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New media. Giornalismo e intelligenza artificiale: apocalittici o integrati?

«L’intelligenza artificiale ha risorse straordinarie che permettono di smascherare le fake news ma anche di fabbricarle. Gli strumenti per verificare ci sono». Intervista a Francesco Paulo Marconi

Francesco Paulo Marconi dimostra meno dei suoi trentadue anni. Portoghese di nascita, dopo aver studiato economia alla Cattolica di Milano è approdato negli Stati Uniti con la convinzione che le macchine abbiano bisogno dell’uomo almeno quanto l’uomo ha bisogno delle macchine. Marconi – che collabora stabilmente con il centro di giornalismo digitale della Columbia University – è stato responsabile della pianificazione della più grande agenzia di stampa mondiale, la Associated Press, e da qualche settimana guida il settore di ricerca e sviluppo del “Wall Street Journal”: l’osservatorio ideale per cercare di comprendere che cosa sta veramente accadendo nel mondo dell’informazione. Il rapporto tra intelligenza (non solamente artificiale) e arte del racconto è l’argomento affrontato ieri da Marconi nel primo incontro della nuova serie di “Meet the Media Guru”, la rassegna milanese patrocinata da Fondazione Cariplo. «Siamo ancora in una fase di transizione – spiega –, l’importante è cercare un equilibrio tra le spinte opposte che, anche questa volta, vengono scatenate dal processo di innovazione».

Ma il digitale non è una novità assoluta?

«Il punto non è la novità in sé, ma il genere di reazioni che suscita e che, in sostanza, sono analoghe a quelle che hanno accompagnato l’avvento di ogni tecnologia della comunicazione, dal telegrafo alla televisione, senza dimenticare la stessa scrittura. Ogni volta ci sono stati gli scettici e gli entusiasti. E ogni volta l’innovazione si è davvero affermata solo quando ci si è resi conto di quali fossero i benefici».

Anche passando per tentativi ed errori?

«È il procedimento caratteristico della ricerca scientifica, dove la formulazione dell’ipotesi di lavoro precede la verifica di laboratorio. Un metodo completamente diverso rispetto a quello giornalistico, che esclude la pubblicazione di notizie la cui attendibilità non sia verificata. La svolta della quale siamo chiamati a essere protagonisti consiste esattamente in questo: trovare il modo di sperimentare e, insieme, di rispettare le regole della corretta informazione. Già adesso, del resto, le redazioni più dinamiche operano con lo stile e nello spirito delle startup tecnologiche».

Può fare qualche esempio?

«Una tendenza che si sta diffondendo è quella di disegnare scenari che consentano non tanto di prevedere le notizie, ma di adeguarsi alle conseguenze che da un’eventuale notizia potrebbero derivare. Si parte da ipotesi anche estrema, come la totale estinzione del mercato pubblicitario, e ci si interroga su come comunicarla e fronteggiarla. Non si tratta di un esercizio teorico, ma di un’educazione a cambiamenti che sono ormai in atto. Come quello degli home-less media».

“Senza tetto” in che senso?

«Nel senso che distribuiscono contenuti giornalistici attraverso piattaforme di cui non sono proprietari. Lo fanno da tempo, sia pure in forma ibrida, le testate giornalistiche impegnati a diffondere articoli sui social network, ma esistono anche situazioni in cui le notizie ar- rivano da soggetti che non dispongono neppure di una propria homepage: non per questo, però, risultano meno riconoscibili o influenti».

Si potrebbe obiettare che stiamo ragionando in termini di marketing.

«Ma c’è molto di più di questo. Penso a tutta una serie di applicazioni e di strumenti che già adesso possono venire incontro alle necessità del giornalista, rendendo più rapido e produttivo il lavoro di ricerca. Si va dal sistema che genera e personalizza brevi testi sulla base delle informazioni ricevute (utilissimo per evitare operazioni altrimenti ripetitive, come quelle relative ai bollettini di Borsa o alle previsioni del tempo) fino agli aggregatori di dati che permettono di ricostruire un quadro straordinariamente ampio a partire dal riscontro di un numero limitato di episodi verificatisi su scala locale».

Fa tutto l’intelligenza artificiale?

«L’intelligenza artificiale fa molto, specie in termini di machine learning, ossia affinando le proprie competenze sulla base delle conoscenze acquisite. Ma ci vuole e ci vorrà sempre l’intuito del cronista per riconoscere la notizia. D’altro canto, anche il talento narrativo di un giornalista può trovare appoggio nella tecnologia, magari attraverso i programmi che, una volta volta individuati i punti salienti di un articolo, propongo in modo automatico sunti e sommari».

Non c’è il rischio di demandare troppo alla tecnica?

«I rischi ci sono. Prenda le fake news. Ci sono programmi che permettono di riconoscerle sulla base di alcuni indicatori ormai consolidati (se si diffonde troppo velocemente, è molto probabile che la notizia sia falsa), ma anche software che consentono contraffazioni di sbalorditiva verosimiglianza. Per non parlare della questione della privacy, che va molto al di là della vicenda, pure eclatante, di Cambridge Analytica. La Cina, in particolare, dispone di apparati di controllo impressionanti, il cui utilizzo ci è quasi completamente sconosciuto».

Siamo destinati ad arrenderci agli algoritmi?

«Al contrario, il nostro compito è semmai quello di mantenere il controllo, anche e specialmente per quanto riguarda i processi dell’informazione. Non dobbiamo dimenticare che dietro un algoritmo c’è sempre un programmatore, vale a dire un essere umano. Analogamente, da un essere umano un algoritmo può e deve essere interrogato per mettere alla prova la sua affidabilità. Nessun giornalista pubblicherebbe mai una notizia solo perché gli è stata riferita da una fonte. Chiederebbe conferme, riscontri, documenti. Allo stesso modo, davanti a un’informazione fornita da un algoritmo, il reporter di oggi ha il diritto e il dovere di verificare da dove vengono e come sono stati elaborati i dati di partenza. È una competenza nuova rispetto al passato, ma acquisirla consente di essere più creativi e, nello stesso tempo, più autorevoli e incisivi».

Alessandro Zaccuri

© Avvenire, martedì 10 aprile 2018

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