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Scenari digitali e nuove forme di presenza della Chiesa. Testimoni Digitali

Francesco Casetti,Direttore dipartimento Scienza della Comunicazione, Università Cattolica 22 aprile 2010.

 

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Vorrei ritornare su una immagine tradizionale, quella che associa i media all’agorà. L’immagine potrebbe sembrare un po’ logora, in un momento come quello che stiamo vivendo, in cui i media appaiono più come un campo di battaglia che come un punto di incontro. Tuttavia questa immagine trova una nuova linfa – e insieme un nuovo spessore problematico – con l’avvento del web 2.0 e con l’esplosione dei cosiddetti social network: dispositivi che consentono appunto alle persone di entrare in rapporto reciproco, di confrontarsi, di interagire. Insomma, è proprio il nuovo paesaggio mediale, con la sua enfasi sulle possibilità di relazione interpersonale, che ci spinge a ragionare ancora in termini di agorà. Ora non c’è dubbio che queste nuove tecnologie presentino delle grandi opportunità. Lo sanno bene i molti che nel mondo cattolico operano in questo campo con impegno ed entusiasmo. Il loro lavoro è proficuo, e già delinea una particolare linea di intervento – potremmo dire: una particolare forma di testimonianza. Non c’è dubbio però che il modo in cui queste tecnologie sono state spesso concepite, così come il modo in cui spesso si stanno sviluppando, fanno affiorare anche degli aspetti più problematici. Proverò allora a confrontare qui potenzialità e limiti, avanzando qualche osservazione su di un piano più generale.

Innanzitutto i social network nati con il web 2.0 tendono spesso ad offrire, e a consentire, quello che è un puro e semplice contatto. Quel che conta, è l’accessibilità, e cioè il raggiungere e l’essere raggiunti. Le modalità di partecipazione a Facebook, o anche a Twitter, per non parlare del più recente Chatroulette, sono assai indicative al proposito. Ma un contatto non esaurisce il senso di una relazione: quest’ultima si basa su una offerta di sé e insieme su un ascolto reciproco. Di qui, credo, un primo impegno a cui siamo chiamati, come uomini e come cristiani: non basta usare “intelligentemente” i media della rete (sostanzialmente i tre “new screens”: tv digitale, computer e telefonino), bisogna anche un po’ “rifondarli”, facendo sì che essi tornino ad essere strumenti di relazione vera.

Ora, che cosa dà verità alla relazione che il web sembra offrire? Almeno tre cose. La prima è un nuovo senso della gratuità. La maggior parte degli scambi sul web oggi non comportano una transazione di denaro, ma non per questo sono gratuiti: sono sostenuti da interessi che si concretano economicamente altrove – o che comunque comportano un “pagamento” in svariate forme, comprese quelle del “debito simbolico”. Reintrodurre la logica del dono – intercettando e rilanciando tutte le forme di committment che pure troviamo sulla rete – può essere un passo rilevante.

La seconda cosa è un nuovo senso dell’intimità. In rete sempre di più si sta perdendo il pudore. Sempre di più si “paga” l’interesse dell’altro mettendosi spudoratamente a nudo, anche in senso letterale. Ne deriva una mercificazione di sé, ma anche una perdita di quella che è la sfera più preziosa e spesso più autentica dell’io. Ristabilire colloqui che sappiano andare al cuore dell’uomo rispettandolo, e rispettando la fatica e il rischio che ciò comporta, può costituire un altro passo rilevante.

La terza cosa è un nuovo senso di fedeltà. I contatti in rete sono molte volte occasionali, quando non casuali. Ai social network, più che partecipare, ci si affaccia. E’ però possibile trovare in rete anche forme di comunità virtuali in senso più proprio, basate sull’impegno e la condivisione. Prendendo esempio da esse, diventa estremamente utile far emergere modelli positivi di disponibilità, in cui le persone coinvolte rafforzano il senso della loro presenza e insieme evidenziano la loro volontà di ascolto.

La gratuità, l’intimità e la fedeltà non sono del tutto assenti dalle attuali forme di comunicazione in rete: la loro presenza appare però spesso o marginale o nascosta. Si tratta allora di fare emergere questi tratti, perché la relazione mediale acquisti o riacquisti una sua più profonda autenticità. 

Ma oltre che cercare di essere “vera”, una relazione dovrebbe anche diventare “densa”. Mi spiego. Oggi le reti mediali tendono a presentarsi non come una metonimia, ma come una metafora delle reti sociali: quasi che esse non fossero semplicemente una parte del complesso sistema di relazioni che regge una società, ma ne fossero un sostituto. Ne deriva l’idea che i media costituiscano ormai l’ossatura del sistema: un’idea che indubbiamente coglie alcuni processi in atto, ma che rischia però anche di creare una illusione ottica. Se infatti è vero che la realtà sociale tende a smaterializzarli, a essere riassorbita in una dimensione spesso virtuale, è anche vero che essa continua a mantenere una sua concretezza e una sua consistenza precise. Così come se è vero che le comunità umane e i loro singoli membri hanno bisogno di un surplus comunicativo per affermarsi e riconoscersi ai loro stessi occhi, è anche vero che continuano ad esistere molte altre pratiche che lavorano a questo. Insomma, la dimensione comunicativa non riassorbe in sé né esaurisce la dimensione sociale, o ancor di più la nostra natura umana. Al contrario: la dimensione comunicativa acquista peso e senso nella misura in cui si innesta sul nostro essere uomini, e uomini appartenenti ad una comunità di uomini. Di qui appunto il bisogno di far ritornare “densa” la relazione che i medi ci propongono.

Di nuovo, due passi possono esser utili. Il primo è riscoprire il senso della cittadinanza. In un mondo globalizzato – anche e soprattutto a causa delle reti mediali – la cittadinanza non si presenta più con i caratteri tradizionali. E nondimeno la percezione di appartenere alla medesima civitas, di essere uniti da un comune destino, di poter contribuire assieme ad una “vita buona” (e non solo di fronteggiare la “nuda vita” delle biopolitiche) mi pare un tratto ancora essenziale.

Il secondo passo è tener viso il senso dell’alterità. Le reti mediali tendono a costruire comunità fortemente omologhe, in cui all’immaginazione di sé non corrisponde una eguale immaginazione dell’altro. Ma lo scambio comunicativo può e deve essere pensato appunto come apertura all’altro. All’altro che si affianca al sé, orizzontalmente; e all’altro che ci trascende, verticalmente. Solo così si esce da una autoriflessività che rende il dialogo in realtà un monologo mascherato.

Insomma, rendere la relazione più autentica; renderla più densa. Sono questi, almeno mi pare, degli obbiettivi urgenti, per noi che siamo diventati ormai, e inevitabilmente, uomini mediali. Ora, lo ripeto, non è tornando indietro che riusciamo a realizzare questi obbiettivi: i media sono ormai parte essenziale – e talvolta ingombrante – del nostro paesaggio quotidiano; la nostra esperienza si dispiega largamente ormai attraverso e grazie ad essi. Di qui la necessità di accettare alcuni postulati della cultura mediale: sapere che si è anche perché ci si espone, e che si vive anche perché ci si sintonizza. Ma proprio perché immersi in questa realtà, noi possiamo e dobbiamo letteralmente vivificarla, con coraggio e con fantasia. I semi ci sono, come dimostra anche la ricerca presentata qui da Chiara Giaccardi; si tratta di farli sbocciare. E’ lungo questo cammino che potremmo presentarci – o almeno ambire a presentarci – sempre più come “testimoni digitali”, e cioè interlocutori che hanno qualcosa da dire e da dare – anche perché hanno ricevuto – e insieme interlocutori che sanno operare con e sui media. Questa volontà e questa capacità di testimonianza ci porterà forse ad abbandonare qualche scelta con cui pure siamo convissuti. Penso all’idea di usare i media come semplici altoparlanti, quasi che parlare ad alta voce ci porti ad essere più persuasivi; o penso all’idea di usare i media come scettri, quasi che brandendoli come segno di potere dia per questo più forza. Nell’agorà – anche in quella mediatica – non serve imporsi. Serve piuttosto esporsi: offrire se stessi e la propria vita; offrire se stessi e la propria capacità di ascolto. Serve appunto testimoniare il faticoso e apparentemente indecifrabile cammino in cui siamo impegnati. Facendolo anche in questo nostro mondo, sempre più orientato a diventare, ma non a ridursi, a world wide web.

 

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