull’amore». Sono queste, dice, «le domande che debbono svegliare coscienze assopite» dal torpore delle coscienze. «I nostri giorni - ricorda poi - non sono meno immorali di altre epoche. Ma sono segnati da una malattia peggiore che è quella della amoralità, della totale indifferenza. Non c’è più bianco o nero, bene o male, dominano le tonalità del grigio e si ha persino l’arroganza di mostrarsi amorali». Il suo pensiero conclusivo è per i giovani, gli ultimi ma non i meno importanti a "salire" sul palco: «Oggi sono chiusi nel loro mondo, forse per rinuncia, forse per difesa - ricorda Ravasi - Per loro dobbiamo pensare più Cortili dei gentili».

Mimmo Muolo
 
© Avvenire, 6 ottobre 2012
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