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Politica, finale di partita

Gli uomini della Seconda Repubblica, dalla "discesa in campo" in poi, hanno mutuato il linguaggio dello stadio: ora si tratterà di ritornare al registro degno dei luoghi e dei ruoli.

rissaparlamento_2197346.jpgTutto cominciò con una "discesa in campo" e con un partito che si chiamava "Forza Italia".

L'ambito metaforico del pallone sbarcava nella politica, correva l'anno 1994. È finita con un dito medio alzato e un gesto dell'ombrello, a scanso di equivoci, nel rispetto della par condicio. 

Si è chiuso (si spera) così miseramente, con un seguito di caroselli e striscioni, il registro linguistico della cosiddetta Seconda Repubblica tenuta a battesimo nel prato di San Siro e presto adeguatasi tutta quanta alla trivialità da curva, che la politica ha allegramente adottato, non solo nel lessico, nelle parole scelte, ma anche nel tenore del dibattito. 

Rotta la diga dello stile e della buona creanza, all'insegna di una nuova classe politica più vicina alla gente, un'ondata di volgarità da terzo anello ha travolto negli ultimi 17 anni l'emiciclo del Transatlantico. Si è sdoganato l'insulto, il gesto scurrile ha preso diritto di cittadinanza nella cronaca politica. Ma soprattutto, l'avversario è diventato tale nel senso pallonaro del termine: tifosi d'opposte curve non dibattono e non si confrontano, si azzuffano verbalmente senza argomentare al grido di “devi morire”.

Nel gergo ultrà non sono ammesse  sfumature segno dell’articolazione del pensiero, solo colori contrapposti e piatti, in cui i nostri hanno sempre ragione e i loro sempre torto, a prescindere da quello che dicono e fanno. Loro e nostri ovviamente sono intercambiabili, dipende dal punto di vista. 

E, come in ogni stadio che si rispetti, ma sarebbe meglio di no, l'arbitro ha sempre torto quando dà ragione ai loro e sempre ragione quando dà ragione ai nostri. E lo si insulta a prescindere dalla correttezza delle sue decisioni, di più se inflessibile. Le regole del gioco in curva valgono solo per l'avversario. In questo senso il punto più basso di questa stagione linguistico-politica l'abbiamo raggiunto quando abbiamo udito insultare al grido di "cancro" e "metatasi" i magistrati, gli arbitri della Repubblica, senza tenere conto del fatto che con quei termini, che evocano la violenza dell'estirpazione, si mancava di rispetto prima di tutto alla lotta impari dei malati. 

Se è vero che si educa soprattutto con l'esempio, se questo vale non solo per i bambini ma anche per i cittadini, la Terza Repubblica avrà anche questo compito: restituire alle istituzioni un linguaggio più consono ai ruoli e ai luoghi, giusto un tornello mentale per separare l'emiciclo dalla curva.

 
Elisa Chiari
 
© Famiglia Cristiana, 13 novembre 2011