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Santo sì, santo no: per quanto ancora?

Il 24 marzo 1980 veniva assassinato sull'altare l'arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero. «Martire della fede» verrebbe da dire, ma la sua causa di beatificazione resta ferma

 

Monsenior-Romero.jpg«Il peccato degli uomini fa gemere la bellezza del creato. Per questo la Chiesa deve esclamare per ordine di Dio: Dio ha concepito la terra e tutto ciò che essa contiene perché siano usati dall'intero genere umano. Le ricchezze del creato devono giungere a tutti nella giusta forma, sotto l'egida della giustizia e accompagnate dalla carità. Ci rattrista e ci preoccupa vedere l'egoismo con cui si escogitano mezzi e disposizioni per negare il giusto salario ai raccoglitori. Quanto desidereremmo che la gioia di questa pioggia di rubini e di tutti i raccolti della terra non fosse oscurata dalla tragica sentenza della Bibbia: "Il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore!"».

Era il novembre 1976 quando l'arcivescovo di San Salvador scrive queste parole sul giornale diocesano, descrivendo la bellezza delle piante di caffè con le loro bacche rosse - "splendida pioggia di rubini, ricco dono dei nostri monti" - in contrasto con l'assoluta povertà degli abitanti di quelle stesse terre.

Pochi mesi dopo viene ucciso uno dei suoi collaboratori, e amico fraterno, il gesuita Rutilio Grande, 49 anni, figlio di campesinos della zona e parroco di Aguilares. Uno che diceva "essere cristiani in questo paese è praticamente illegale". "Temo che se Gesù volesse entrare oggi dalla frontiera del Chalatenango non lo lascerebbero passare. Lo tratterebbero da rivoltoso, da ebreo straniero, da portatore di teorie esotiche e bizzarre, contrarie alla democrazia, che vuol dire contrarie alla minoranza. Lo crocifiggerebbero di nuovo".

Di fronte a quella morte mons. Oscar Arnulfo Romero oltrepassa una frontiera, quasi un punto di non ritorno, come lo descrivono i suoi più stretti collaboratori: tre giorni di lutto, la chiusura delle scuole cattoliche, il disertare qualunque cerimonia ufficiale. E, mentre il governo scatena un'ondata di repressione - con migliaia di vittime, torture e stupri - è irreversibile la "conversione" dell'arcivescovo, determinato a tornare a Roma, dove aveva studiato ospite del Pio Collegio latinoamericano, ma dove intendeva questa volta, per salvare un'intera popolazione dallo sterminio, chiedere l'intervento del Vaticano. Che non venne mai.

Gli diedero solo dell'"imprudente" : è questo il termine con cui spesso vengono definiti, in ecclesialese, quanti si avventurano sopra le righe del "non vedo, non sento, non parlo", i binari della mediocrità e dell'egoismo di chi guarda solo all'interesse, e benessere, personale, ignorando quello del fratello che soffre. Imprudente era stato definito Max Josef Mezger, per bocca della Chiesa tedesca succube del nazismo, imprudente era Romero, cui né Paolo VI, né Giovanni Paolo II hanno mai accordato un appuntamento, solo fugaci incontri alle udienze generali.

A chi gli appiccica - come accaduto a Metzger - l'etichetta di marxista Romero risponde: "i preti non possono essere comunisti perché vivono nella speranza e il comunismo ha mutilato dell'al di là questa speranza". Ma questo non significa affatto che la Chiesa non stia, per definizione, dalla parte del popolo oppresso, anzi. "Voi siete l'immagine vivente del Crocifisso - dirà ai campesinos di Aguilares - sono venuto a voi per dirvi che siete voi il Cristo che soffre nella storia".

Continua il suo impegno affiancando i gesuiti (cacciati dal paese nel 1767 e rientrati solo nel 1914): "stiamo imparando dai gesuiti la lezione di una serena fermezza che può nascere soltanto da un amore appassionato per la verità e da un entusiastico spirito di servizio a Cristo e alla sua Chiesa". A Roma sono loro ad accoglierlo e padre Arrupe a sostenerlo.

"La storia del passato ha lezioni gravose per quella del presente - scrive Ettore Masina nel suo testo dello scorso anno "L'arcivescovo deve morire" - E il presente ci costringe a rileggerla sul versante negativo dell'umanità, là dove interi popoli non vengono considerati veramente creature di Dio. Negli anni insanguinati del Salvador lo Spirito scompiglia le pagine dei manuali".

Forte di quanto respirato alla Gregoriana, e in seguito, dai documenti del Concilio, scriverà nella sua lettera pastorale del '77, dopo la riflessione di Medellìn: "Mantenersi - per ignoranza o per egoismo - ancorati ad un tradizionalismo senza evoluzione significa perdere l'idea della vera tradizione cristiana; perché la tradizione che Cristo affidò alla sua Chiesa non è un museo di ricordi da conservare, viene sì dal passato e si deve amarla e conservarla con fedeltà, ma guardando sempre al futuro. La Chiesa è il corpo di Cristo nella storia. Cristo l'ha fondata per continuare ad essere presente nella storia del mondo. E' per questo che lungo i secoli la Chiesa deve cambiare per continuare la missione di Gesù in circostanze sempre nuove. Per questo il criterio che guida la Chiesa non è la compiacenza o il timore per gli uomini, per quanto potenti e terribili che essi siano".

"La Chiesa non può rinunciare a pronunciare un giudizio morale, anche se certi problemi hanno connessione con l'ordine politico, quando lo esigano i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime. La Chiesa in questi ultimi mesi e anni non ha fatto che compiere la sua missione. Proprio perché le interessa l bene di tutti e di tutto l'uomo, ha pronunciato la sua parola sulla situazione del Paese, perché ciò era esigito dalla difesa dei diritti umani".

Ma la "bestia assetata di sangue" non era ancora sazia e la sera del 24 marzo 1980 un colpo di pistola fermò all'istante il cuore di mons. Romero mentre celebrava sull'altare.

Santo per il suo popolo, non ancora per la Chiesa. La causa di beatificazione, a Roma ormai dal '97 e sollecitata più volte dall'episcopato latinoamericano, a ogni anniversario si riscopre sempre ferma.

Nel giugno dell'anno scorso James Martin, gesuita, si chiedeva perché la Chiesa sembri fare differenze tra i martiri. Perché non dovrebbero essere dichiarati santi quei gesuiti dell'università del Centro America, che insieme ai loro compagni, si rifiutarono di abbandonare i poveri cui prestavano il loro ministero e che sono stati uccisi nel 1989. E quattro donne di Chiesa, Dorothy Kazel (Ursuline Sisters of Cleveland), Maura Clarke e Ita Ford (Maryknoll Sisters), e Jean Donovan, assassinate a El Salvador per la loro difesa alla causa dei poveri il 2 dicembre 1980. E, più di recente, Dorothy Stang (Sisters of Notre Dame de Namur), che ha lavorato con i poveri senza terra in Brasile ed è stata assassinata nel 2005, mentre recitava le Beatitudini di fronte ai suoi assassini. E, sopra tutti, p. Martin poneva Oscar Romero "santo subito!", perché "un martire non ha certo bisogno di un miracolo per essere beatificato".

Chiamiamoli "martiri della fede" o "martiri della carità" - come è stato definito san Maximilian Kolbe nel 1982 - ma che siano santi anche loro.

Per Max Metzger ci sono voluti 62 anni per aprire la causa, ma solo con la caduta del muro si era potuto avere accesso ai documenti di Berlino, per Romero siamo solo a 32 anni dalla morte: forse troppo presto? Eppure esistono dei precedenti.

Padre Martin parla senza mezzi termini di un "indecente ritardo". E se lo dice lui, sociologo della religione, autore di un testo "My life with the saints", dichiarato nel 2006 in America, miglior libro dell'anno, forse potremmo rifletterci su anche noi. Perché tanti altri sì e Romero no?

Maria Teresa Pontara Pederiva

© www.vinonuovo.it, 23 marzo 2012

 

 

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