
«Solo una politica credibile può liberare dalle mafie»
È nel giorno dell’anniversario di morte di Rosario Livatino che il Papa riceve, per la prima volta nei suoi oltre 50 anni di storia, la Commissione antimafia. Il giudice che Giovanni Paolo II, come ha ricordato la presidente Rosy Bindi nel suo saluto a Bergoglio, aveva definito «martire della giustizia e indirettamente della fede», viene citato anche da Francesco, «il servo di Dio Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990», insieme con «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi 25 anni fa insieme a quanti li scortavano».
Parla di politica deviata, papa Francesco, «piegata a interessi di parte e ad accordi non limpidi», che soffoca la coscienza e arriva a «banalizzare il male, a confondere la verità con la menzogna e ad approfittare del ruolo di responsabilità pubblica che si riveste».
Al contrario, una politica autentica opera «per assicurare un futuro di speranza e promuovere la dignità di ognuno. Proprio per questo sente la lotta alle mafie come una sua priorità, in quanto esse rubano il bene comune, togliendo speranza e dignità alle persone».
Le mafie, aveva detto la Bindi, sono un «furto di democrazia, che calpesta i diritti e la dignità delle persone e nessuno può sentirsi indifferente o esonerato dal fare la propria parte». E aveva sottolineato l’importanza della «scomunica ai mafiosi» con la quale papa Francesco «ha tracciato una linea di separazione tra Chiesa e mafia che nessuno potrà più cancellare. Con il Suo alto magistero», aveva proseguito la presidente della Commissione antimafia, «ha reso evidente l’impossibilità di conciliare un'autentica vita cristiana con qualunque forma di adesione alle mafie. Ha costretto tutti, credenti e non credenti, a interrogarci sulla nostra capacità di operare davvero per la giustizia, perché quando la Repubblica, tutti noi, la politica per prima, non promuove diritti fondamentali come il lavoro, la salute, l'educazione si aprono varchi alle mafie».
«Lottare contro le mafie», ha ribadito, in piena sintonia papa Bergoglio, «significa non solo reprimere. Significa anche bonificare, trasformare, costruire, e questo comporta un impegno a due livelli. Il primo è quello politico, attraverso una maggiore giustizia sociale, perché le mafie hanno gioco facile nel proporsi come sistema alternativo sul territorio proprio dove mancano i diritti e le opportunità: il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria». E il secondo livello è quello economico «attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano dovunque disuguaglianza e povertà. Oggi non possiamo più parlare di lotta alle mafie senza sollevare l’enorme problema di una finanza ormai sovrana sulle regole democratiche, grazie alla quale le realtà criminali investono e moltiplicano i già ingenti profitti ricavati dai loro traffici: droga, armi, tratta delle persone, smaltimento di rifiuti tossici, condizionamenti degli appalti per le grandi opere, gioco d’azzardo, racket».
E se fondamentale è la lotta alla corruzione, che agisce «nel disprezzo dell’interesse generale» e che «rappresenta il terreno fertile nel quale le mafie attecchiscono e si sviluppano», altrettanto indispensabile diventa la costruzione di «una nuova coscienza civile, la sola che può portare a una vera liberazione dalle mafie. Serve davvero educare ed educarsi a costante vigilanza su sé stessi e sul contesto in cui si vive, accrescendo una percezione più puntuale dei fenomeni di corruzione e lavorando per un modo nuovo di essere cittadini, che comprenda la cura e la responsabilità per gli altri e per il bene comune».
Bene comune che, aveva detto nel suo saluto la Bindi è «la misura della legalità», bene comune «che siamo chiamati a realizzare come cristiani e come cittadini, nella consapevolezza della radicale distanza che separa le mafie non solo dal Vangelo ma anche dalla nostra Costituzione».
Il Papa scende nella concretezza delle situazioni e parla di beni confiscati alle mafie e riconvertiti a fini sociali che diventano «autentiche palestre di vita», dei testimoni di giustizia, che vanno tutelati perché «si espongono a gravi rischi scegliendo di denunciare le violenze di cui sono state testimoni», di una legislazione «contro la mafia una legislazione che coinvolge lo Stato e i cittadini, le amministrazioni e le associazioni, il mondo laico e quello cattolico e religioso in senso lato». E chiede, infine, di trovare strade perché anche chi appartiene a famiglie mafiose, ma è una «persona pulita» possa «uscirne senza subire vendette e ritorsioni. Sono molte le donne, soprattutto madri, che cercano di farlo, nel rifiuto delle logiche criminali e nel desiderio di garantire ai propri figli un futuro diverso. Occorre riuscire ad aiutarle, nel rispetto, certamente, dei percorsi di giustizia, ma anche della loro dignità di persone che scelgono il bene e la vita».
Annachiara Valle
© www.famigliacristiana.it, giovedì 21 settembre 2017