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Rifugiati, il card. Bassetti: «Basta con la cultura della paura»

«Avete fatto sacrifici immensi per raggiungere l’Europa e forse questi sacrifici sono dovuti in parte anche alle nostre paure. Paure che tengono lontano l’altro, che fanno diventare diffidenti, che generano scarti. Quante vittime delle nostre paure». Il presidente della Cei ha incontrato numerosi richiedenti asilo nella chiesa del Gesù e al Centro Astalli di Roma. Parole e gesti che raccontano la vicinanza e l'impegno della Chiesa italiana

«Vi porto l’affetto e la solidarietà di tutti i vescovi italiani»: è questo il messaggio forse più forte venuto dall’incontro del Presidente della Cei con i rifugiati e i richiedenti asilo del Centro Astalli, a Roma, giovedì 25 gennaio. Da Lampedusa ad Aosta, da Nuoro a Pescara la Chiesa italiana sceglie di stare con chi chiede fugge da guerre e persecuzioni e chiede accoglienza nel nostro Paese. L'incontro ha sugellato le parole pronunciate dallo stesso Bassetti nella sua  prolusione al Consiglio permanente della Cei dei giorni scorsi: «Bisogna reagire a una ‘cultura della paura’ che, seppur in taluni casi comprensibile, non può mai tramutarsi in xenofobia o addirittura evocare discorsi sulla razza che pensavamo fossero sepolti definitivamente. Non è chiudendo che si migliora la situazione del Paese».

L’incontro nella chiesa del Gesù è stato preceduto da una visita privata, più raccolta, ai locali del Centro in via degli Astalli: accompagnato da padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro e da padre Alessandro Manaresi vicepresidente, Gualtiero Bassetti si è soffermato a chiacchierare con i giovani in fila per la mensa, ha percorso il corridoio dove stavano sfilando i vassoi con lenticchie, pasta al sugo e pollo; ha visitato le cucine, l’ambulatorio, la cappellina dedicata alla fuga in Egitto. Ha preso un tè con una piccola rappresentanza del mondo che scappa: Jawad e la moglie Nazifa, con il piccolo Mobin dall’Afghanistan. Boris e Oxana dall’Ucraina. Melanny dal Venezuela,  e poi Congo, Cina, Nigeria,  Senegal, Iran, Somalia…I genitori di Isabella e Marco Andres sono fuggiti dal Salvador: quando il pizzo che la criminalità chiedeva sui guadagni della loro industria di  famiglia  è diventato insostenibile hanno tentato di reagire. A farne le spese è stato il ragazzino. “Scappati in parrocchia, poi siamo stati costretti e iniziare una nuova vita in un altro paese”, racconta Christian. Da un anno sono in Italia, accolti nel centro per famiglie di Astalli  intitolato a padre Pedro Arrupe. A breve dovrebbero avere il riconoscimento di rifugiati.

“Oggi non possiamo risolvere problemi immensi, ma possiamo porre dei segni esemplari. Gesù non sanò tutti i malati, ma quelli guariti erano un segno”, ha detto il cardinale incontrando gli operatori che rappresentano i diversi servizi di primo e secondo livello della rete del Centro Astalli, che, legata al Jrs (servizio internazionale dei gesuiti per i rifugiati) ha una rete di sette centri in tutt’Italia. E un segno vuole essere anche l’incontro di riflessione e di spiritualità per la pace nel Mediterraneo che il cardinale vuole realizzare coinvolgendo i vescovi cattolici di rito latino e orientale dei Paesi che si affacciano sulle sponde del Mediterraneo. Bassetti lo ha lanciato al Consiglio Cei e ne ha parlato con gli amministratori – il presidente della Regione Nicola Zingaretti, Il presidente dell'Assemblea capitolina Marcello De Vito, l’ambasciatore d’Italia presso la santa sede Pietro Sebastiani, il sottosegretario al ministero dell'interno Domenico Manzione, il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick  -  che ha incontrato nei locali del Gesù per un breve saluto prima di entrare in chiesa. “La finalità dell’iniziativa è quella di far incontrare culture e popoli, stimolando anche l’Europa a sentire maggiormente la realtà del Mare Nostrum”. Da buon toscano Bassetti colloca idealmente l’incontro nel solco della visione profetica di Giorgio La Pira, che era solito definire il Mediterraneo come una sorta di «grande lago di Tiberiade», come il mare che accomuna la «triplice famiglia di Abramo».

Al Dio della pace e della misericordia si sono appellati gli uomini e le donne che, nella chiesa del Gesù, hanno pregato  in 20 diverse lingue - dall’arabo al wolof, dall’oromo al bambarà, dall’amarico al congolese e al curdo…- prima di concludere con la preghiera per il rifugiato scritta per l’occasione. Sull’altare padre Camillo Ripamonti ha introdotto i quattro rifugiati che si sono raccontati: “Sono storie fatte di tanti incontri, di tante relazioni nel bene e nel male, di tanti gesti e azioni che cercano di ricucire e pacificare il nostro vivere insieme ma anche di tante inadempienze, ritardi, mancanze personali e istituzionali che interrogano profondamente su chi vogliamo essere e dove stiamo andando”. Ha citato la Prolusione di Bassetti  e ha spiegato che quelle storie hanno dato un volto ai quattro verbi - accogliere, difendere, promuovere e integrare-   fondati sui principi della dottrina sociale della Chiesa.

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E così la parola è passata a Soumalia, 29 anni, laureato in giurisprudenza, scappato dalla persecuzione in Mali. “L’Europa mi ha accolto, nonostante le resistenze, le chiusure, i muri, nonostante avrebbe preferito non farlo. L’Europa accoglie ogni giorno me e tanti rifugiati che non si lasciano fermare. Perché a scappare dalla morte si impara in fretta e un muro, un filo spinato, il mare, anche se d’inverno, come è successo a me, non fermano, non fanno paura chi non ha più nulla da perdere.” Quindi è stata la volta di Osman, giovane somalo dall’accento romano, da dieci anni in Italia, che collabora con il progetto Finestre di Astalli. “Da quando sono rifugiato in Italia ho incontrato tantissimi ragazzi delle scuole superiori italiane. Ho raccontato tante volte la mia storia davanti a facce prima diffidenti, distanti, poi curiose, sbalordite e alla fine conquistate. Numeri, statistiche, razzismo e xenofobia ho capito presto che si combattono e si vincono solo con l’incontro, la conoscenza”.  Per Osman declinare la parola protezione vuol dire sia “raccontare ai ragazzi della Somalia, di me, della mia storia, di mia madre che è rimasta lì”, ma anche capire che oggi tocca a lui “ancora vivo, in salvo, lontano dalla guerra dover proteggere chi è rimasto in Somalia, proteggere e mantenere viva la memoria di tanti fratelli che sono morti in Somalia, nel deserto del Sahara, nel mare”.

Soheila, rifugiata dall’Iran, ha parlato per le donne rifugiate: “Noi donne rifugiate non vogliamo portare rancore, guardiamo avanti, realizziamo il futuro perché siamo generatrici di speranza. In Italia ho imparato una parola bellissima: resilienza. Non a caso è una parola femminile. Non solo resistiamo al dolore ma noi al dolore mettiamo le ali e lo trasformiamo in futuro”. Infine Jawad, dell’etnia hazara, afghano, ha raccontato la sua travagliata fuga dal paese a 13 anni e poi l’arrivo in italia, il matrimonio con Nazifa, anche lei anche lei afgana, che aveva ottenuto anni prima una borsa di studio in ingegneria chimica. Cinque anni fa è nato Mobin. Da quando c’è lui “l’integrazione in Italia ha un significato nuovo: la sua lingua madre, l’italiano è per noi integrazione e la scuola che frequenta il primo luogo in cui la vediamo realizzata. Sognare di vederlo crescere qua è integrazione. Impegnarsi perché un giorno sia cittadino italiano. L’integrazione per me è essere uomo di pace ogni giorno. Uomo del dialogo con tutti. Uomo che studia e ama la cultura perché, come ripeteva mio padre, solo chi studia può cambiare il mondo”.

“Questi non sono racconti, ma brandelli di carne viva”, ha detto dopo l’ascolto delle storie Bassetti. I tanti sacrifici il dolore subito, dice il cardinale, “sono spesso dovuti alle nostre paure, che generano scarti, come dice papa Francesco”.  “Vedervi tutti insieme - profughi, volontari, gesuiti - e sentire i vostri racconti  mi fa venire in mente il miracolo della Pentecoste. Erano insieme popoli di Cappadocia, Egitto, Mesopotamia, di Roma. Popoli di lingue e di etnie diverse. E si verificò un miracolo: lo spirito di Dio discese e cominciarono a parlare tutti la stessa lingua. Era la lingua dell'amore, e non c'è creatura che non la capisca».

Vittoria Prisciandaro

© www.famigliacristiana.it, venerdì 26 gennaio 2018

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