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Non ci sono più profeti in mezzo a noi

La vita consacrata può aiutare la chiesa rimettendosi in cammino, uscendo dal torpore e dalla paura, mettendo l’accento sulla fraternità, vivendo la vita fraterna come famiglia e in relazione con il mondo, abilitando alla vita dialogica, restituendo freschezza al linguaggio, ridando la parola alle donne, riconsiderando i criteri di valutazione della vocazione e i riferimenti formativi, prestando attenzione all’umano, educando all’inclusività ministeriale, riconoscendo che i battezzati sono tutti santificati dallo Spirito e che tutti condividono la missione “fino agli estremi confini della terra” (At. 1,8)

La celebrazione della XXVI Giornata Mondiale della Vita Consacrata, nel contesto della memoria liturgica della Presentazione di Gesù al Tempio (2 febbraio), non è un vuoto esercizio retorico annuale dei consacri. Infatti, mentre come Chiesa ri-apprendiamo a camminare in maniera sinodale, lasciandoci trasformare dall’ascolto orante della Parola e dal popolo che la anima, comprendiamo che non basta riempire le nostre cattedrali per un giorno e poi chiuderci in casa, decantare la bellezza della vita fraterna in comunità e poi scordarci che non si può vivere da soli. Occorre dare forma di famiglia alla vita consacrata oggi, c’è bisogno di gioia nell’esperienza della compagnia di fratelli, generosità nell’agire quotidiano, profezia ai nostri sogni e a quelli di Dio.

La vita consacrata, ricordiamolo, non sopporta la “bonaccia” e il viaggiare sotto costa, ama prendere il largo e rischiare il mare agitato (Mc. 435-40), mettendo in disordine ciò che appare ordinatamente previsto, senza alcuna pretesa di accumulare sicurezze ma certezze (Davide Maria Turoldo), sapendo coltivare i dubbi, camminando a piedi scalzi sulle strade del mondo. Era questa l’immagine tipica del monachesimo antico e della vita religiosa del medio-evo, ma anche della spinta missionaria del XIX secolo e delle sperimentazioni del XX secolo.

Oggi, forse, non c’è più tanta voglia di uscire e di camminare insieme! Per questa ragione, nell’immaginario di molti, la vita consacrata è in crisi perché mancano le vocazioni ma, soprattutto, perché è seduta, normalizzata dalla stessa istituzione ecclesiastica che avrebbe dovuto spingerla verso le periferie della storia, dell’umano, della stessa ortodossia, in quanto è nella sua stessa natura non vivere con meno dell’Infinito e addentrarsi in territori inesplorati.

Essere normalizzati vuol dire che non ci sono più profeti in mezzo a noi, che siamo facilmente gestibili perché allineati, clericalizzati, conformati. Questa condizione, ci ha ricordato la pandemia, si chiama disagio di vivere ed è una malattia che fiacca la vocazione-missione. Si, siamo malati, non solo di covid ma nel nostro stile di vita, che è tossico; sono malate le nostre comunità, non meno della madre terra; sono malati i nostri Istituti, come la Chiesa, e non troviamo vie di uscita al modello troppo umano di esercizio di autorità, di mondanità spirituale che ne bloccano il respiro e ne paralizzano il movimento.

A questa pandemia ecclesiale, che pone la questione del disorientamento pastorale e del disagio dell’autorità e del potere, si ricollega un’altra patologia ed è “la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali di potere e di coscienza commessi da un numero di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti” (Papa Francesco, Lettera al popolo di Dio, agosto 2018). Il Papa parla di un grido che ha forato il cielo e toccato l’anima, che non è stato possibile contenerlo o metterlo a tacere; un urlo silente e doloroso che il Signore ha ascoltato facendoci vedere da che parte vuole stare e da che parte vuole che stiamo: “Non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare… Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli”.

La risposta che la Chiesa è chiamata a dare a questo dramma sta nel rinnovamento ecclesiale e nella sua declinazione che chiamiamo sinodalità, vera grammatica, non moda, di una riforma che combatte la corruzione spirituale, cecità diffusa dove tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità. E’ qui il nodo del clericalismo, dice Papa Francesco, che genera “una scissione nel corpo ecclesiale… Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo”.  Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria, chiama la Chiesa ad essere la Chiesa della penitenza e del digiuno, perché solo una chiesa orante e penitente può chiedere perdono per la devastazione dell’umano. Il problema, quindi, non è etico, ma spirituale. Bisogna ri-generare una Chiesa povera e dei poveri per sanare le ferite dei piccoli, per portare nella vita il dolore di tanti. Se la Chiesa sarà capace di questo cammino evangelico potrà intraprendere la via del perdono.

Non ci sono cure palliative e non bastano le esortazioni, alla questione del potere e dell’autorità -nella Chiesa ma nella società- occorre una terapia d’urto che, nella forma ecclesiale, è la sinodalità. Questa è procedura giuridica di partecipazione all’autorità, passaggio dalla collegialità affettiva a quella effettiva, stile attraverso il quale la Chiesa assume decisioni, opera discernimenti, promuove la rinascita, agisce e perdona. Non bisogna avere paura di questo perché, come ricorda la Lumen gentium, a nulla servirebbe una Chiesa del silenzio. “I pastori, aiutati dall’esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità (distinctius et aptius) sia in cose spirituali che temporali e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo” (LG, 37).

La vita consacrata può aiutare la chiesa rimettendosi in cammino, uscendo dal torpore e dalla paura, mettendo l’accento sulla fraternità, vivendo la vita fraterna come famiglia e in relazione con il mondo, abilitando alla vita dialogica, restituendo freschezza al linguaggio, ridando la parola alle donne, riconsiderando i criteri di valutazione della vocazione e i riferimenti formativi, prestando attenzione all’umano, educando all’inclusività ministeriale, riconoscendo che i battezzati sono tutti santificati dallo Spirito e che tutti condividono la missione “fino agli estremi confini della terra” (At. 1,8).

La vita consacrata può testimoniare che la sinodalità di una comunità credente non è frutto di un’organizzazione, ma l’assunzione di una guida, Gesù, e di uno scopo, l’annuncio del Regno. La sequela Christi, infatti, è fatta di stile sinodale: «In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne…» (8,1-3). Gesù cammina, è lui a stabilire la strada e, soprattutto, a definire lo scopo: l’annuncio della buona notizia del regno di Dio. In questo cammino missionario “c’erano con Lui”: questa è la comunità ecclesiale, discepoli, uomini e donne, che condividono il suo cammino, che lo accompagnano, che sono “con Lui”.

La vita consacrata può cominciare a seminare la divina “pazzia” di Gesù (Mc. 3,20-21), come fece Francesco d’Assisi quando, leggendo il vangelo “senza note né commenti”, si sposò con la povertà evangelica; come fece Giovanni della Croce quando testimoniò l’impossibilità a ridurre nei limiti del ragionevole la fiamma viva dello Spirito, lo scandalo della croce.

Non saremo noi, forse, la generazione che vivrà la vita ecclesiale in stile sinodale; c’è una cultura da creare, ma se avremo la pazienza di farlo consegneremo ai nostri figli una Chiesa trasformata dalla Parola e dal popolo, sale della terra e luce del mondo (Mt. 5,13-14).

© Avvenire, mercoledì 2 febbraio 2022

Luigi Gaetani, Carmelitano Scalzo

Provinciale e Presidente CISM