Arcivescovo

S.E. Giuseppe

Satriano

IN AGENDA

Querida Amazonia: ecologia, giustizia sociale e Vangelo

Lo sfruttamento è un “crimine”. No al “colonialismo”. Bisogna “indignarsi” per il “passato vergognoso”. Il nuovo volto sudamericano della Chiesa: maggior coinvolgimento dei laici, uomini e donne, ma nessun accenno ai "preti sposati": solo il sacerdote è “abilitato a presiedere l’Eucaristia”

Quattro sogni animano l’esortazione postsinodale di papa Francesco sull’Amazzonia.

«Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa», scrive Bergoglio nell’introduzione al testo che è molto più ricco del semplice dibattito sull’ordinazione dei viri probati..

«Sogno un’Amazzonia», continua, «che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana. Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste. Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici».

Quattro capitoli divisi in 111 numeri per dire come concretizzare il sogno sociale, di una «Amazzonia che integri e promuova tutti i suoi abitanti perché possano consolidare un “buon vivere”», quello culturale che faccia in modo che l’Amazzonia possa «trarre da sé il meglio» senza essere colonizzata e senza indebolire la sua identità, quello ecologico, che aiuta a «prendersi cura dei nostri fratelli e sorelle e dell’ambiente che ogni giorno Dio ci regala»; di quello ecclesiale che disegni «una Chiesa dal volto amazzonico»

Il sogno sociale

Secca condanna degli «interessi dei colonizzatori che hanno esteso ed estendono – legalmente e illegalmente – il taglio di legname e l’industria mineraria, e che sono andati scacciando e assediando i popoli indigeni, rivieraschi e di origine africana, provocano una protesta che grida al cielo».

Senza ripete, né annullare quanto già detto al Sinodo, Bergoglio riprende una delle voci dell’assise: «Siamo colpiti», avevano detto gli indigeni, «dai commercianti di legname, da allevatori e altre parti terze. Minacciati da attori economici che implementano un modello estraneo ai nostri territori. Le imprese del legno entrano nel territorio per sfruttare la foresta, noi abbiamo cura della foresta per i nostri figli, abbiamo carne, pesce, medicine vegetali, alberi da frutto […]. La costruzione di impianti idroelettrici e il progetto di vie d’acqua ha un impatto sul fiume e sui territori […]. Siamo una regione di territori derubati».

L’Esportazione denuncia lo sfruttamento degli indigeni costretti a emigrare verso le periferie delle città in seguito alla distruzione dell’ambiente naturale che permetteva loro di nutrirsi e vivere. Città dove incontrano xenofobia, schiavitù, miseria, sfruttamento sessuale.

Non ha paura, il papa di parlare di «ingiustizia e crimine» a proposito delle grandi aziende nazionali e internazionali che si «appropriano dei terreni e arrivano a privatizzare persino l’acqua potabile» con la complicità anche delle autorità locali. «È abituale», si legge nell’esortazione, «ricorrere a mezzi estranei a ogni etica, come sanzionare le proteste e addirittura togliere la vita agli indigeni che si oppongono ai progetti, provocare intenzionalmente incendi nelle foreste, o corrompere politici e gli stessi indigeni. Ciò è accompagnato da gravi violazioni dei diritti umani e da nuove schiavitù che colpiscono specialmente le donne, dalla peste del narcotraffico che cerca di sottomettere gli indigeni, o dalla tratta di persone che approfitta di coloro che sono stati scacciati dal loro contesto culturale. Non possiamo permettere che la globalizzazione diventi «un nuovo tipo di colonialismo».

Occorre indignarsi e denunciare. Occorre chiedere perdono. Occorre promuovere un vero spirito di comunità, essere capaci di fraternità. «Il Vangelo», si legge al numero 22, «propone la carità divina che promana dal Cuore di Cristo e che genera una ricerca di giustizia che è inseparabilmente un canto di fraternità e di solidarietà, uno stimolo per la cultura dell’incontro. La saggezza dello stile di vita dei popoli originari – pur con tutti i limiti che possa avere – ci stimola ad approfondire questa aspirazione. Per tale ragione i Vescovi dell’Ecuador hanno sollecitato “un nuovo sistema sociale e culturale che privilegi le relazioni fraterne, in un quadro di riconoscimento e di stima delle diverse culture e degli ecosistemi, capace di opporsi ad ogni forma di discriminazione e di dominazione tra esseri umani”».

E, mentre chiede di assumere lo sguardo dell’ecologia integrale indicato dalla Laudato si’ e di interrogarsi sullo stato delle istituzioni, non manca di fare un mea culpa. «Non possiamo escludere», scrive al numero 25, «che membri della Chiesa siano stati parte della rete di corruzione, a volte fino al punto di accettare di mantenere il silenzio in cambio di aiuti economici per le opere ecclesiali. Proprio per questo sono arrivate proposte al Sinodo che invitano a “prestare particolare attenzione all’origine delle donazioni o di altri tipi di benefici, così come agli investimenti fatti dalle istituzioni ecclesiastiche o dai cristiani”».

Per coltivare il sogno, conclude il primo capitolo, c’è bisogno di un dialogo a tutti i livelli, soprattutto di un dialogo sociale tra i diversi popoli originari per trovare strade di comunicazione e lotta congiunta. C’è bisogno di ascoltare gli ultimi, anzi di considerarli protagonisti, «altrimenti il risultato sarà, come sempre, “un progetto di pochi indirizzato a pochi”, quando non “un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice”. Se questo accade, “è necessaria una voce profetica” e come cristiani siamo chiamati a farla sentire. Da qui nasce il sogno successivo».

Il sogno culturale

L’Amazzonia non è terra da colonizzare culturalmente. In essa vivono molti popoli e nazionalità e più di 110 popoli indigeni in stato di isolamento volontario. Bisogna evitare, invita l’esortazione, di «considerarli selvaggi non civilizzati» mentre invece sono popoli che «hanno dato vita a cultura diverse e ad altre forme di civiltà che anticamente hanno raggiunto un notevole sviluppo».

«I gruppi umani», sui legge al numero 32, «i loro stili di vita e le loro visioni del mondo, sono vari tanto quanto il territorio, avendo dovuto adattarsi alla geografia e alle sue risorse. Non sono la stessa cosa i popoli dediti alla pesca e quelli dediti alla caccia o all’agricoltura nell’entroterra, piuttosto che i popoli che coltivano le terre soggette a inondazioni. In Amazzonia incontriamo inoltre migliaia di comunità indigene, afro-discendenti, rivierasche e abitanti città, che a loro volta sono molto diverse tra loro e ospitano una grande diversità umana. Attraverso un territorio e le sue caratteristiche Dio si manifesta, riflette qualcosa della sua inesauribile bellezza. Pertanto, i diversi gruppi, in una sintesi vitale con l’ambiente circostante, sviluppano una forma peculiare di saggezza. Quanti osserviamo dall’esterno dovremmo evitare generalizzazioni ingiuste, discorsi semplicistici o conclusioni tratte solo a partire dalle nostre strutture mentali ed esperienze».

Vanno custodite allora le radici per evitare che si diffonda «la visione consumistica dell’essere umano», va favorito l’incontro interculturale che approfondisce e arricchisce l’identità di ciascuno, vanno custoditi i legami familiari che rischiano di frantumarsi con le migrazioni forzate e «l’invasione colonizzatrice dei mezzi di comunicazione di massa».

Infine, al numero 40, si chiede chiaramente che si assuma, in qualsiasi progetto per l’Amazzonia, «la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale […] richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura. Neppure la nozione di qualità della vita si può imporre, ma dev’essere compresa all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano». Inoltre bisogna ricordare che, se le «culture ancestrali dei popoli originari sono nate e si sono sviluppate in intimo contatto con l’ambiente naturale circostante, difficilmente potranno conservarsi indenni quando tale ambiente si deteriora. Con ciò si fa strada il sogno successivo».

Il sogno ecologico

Preservare l’uomo e la natura, avere cura delle persone e dell’ecosistema. Sono aspetti inseparabili, perché tutto è connesso. E quello ecologico è un sogno fatto soprattutto di acqua, di quella del grande Rio delle Amazzoni, ma anche di quella dei fiumi e dei ruscelli. È l’acqua del Rio la colonna vertebrale dell’Amazzonia. Fa ricorso alla poesia, l’esortazione, per mettere in guardia, per ricordare che «quelli che credevano che il fiume fosse una corda per giocare si sbagliavano.

Il fiume è una vena sottile sulla faccia della terra. […]

Il fiume è una fune a cui si aggrappano animali e alberi.

Se tirano troppo forte, il fiume potrebbe esplodere.

Potrebbe esplodere e lavarci la faccia con l’acqua e con il sangue».

L’equilibrio planetario dipende dalla salute dell’Amazzonia. Dalle sue acque, dalle sue foreste, dalle specie che vi abitano, dalle alghe, dagli insetti…

Per questo occorre vigilare con attenzione. «I più potenti», denuncia il numero 52, «non si accontentano mai dei profitti che ottengono, e le risorse del potere economico si accrescono di molto con lo sviluppo scientifico e tecnologico. Per questo dovremmo tutti insistere sull’urgenza di “creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecnoeconomico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia”. Se la chiamata di Dio esige un ascolto attento del grido dei poveri e, nello stesso tempo, della terra, per noi «il grido che l’Amazzonia eleva al Creatore è simile al grido del Popolo di Dio in Egitto. È un grido di schiavitù e di abbandono, che invoca la libertà».

Imparando dai popoli indigeni, è l’indicazione di Francesco, possiamo non solo analizzare l’Amazzonia, ma contemplarla, risvegliando il senso estetico e contemplativo che «Dio ha posto in noi e che a volte lasciamo che si atrofizzi». Senza questa contemplazione del bello è facile che ogni cosa possa trasformarsi «in oggetto di uso e abuso senza scrupoli».

Contemplazione, educazione, cambio di stile di vita. Non ci sarà ecologia sostenibile se non si adotta un comportamento «meno vorace, più sereno, più rispettoso, meno ansioso, più fraterno».

La Chiesa, conclude il paragrafo 60, «con la sua lunga esperienza spirituale, con la sua rinnovata consapevolezza circa il valore del creato, con la sua preoccupazione per la giustizia, con la sua scelta per gli ultimi, con la sua tradizione educativa e con la sua storia di incarnazione in culture tanto diverse del mondo intero, desidera a sua volta offrire il proprio contributo alla cura e alla crescita dell’Amazzonia. Con ciò prende avvio un ulteriore sogno, che intendo condividere più direttamente con i pastori e i fedeli cattolici».

Il sogno ecclesiale

Il capitolo forse più ricco. Perché, dopo le analisi, le denunce e l’ascolto si indicano chiaramente i cammini della Chiesa «dal volto amazzonico». Una Chiesa che cammina assieme ai popoli che in Amazzonia vivono, che cresce nella cultura dell’incontro, che «non rinuncia alla proposta di fede che abbiamo ricevuto dal Vangelo. Pur volendo impegnarci con tutti», si dice chiaramente, «non ci vergogniamo di Gesù Cristo».

Anche perché, «l’autentica scelta per i più poveri e dimenticati, mentre ci spinge a liberarli dalla miseria materiale e a difendere i loro diritti, implica che proponiamo ad essi l’amicizia con il Signore che li promuove e dà loro dignità. Sarebbe triste che ricevessero da noi un codice di dottrine o un imperativo morale, ma non il grande annuncio salvifico, quel grido missionario che punta al cuore e dà senso a tutto il resto. Né possiamo accontentarci di un messaggio sociale. Se diamo la nostra vita per loro, per la giustizia e la dignità che meritano, non possiamo nascondere ad essi che lo facciamo perché riconosciamo Cristo in loro e perché scopriamo l’immensa dignità concessa loro da Dio Padre che li ama infinitamente».

L’’esortazione parla del «diritto all’annuncio del Vangelo» che hano i popoli indigeni, di una Chiesa che deve inculturarsi ascoltando la saggezza ancestrale presente dell’Amazzonia, promuovendo quel «buon vivere» nel quale i popoli indigeni esprimono la loro armonia personale, familiare, comunitaria e cosmica. «I popoli indigeni potrebbe aiutarci a scoprire cos’è una felice sobrietà» perché «sanno essere felici con poco, godono dei piccoli doni di Dio senza accumulare tante cose, non distruggono senza necessità, custodiscono gli ecosistemi».

Ma se questa inculturazione deve avere un forte timbro sociale «ed essere caratterizzata da una ferma difesa dei diritti umani», le comunità cristiane devono anche impegnarsi in una formazione adeguata alla luce degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. Non solo, occorre integrare la dimensione sociale e quella spirituale così che «i più poveri non abbiano bisogno di andare a cercare fuori dalla Chiesa una spiritualità che risponda al desiderio della loro dimensione trascendente. Pertanto, non si tratta di una religiosità alienante e individualista che mette a tacere le esigenze sociali di una vita più dignitosa, ma nemmeno si tratta di tagliare la dimensione trascendente e spirituale come se all’essere umano bastasse lo sviluppo materiale».

Il testo affronta anche il tema della mancanza di sacerdoti e della centralità dell’Eucaristia chiedendo agli episcopati, soprattutto latinoamericani, di inviare sacerdoti in Amazzonia.

«L’inculturazione», si legge al numero 85, «deve anche svilupparsi e riflettersi in un modo incarnato di attuare l’organizzazione ecclesiale e la ministerialità. Se si incultura la spiritualità, se si incultura la santità, se si incultura il Vangelo stesso, come fare a meno di pensare a una inculturazione del modo in cui si strutturano e si vivono i ministeri ecclesiali? La pastorale della Chiesa ha in Amazzonia una presenza precaria, dovuta in parte all’immensa estensione territoriale con molti luoghi di difficile accesso, alla grande diversità culturale, ai gravi problemi sociali, come pure alla scelta di alcuni popoli di isolarsi. Questo non può lasciarci indifferenti ed esige dalla Chiesa una risposta specifica e coraggiosa».

Niente viri probati, ma nuova vitalità ai ministeri che siano «a servizio di una maggiore frequenza della celebrazione dell’Eucaristia».

«Nelle circostanze specifiche dell’Amazzonia», prosegue il numero 89, «specialmente nelle sue foreste e luoghi più remoti, occorre trovare un modo per assicurare il ministero sacerdotale. I laici potranno annunciare la Parola, insegnare, organizzare le loro comunità, celebrare alcuni Sacramenti, cercare varie espressioni per la pietà popolare e sviluppare i molteplici doni che lo Spirito riversa su di loro. Ma hanno bisogno della celebrazione dell’Eucaristia, perché essa «fa la Chiesa»[130], e arriviamo a dire che «non è possibile che si formi una comunità cristiana se non assumendo come radice e come cardine la celebrazione della sacra Eucaristia».[131] Se crediamo veramente che è così, è urgente fare in modo che i popoli amazzonici non siano privati del Cibo di nuova vita e del Sacramento del perdono».

E anoca, al 90: «Questa pressante necessità mi porta ad esortare tutti i Vescovi, in particolare quelli

dell’America Latina, non solo a promuovere la preghiera per le vocazioni sacerdotali, ma anche a essere più generosi, orientando coloro che mostrano una vocazione missionaria affinché scelgano

l’Amazzonia. Nello stesso tempo, è opportuno rivedere a fondo la struttura e il contenuto sia della formazione iniziale sia della formazione permanente dei presbiteri, in modo che acquisiscano gli atteggiamenti e le capacità necessari per dialogare con le culture amazzoniche. Questa formazione dev’essere eminentemente pastorale e favorire la crescita della misericordia sacerdotale».

Spazio ai laici e alle donne, alla valorizzazione delle persone consacrate, alle comunità di base e alla Repam, la rete panamazzonica, e alle altre associazioni che hanno l’obiettivo di consolidare quanto emerso nella conferenza di Aparecida. Invito a trovare spazi di dialogo ecumenico e interreligioso. Tutti uniti per la «pace e la giustizia».

«Come non lottare insieme?», conclude il documento prima della preghiera finale alla Madre dell’Amazzonia, «Come non pregare insieme e lavorare fianco a fianco per difendere i poveri dell’Amazzonia, per mostrare il volto santo del Signore e prenderci cura della sua opera creatrice?».

La Madre dell'Amazzonia

Madre della vita,
nel tuo seno materno si è formato Gesù,
che è il Signore di tutto quanto esiste.
Risorto, Lui ti ha trasformato con la sua luce
e ti ha fatta regina di tutto il creato.
Per questo ti chiediamo, o Maria,
di regnare nel cuore palpitante dell’Amazzonia.
Mostrati come madre di tutte le creature,
nella bellezza dei fiori, dei fiumi,
del grande fiume che l’attraversa
e di tutto ciò che freme nelle sue foreste.
Proteggi col tuo affetto questa esplosione di bellezza.
Chiedi a Gesù che effonda tutto il suo amore
sugli uomini e sulle donne che vi abitano,
perché sappiano ammirarla e custodirla.
Fa’ che il tuo Figlio nasca nei loro cuori,
perché risplenda nell’Amazzonia,
nei suoi popoli e nelle sue culture,
con la luce della sua Parola, col conforto del suo amore,
col suo messaggio di fraternità e di giustizia.
Che in ogni Eucaristia
si elevi anche tanta meraviglia
per la gloria del Padre.
Madre, guarda i poveri dell’Amazzonia,
perché la loro casa viene distrutta
per interessi meschini.
Quanto dolore e quanta miseria,
quanto abbandono e quanta prepotenza
in questa terra benedetta,
traboccante di vita!

Annachiara Valle

© www.famigliacristiana.it, mercoledì 12 febbraio 2020

SCARICA L'ESORTAZIONE APOSTOLICA