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Papa Francesco. Dall'Egitto riparta la speranza di pace in Medio Oriente

All'udienza generale il Papa ha ripercorso le tappe del suo recente viaggio apostolico in Egitto. E ha ricordato il motto: «Un Papa di pace in un Egitto di pace»

Il recente viaggio apostolico del Papa in Egitto è stato al centro dell’udienza generale di questa mattina in piazza San Pietro. Un resoconto che rientra nel ciclo di catechesi dedicato alla speranza cristiana in quanto, ha osservato Francesco, “l’Egitto è per noi segno di speranza”: lo è stato per i figli di Giacobbe che fuggivano dalla fame, lo è stato per la Santa Famiglia di Nazareth che fuggiva da Erode e lo è oggi per tutti noi che speriamo nella pace in quella travagliata regione del Medio Oriente.

La catechesi di Francesco ha preso spunto dal brano del Vangelo secondo Matteo sulla fuga della Sacra Famiglia in Egitto: «Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto"… Perché si compisse quello che era stato detto dal profeta: "Dall’Egitto ho chiamato mio Figlio"».

«Il Papa della pace in un Egitto di pace»

«Oggi desidero parlarvi del viaggio apostolico in Egitto» ha esordito Francesco. «Mi sono recato in quel Paese in seguito a un quadruplice invito»: quello del presidente della Repubblica, del patriarca copto-ortodosso, del grande Imam dell'università al-Azhar e del patriarca copto-cattolico. Il pontefice ha ricordato di avere ricevuto un'accoglienza «veramente calorosa» e ha ringraziato le autorità civili e religiose e «l'intero popolo egiziano». Il presidente e le autorità, ha osservato, hanno posto un impegno straordinario perché quell'evento «potesse essere un segno di pace per l’Egitto e per tutta quella regione». «Il motto del viaggio - ha ricordato - era: "Il Papa della pace in un Egitto di pace"».

A fondamento della pace c'è l'alleanza

Francesco ha quindi ripercorso le tappe dei suoi due giorni al Cairo, il 28 e il 29 aprile. La visita all'università sunnita di al-Azhar, ha ricordato, «ha avuto un doppio orizzonte: quello del dialogo tra cristiani e musulmani e quello della promozione della pace nel mondo». Il Papa ha citato l'incontro con il grande Imam e l'intervento alla conferenza internazionale per la pace, ad al-Azhar: «Ho offerto una riflessione che ha valorizzato la storia dell’Egitto come terra di civilità e di alleanze». L'Egitto, «sinonimo di antica civiltà per tutto il mondo», ci ricorda che la pace si costruisce attraverso la sapienza e «ripartendo dall’alleanza tra Dio e l'uomo, fondamento dell’alleanza tra tutti gli uomini», basata sui Dieci comandamenti che si riassumono «nei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo». «Questo medesimo fondamento - ha ricordato Francesco - sta anche alla base della costruzione dell’ordine sociale e civile cui sono chiamati a collaborare tutti i cittadini», di ogni cultura e religione. Dall'incontro con le autorità, ha ricordato, è emersa «una visione di sana laicità».

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I cristiani siano «lievito di fraternità»

All’Egitto spetta «un compito peculiare» nel cammino verso «una pace stabile e duratura che poggi non sul diritto della forza ma sulla forza del diritto». I cristiani in Egitto, come ovunque, sono chiamati a essere «lievito di fraternità e questo è possibile se vivono in se stessi la comunione in Cristo». Un segno di comunione, ha ricordato il Papa, «abbiamo potuto darlo con il mio caro fratello Tawadros II, papa dei copto-ortodossi». «Insieme abbiamo pregato per i martiri dei recenti attentati che hanno colpito tragicamente quella venerabile Chiesa». Francesco ha inoltre citato Bartolomeo, il patriarca ecumenico «mio caro fratello».

La Messa celebrata al Cairo è stata una «festa di fede e di fraternità». L’ultimo momento del viaggio il Papa l’ha vissuto insieme con sacerdoti, religiosi e seminaristi. «Ci sono tanti seminaristi, questa è una consolazione» ha aggiunto a braccio. «In questa comunità di uomini e donne che hanno scelto di donare la vita a Cristo ho visto la bellezza della Chiesa in Egitto e ho pregato per tutti i cristiani nel Medio Oriente» perché siano «sale e luce in quelle terre, in mezzo a quei popoli».

L'Egitto segno di speranza

«L’Egitto per noi è stato segno di speranza, di rifugio, di aiuto» ha aggiunto Francesco a braccio. «Quando quella parte del mondo era affamata, Giacobbe con i suoi figli se n’è andato là, poi quando Gesù è stato perseguitato è andato là. Per questo raccontarvi di questo viaggio entra nella strada di parlarvi di speranza. Per noi l’Egitto ha questo segno di speranza, sia per la storia sia per l’oggi, per questa fraternità che vi ho raccontato». Il Papa ha concluso con la benedizione: «La Santa Famiglia di Nazareth benedica e protegga sempre il popolo egiziano e lo guidi sulla via della prosperità, della fraternità e della pace».

Al momento dei saluti Francesco ha nuovamente rivolto un ringraziamento a quanti lo hanno accolto in Egitto, rendendo possibile il suo viaggio. In piazza San Pietro erano presenti, come spesso avviene, anche fedeli di lingua araba.

Anna Maria Brogi

© Avvenire, mercoledì 3 maggio 2017

 

Il viaggio in Egitto del Papa. I musulmani hanno visto il coraggio più grande

 

Il viaggio in Egitto del Papa e l’abbraccio ad al-Azhar «Prima d’oggi rinnegavo il mio amico / se la sua religione non s’accordava alla mia / Ora, il mio cuore accetta ogni forma / è pascolo per le gazzelle, convento per i monaci / tempio per gli idoli, Ka`ba per il pellegrino / tavole della Torà e libro del Corano / Io seguo la religione dell’amore ovunque mi conducano i suoi cammelli / L’amore è la mia religione e la mia fede». Sebbene la realtà dei musulmani, oggi, abbondi di violenza che sgorga da cuori privi di amore e di fede, non esiste città islamica in cui essi non fremano dalla commozione al ritmo di questi versi del sommo maestro Ibn Arabi (1164-1240).

Cantiamo all’amore come a un lontano ricordo, una desiderata speranza, una cosa preziosa ereditata e poi smarrita. Mentre Ibn Arabi scriveva questi versi in Andalusia, in Egitto un giovane frate, di ritorno dall’accampamento nemico, affondava i piedi nel limo lasciato dalla piena del Nilo, l’anima rapita dal ringraziamento a Dio: al contrario di quanto tutti si aspettavano, il sultano Kamil al-Malik non l’aveva sgozzato. L’aveva ascoltato, era stato generoso con lui, aveva promesso di non chiudere le porte alla testimonianza di fede nel suo regno. Il Sultano era stato colpito dal coraggio del frate che aveva messo a repentaglio la propria vita per la sua salvezza. E il Sultano era stato coraggioso, non per aver sconfitto e respinto i crociati, bensì per aver creduto che quel giovane uomo di Dio, giunto con l’esercito nemico, lo amasse davvero e fosse pronto al martirio per amor suo. Non c’è coraggio più grande del credere che qualcuno ci ami.

A questo coraggio Ibn Arabi dà il nome di fede. Prima della visita del Papa al Cairo, l’immagine più diffusa, in Egitto e in Italia, era quella del pontefice sovrastato da una colomba della pace con le ali spiegate e le piramidi sullo sfondo. Immagine che, dopo la visita papale, è stata sostituita da quella di san Francesco che abbraccia il Sultano e, sotto, la foto del Papa che abbraccia lo Sheykh di al-Azhar. L’intesa espressa da quell’abbraccio, l’accordo storico sul battesimo che avvia la fine della divisione fra la Chiesa cattolica e quella copta, la celebrazione della più grande messa nella storia dell’Egitto moderno – cui hanno partecipato cattolici e ortodossi e presenziato musulmani, trasmessa in diretta e seguita dall’intero mondo musulmano – ,così come l’invito degli intellettuali egiziani a studiare il discorso del Papa nelle scuole, sono tutti grandi risultati.

Tuttavia, non sono nulla di fronte al cambiamento di coscienza testimoniato dal passaggio dalla prima alla seconda immagine. I simboli astratti della prima immagine – l’abito papale, la colomba e le piramidi – si sono trasformati, nella seconda immagine, nell’abbraccio di due persone, espressione d’amore. Un amore che non occupa solo lo spazio dell’immagine, ma anche il tempo. La storia è divenuta presente, san Francesco e il Sultano sono tornati ad agire nella coscienza collettiva.

San Francesco che, al tempo delle crociate, nella sua Prima Regola, invitò alla convivenza con i musulmani e alla testimonianza del Vangelo attraverso una vita condivisa; e il Sultano che, nonostante la sua vittoria, rinunciò alla Terra Santa e aprì un corridoio per i pellegrini cristiani. L’eredità del loro incontro non è più perduta. Ce ne siamo riappropriati – come dice Goethe – dopo averla riguadagnata con questa visita. Oggi, l’amore per l’Altro che Ibn Arabi smise di rinnegare non è più soltanto canto, è divenuto esperienza vissuta, conoscenza che non può essere definita da simboli, ma solo dalla presenza con la quale il canto diventa preghiera. Che sia così.

Wael Farouq

© Avvenire, mercoledì 3 maggio 2017

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